Vinci le tue paure: Gli insegnamenti di un Navy Seal
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Info su questo ebook
Webb ha rischiato la vita in molte missioni nei peggiori focolai di crisi del pianeta – lanci da alta quota, la cattura di una nave nemica in mare aperto, un avventuroso trasferimento di prigionieri nel cuore della notte tra le montagne dell’Afghanistan. Da Navy Seal, ha imparato a controllare il panico che si produce nelle situazioni di grande stress. Da opinionista televisivo e imprenditore, ha poi applicato le capacità sviluppate da militare alla vita di tutti i giorni.
Attingendo all’esperienza accumulata in combattimento e negli affari, attraverso aneddoti sempre intriganti e un vasto parterre di amici di successo, da astronauti a miliardari, Webb dimostra come chiunque possa espandere e trascendere i propri confini e imparare a usare le paure come propellente per raggiungere traguardi ritenuti impossibili. «La paura può essere una coppia di manette che ti fanno prigioniero – scrive – o una fionda che ti lancia verso l’alto».
La chiave, sostiene Webb, è non combattere la paura o respingerla, ma abbracciarla e governarla. In tal modo, più che essere un avversario, essa diventa un’arma segreta, che permette di avere la meglio anche nelle situazioni più avverse.
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Anteprima del libro
Vinci le tue paure - Brandon Webb & John David Mann
Tabella di marcia
LA BATTAGLIA AVVIENE NELLA TUA TESTA
La paura è il miglior amico di un campione.
– Josè Torres –
Campione mondiale dei Pesi medio-massimi
Siamo in tre a perlustrare una landa desolata, raccogliendo gli zaini che un altro plotone, poco prima, aveva ammassato, quando sentiamo un rumore. Ci voltiamo e guardiamo in alto la gola, verso la strada sterrata dove abbiamo parcheggiato il nostro autocarro pochi minuti prima. Una cinquantina di ragazzi afghani se ne stanno là, a sette otto metri di distanza, guardando giù verso di noi. È una piccola folla armata, e non sembra di buon umore.
È l’inizio del 2002, l’11 settembre è passato da pochi mesi, e ci troviamo nel Nord Est dell’Afghanistan per un’operazione di perlustrazione, a caccia di nemici. Ci domandiamo se non ne abbiamo appena trovato qualcuno… o se quel qualcuno non abbia appena trovato noi.
Ora si muovono verso di noi.
Ci circondano. Alcuni di loro si sono avvicinati al nostro autocarro e nulla in questo dolce mondo potrebbe fermarli e impedir loro di arrampicarsi nella cabina di guida, mettere in moto e andarsene, lasciandoci bloccati qui in compagnia dei loro amici, armati e incazzati.
Qualcosa scatta in me. Lo sento. Certi vasi sanguigni si comprimono, altri si dilatano. Ho le mani fredde, umide e sudate. I peli delle braccia e del collo si mettono sull’attenti. La bocca è secca. L’udito si fa improvvisamente più acuto. Riesco quasi a sentire il corpo che rilascia adrenalina, quando le ghiandole surrenali sparano i loro liquidi siluri: fuori uno! Partito, signore. Fuori due. Sul volto non ce n’è traccia, ma dentro di me sorrido. So di che si tratta.
Questa è paura. E io sto per usarla.
Non c’è tempo per fare valutazioni e studiare strategie. La situazione precipita. Ora. Il gruppo dell’autocarro ha il favore della posizione più elevata - un vantaggio tattico in ogni conflitto armato - e gli altri ci hanno bloccato qui nella gola. Sono quattro, cinque dozzine. Noi siamo in tre. Ci sovrastano in numero e per armamento. Sia fisicamente, sia logisticamente, non c’è modo di poter vincere. Dovremo cavarcela cacciando attributi e sfrontatezza.
Urliamo loro frasi aggressive che non comprendono. Loro fanno altrettanto. Si fanno più vicini e diventano sempre più minacciosi. I nervi a fior di pelle s’infiammano come fuochi d’artificio, le ghiandole surrenali e la pituitaria risvegliano il tronco cerebrale e i nervi spinali con il fragore della millenaria lotta per la sopravvivenza. Intorno a noi l’aria crepita. Gridiamo più forte.
No, non indietreggiano.
Li affrontiamo faccia a faccia, come se fossimo noi ad avere la situazione sotto controllo. Brandiamo le armi. Se ci trovassimo sul set di un western, ora gli spareremmo dei colpi tra le gambe, ma questo non è un film, noi non siamo John Wayne, qui non si scherza, e loro lo sanno. Se spariamo, non sarà a terra.
Si fermano, cominciano ad arretrare, si allontanano.
E noi ce la svigniamo, con i nostri attributi e la nostra spavalderia, su per la gola. Arriviamo fino all’autocarro e, poi, al campo base; i battiti del cuore tornano normali mano a mano che il mezzo ci scarrozza sullo sterrato. Abbiamo avuto paura? Puoi scommetterci.
Ma è questo che ci ha salvato.
È successo anche a te. Lo so. Non saresti qui a leggere queste pagine altrimenti.
Certo, non hai affrontato un gruppo di nemici pesantemente armati, in territorio straniero. Ma in qualche frangente della tua vita ti sei trovato a fronteggiare persone o situazioni più o meno minacciose. Succede a tutti. Fa parte della condizione umana. Hai vissuto momenti in cui la paura ti ha spinto ad attivare e impiegare forze e capacità interiori, che ti hanno permesso di arrivare dove pensavi fosse impossibile giungere. E, senza dubbio, ce ne sono stati altri in cui ti ha costretto a tornare sui tuoi passi e a scappare. Perciò ho parlato di condizione umana.
Prima di proseguire, vorrei che per un istante riflettessi sugli eventi della tua vita per poter individuare alcuni esempi di questi due opposti comportamenti.
Quelle volte in cui la paura ti ha spronato alla vittoria.
E le altre in cui ti ha trascinato verso la sconfitta.
Li hai trovati? Bene. Ora, ecco il punto cruciale: tutti questi scontri, con i loro trionfi e le loro disfatte, sono avvenuti nella tua mente.
Forse hai notato che nello scenario afghano che ho descritto prima, non abbiamo usato i nostri fucili. E non abbiamo fatto a pugni. Eravamo dei Navy Seal, ben addestrati nell’arte e nella scienza del combattimento con armi da fuoco e corpo a corpo. Eppure, niente di tutto questo ci è stato di aiuto in quella situazione. Equipaggiamento, tecnologie, dimostrazioni di forza, abilità combattive… nulla. Eravamo in posizione sfavorevole, inferiori per numero e in territorio straniero. Insomma, non avevamo alcun vantaggio.
Abbiamo usato un’unica arma: il controllo della paura.
Questo libro non t’insegna a fronteggiare bande ostili e armate in zone di guerra, ma a muoverti nel campo di battaglia della tua mente. Si occupa del rapporto che hai con la paura e con le dozzine, le centinaia di situazioni che dovrai affrontare, e in cui la paura potrà soffocarti o liberarti.
Tutto dipende da quel che accade tra le tue orecchie.
Vincere la paura non significa diventare fisicamente più forte o più risoluto, macho, stoico, aggressivo o «pompato». Significa imparare a individuare e modificare il dialogo con te stesso che avviene nella tua mente.
CACCIA GLI SQUALI DALLA MENTE
Lascia che ti faccia una domanda: di cosa hai paura? Non intendo: cosa ti rende «preoccupato» o «un po’ nervoso», ma quello che realmente ti terrorizza. Il volo? L’altezza? Il buio? I luoghi chiusi? O temi di annegare?
E cosa mi dici della paura di parlare in pubblico? Tanta, eh?! La gente, spesso, la cita in classifica prima di quella di morire. Il che la dice lunga.
Temi che l’amore della tua vita non arriverà mai, che morirai solo e dimenticato? O, forse, hai solo paura di impegnarti. Succede, e non soltanto nei rapporti, ma anche negli affari e nella professione: ci sono persone che temono di giocarsi tutto, di mettere le loro fiches nel piatto. Ma cosa succederebbe se dovessi perdere? Cosa accadrebbe se un affare non andasse in porto o una relazione finisse male? Una volta che ci sei dentro, ci sei dentro e basta.
Ho conosciuto gente che veniva presa dalla paura alla sola idea di dover fare una telefonata, usare un foglio di calcolo, compilare un breve modulo, o di nuotare. Molte persone hanno paure che per gli altri sono ridicole, ma sono molto serie per loro. Hai paura dei fallimenti e dell’umiliazione che ti perseguiterà? O del successo e del suo peso devastante? Abbiamo tutti paura di qualcosa.
Io degli squali.
«Ehi, Brandon, svegliati, ragazzo. Muoviti. L’ancora si è bloccata».
È notte fonda. In un attimo dimentico il sogno al quale mi hanno così rudemente sottratto, sicuramente più invitante della realtà che mi appresto a fronteggiare. Ho trent’anni, un diploma fresco di sommozzatore, e sono al mio primo, vero lavoro: assistente su una barca per immersioni, al largo della California del Sud. Ci siamo appena ancorati alle spalle dell’isola di San Miguel, la più a Nord delle Channel Island, dove le condizioni del tempo a volte sono così avverse da limitare perfino il traffico commerciale dei pescherecci. Capitan Mike, il nostro intrepido comandante, pensa che se il tempo peggiorerà e i passeggeri cominceranno a ballare assieme alla barca, potremo sempre fare rotta verso acque più tranquille.
A quanto pare, il tempo tende al peggio. È ora di muoversi. È il comandante a scuotermi per svegliarmi dal mio sonno profondo. Apro gli occhi, ma il cervello dorme ancora.
«Ehi, - mi ripete - dobbiamo salpare, l’ancora è bloccata».
A volte, quando si prova a tirarla su, la dannata ancora resta impigliata a qualcosa sul fondo dell’oceano, una roccia o uno scoglio. Si può cercare di disincagliarla manovrando con pazienza la barca, ma questo può richiedere ore. Molto più semplice e rapido è mandar giù un sub per capire dov’è l’intoppo e risolvere subito il problema.
Ancora un attimo e, finalmente, mi riconnetto col mondo. Capitan Mike mi dice che qualcuno deve andar giù a liberare l’ancora. E quel qualcuno sono io.
Non soltanto il tempo è diverso a San Miguel, ma anche il paesaggio. La zona mi ricorda «La valle dei dinosauri», un programma televisivo su una famiglia che viaggia a ritroso nei secoli. Basta scendere a una decina di metri per trovarsi in un acquario preistorico. Ho visto molluschi come gli abaloni, aragoste, ofiodonti, nototenie, specie ittiche che nelle acque che circondano le isole del Sud si possono trovare solo scendendo a una profondità tre volte superiore. Alle spalle di San Miguel, proprio dove ci troviamo noi, c’è poi una zona chiamata Tyler Bight, dove vive una vasta colonia di leoni marini.
Una cosa so sui leoni marini: attirano i grandi squali bianchi.
A rendermi più nervoso, ora, non c’è solo il fatto che so quanto gli squali siano pericolosi, ma anche che i ragazzi sulla barca ne hanno parlato tutto il giorno, raccontandomi ogni sorta di storia su di essi. Come se non bastasse, quel bastardo del capitano Mike ha organizzato una battuta di caccia agli squali e ha gettato in mare alcuni quintali di sangue e di interiora di pesci per attirarli. A questo punto la mia paura degli squali è alle stelle.
E ora pretendono che io vada là fuori? Nel cuore della notte? Ma non ci penso nemmeno! Nulla al mondo mi farà scendere là sotto. Questo è ciò che penso. Quel che dico, però, è «Okay». Potrei rifiutarmi, ma non voglio perdere il lavoro e, soprattutto, non mi va di apparire come «il codardo che se l’è fatta sotto per la paura».
Riscaldo la muta con l’acqua calda della vasca, la infilo e mi dirigo verso prua. La maggior parte dei passeggeri va a poppa, tranne l’equipaggio. I marinai raggiungono la prua, aprono il portellone e salto in acqua.
Vado giù molto in fretta, tengo le orecchie ben aperte e la torcia subacquea accesa, facendo del mio meglio per orientarmi nell’acqua limacciosa che smuovo nuotando. Non ho fatto molte immersioni notturne, ma so che stanotte la visibilità non è delle migliori. Con il mare agitato che smuove la fanghiglia sul fondale, è anche peggio del solito. Se qui sotto m’imbatto in qualcosa di grosso, probabilmente non lo vedrò finché non ci sarò sopra.
Cerco di non pensarci.
Con la coda dell’occhio vedo i leoni marini che mi sfrecciano accanto. Bene, dico a me stesso. Se loro sono qui intorno, vuol dire che forse gli squali sono altrove. O, forse, che io e i miei cari leoni marini siamo tutti delle esche.
Mi sforzo di non pensarci.
Ho portato a termine questa operazione una o due volte alla luce del giorno, quanto basta per conoscere il da farsi. Ti immergi, segui la catena dell’ancora, individui il problema, togli da bocca l’erogatore dell’ossigeno e fai esplodere per qualche secondo un grappolo di bolle mandando un segnale all’equipaggio che è sul ponte. Loro allentano la catena per consentire la manovra. Fai ondeggiare la catena intorno all’ostacolo e armeggi per sbloccare quel dannato pezzo di metallo. Completata l’opera, mandi un nuovo segnale con un altro tripudio di bolle e loro cominciano a tirare l’ancora a bordo. Tu, intanto, resti sotto e la segui fin quando non l’hanno tirata a secco, e a quel punto lanci un terzo messaggio di bolle, quello finale, e risali. Così, vado giù e vedo che la catena si è bloccata sotto uno scoglio enorme. Mando su un getto di bolle, aspetto che l’allentino e ci giro intorno. Mi sembra ci mettano un’eternità.
Faccio uno sforzo enorme per non pensare agli squali.
Alla fine, l’ancora è libera. Risalgo verso lo scafo il più in fretta possibile ed esco dall’acqua con un impeto di orgoglio e sollievo. Soprattutto sollievo. Mi tolgo di dosso la muta, mi asciugo e mi accascio sulla mia cuccetta, ma sono troppo nervoso per dormire.
Ripenso all’esperienza e al piacere provato arrampicandomi di nuovo sul ponte; alla fortuna che ho avuto di esserne uscito vivo. A poco a poco, però, quei pensieri lasciano il posto a una domanda che si fa strada nella mia mente: quante probabilità c’erano che uno squalo venisse a mettere il naso nel mio lavoro?
Insomma, quanto grave era realmente la minaccia?
A quel punto mi chiedo: com’è possibile che quel diavolo di capitano e gli altri siano stati così insensibili da raccontare tutte quelle storie di squali a un pivello trentenne spaventandolo a morte, ben sapendo che, prima o poi, sarebbe dovuto andare là sotto? Oggi, ripensandoci, mi rendo conto che non erano cinici e senza cuore. Mi stavano mettendo alla prova.
O, per essere più esatti: mi stavano dando l’opportunità di mettere alla prova me stesso.
Era la prima volta nella mia vita che mi trovavo faccia a faccia con una paura sconvolgente, che ti prende allo stomaco, ti fa accapponare la pelle e ti paralizza.
Quella notte la scampai, ma un anno dopo mi trovai di fronte al mio primo squalo, un grosso esemplare di verdesca, al largo della California del Sud. Questa specie, in genere, non attacca l’uomo, ma uno squalo è pur sempre uno squalo, e la verdesca cresce fino a raggiungere i due, tre metri. Era molto più grosso di me, insomma, e per denti aveva dei coltelli a serramanico. Un morso mi avrebbe rovinato la giornata.
Lo guardai, lui guardò me. E io la sentii, la scarica elettrica. Anni dopo, in Marina, come addetto al sonar, studiai come le onde sonore viaggiano e si propagano sott’acqua. Fu