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Sempre verso Itaca: Itinerari tra mito e riletture contemporanee
Sempre verso Itaca: Itinerari tra mito e riletture contemporanee
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E-book165 pagine2 ore

Sempre verso Itaca: Itinerari tra mito e riletture contemporanee

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Info su questo ebook

Volume vincitore del bando NUOVE OPERE (settore Libro e Lettura) promosso nel 2016 dalla SIAE, Società Italiana Autori ed Editori, in collaborazione con il MIBACT.
LinguaItaliano
Data di uscita30 dic 2017
ISBN9788864791937
Sempre verso Itaca: Itinerari tra mito e riletture contemporanee

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    Anteprima del libro

    Sempre verso Itaca - Bianca Sorrentino

    Prefazione

    di Francesco Paolo Del Re

    Un libro merita di essere letto e riletto quando riesce a parlare di noi, di quello che siamo, di desideri e tormenti, di furori e stupori che ci appartengono, tuttavia portandoci fuori di noi, lungo rotte d’incanto. E il viaggio che Bianca Sorrentino compie con la bussola puntata Sempre verso Itaca è prodigioso, appassionato, colto, frastagliato, sorprendente.

    È un viaggio limpido di conoscenza, che attraversa con entusiasmo e acume l’intero giacimento della cultura occidentale, risalendo alle fonti classiche per poi tornare al nostro Novecento, alle riletture contemporanee di narrazioni e personaggi che affondano le radici nell’antico, con riverberi e lampi capaci di illuminare la più stringente attualità, il nostro presente senza più dèi né eroi ma non per questo meno assetato di racconti in cui specchiarsi. La formula magica dell’incantesimo di Bianca Sorrentino è il mito: questo dispositivo narrativo senza tempo che ci contiene, che ci fonda e ci appartiene.

    Per invitare alla lettura di questo libro prezioso e stratificato, proprio da un mito vogliamo partire. Da un mito in forma di quadro.

    Nella collezione della Galleria nazionale d’arte moderna di Roma è custodito un grande dipinto di Cy Twombly del 1964, intitolato La caduta di Iperione. Esposto nell’anno della sua realizzazione alla Biennale di Venezia e l’anno successivo allo Stedelijk Museum di Amsterdam, il dipinto è arrivato alla Gnam sotto la direzione di Palma Bucarelli grazie a una donazione di Giorgio Franchetti, mecenate e collezionista legato alla galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis, che prese l’artista sotto la sua ala protettrice quando Twombly giunse per la seconda volta a Roma nel 1957, diventandone poi il cognato.

    Iperione, il titano del mito di cui Twombly si innamorò tanto da eleggere la sua parabola discendente a manifesto e sintesi del suo mondo poetico e dei suoi pellegrinaggi in Europa e lungo le rotte del Mediterraneo, è una delle numerose figure attinte dal patrimonio della cultura classica che hanno vissuto molte vite attraverso i secoli, perché il mito è una sorgiva, un fiume carsico che sotto di noi scorre e affiora quando meno ce lo aspettiamo, a soccorrerci nei momenti in cui la presenza dei suoi archetipi possa essere utile a spiegare, esemplificare, raccontare o drammatizzare i sentimenti più autentici, le passioni più incalzanti, i conflitti più laceranti, la tensione verso l’infinito che si scontra inevitabilmente con le rigide maglie della necessità e marchia i sentimenti umani come atti di tracotanza, incarnando la nostra tragedia quotidiana ed elevandola.

    Iperione è il titano che si fa carico sulle sue spalle dell’ambizione umanissima di un’elevazione antigravitazionale, di un superamento del limite, di una sfida di conoscenza. La sua superbia è scritta nel suo stesso nome – in greco è propriamente una forma di comparativo – che asseconda l’impulso titanico, appunto, a spingersi più in alto, sempre di più. Una figura, Iperione, ascrivibile alla cerchia delle divinità solari che originariamente, nella poesia omerica, coincide con il Sole stesso, di cui è epiteto, per poi sdoppiarsi nei testi successivi assumendo la forma di un titano. Nella guerra che vede opposti Chronos e Zeus, Iperione è schierato contro quest’ultimo e perciò destinato a soccombere, a cadere, a venire soppiantato, pagando caro il prezzo inevitabile – oltre che della guerra – dell’ascesa, dell’avere conosciuto, dell’azzardo sfacciato e del pungolo inquieto che spinge a violare le regole, a muoversi al di sopra, a precedere persino il sole.

    Dopo avere attraversato la letteratura – basti citare il romanzo di Friedrich Hölderlin, una raccolta di racconti di viaggio di Henry Wadsworth Longfellow e soprattutto il tormentato progetto incompiuto di poema epico-mitologico di John Keats – la figura del titano torna a giganteggiare, con il respiro che gli concede l’arte visiva e il linguaggio proprio della pittura, nel quadro dello statunitense Twombly dedicato all’Italia e al confronto con la tradizione classica. Infatti, come precisato dallo stesso artista all’interno del catalogo della mostra tenutasi nel 1978 al Whitney Museum of American Art di New York, l’opera conservata alla Gnam dovrebbe intitolarsi Second voyage to Italy e Italia significa, per Twombly, immersione nel mito e confronto con le rovine del suo passato monumentale.

    Il dipinto mescola suggestioni mitologiche e memorie personali dei viaggi del pittore fra le sponde del Mare Nostrum. Sfuggendo a ogni necessità di figurazione, Twombly addensa su una superficie bianca una ridda di segni grafici, di macchie di colore, di sgocciolature, che dicono con informale potenza la sconfitta subita dal titano nella guerra contro il futuro re dell’Olimpo e al tempo stesso del pellegrinare del pittore alla ricerca di un’identità culturale e personale. Cosa avrà pensato Iperione, quando la vertigine della sua caduta è diventata ineluttabile, quando il suo movimento ulteriore ha dovuto cedere al richiamo della gravità? Quale insegnamento avrà tratto il titano dalla sua parabola di ostinazione e fallimento? E quale conoscenza arricchisce lo stesso Twombly nel suo viaggio incessante che lo conduce sulle rotte di ritorno dal Nuovo al Vecchio Mondo, migrante all’incontrario, cosmopolita spaesato?

    A me sembra somigliare all’Iperione dipinto da Cy Twombly questo Sempre verso Itaca di Bianca Sorrentino. Come Twombly, Bianca Sorrentino accetta a viso aperto la sfida – etica, culturale e personale – di confrontarsi con il patrimonio che la classicità ha consegnato alla storia attraverso la scrittura, la poesia, il teatro. Un patrimonio che si offre – nel corso dei secoli e viepiù oggi – come un palinsesto continuamente sottoposto a cancellazioni e riscritture, viva pergamena che non si accontenta di restare nel chiuso di una biblioteca impolverata ma continua a parlare con voce ora sottile, ora potente, ora enfatica alle orecchie di chi sa ascoltare.

    Forse memore dell’esperienza del pittore come creatore e decifratore di codici nell’esercito statunitense, anche il dipinto di Twombly evoca il palinsesto, nella scardinata impaginazione in cui si dispiega la sua grafia arcana e puntuta, nervosa e gestuale. Un palinsesto dal quale vedere affiorare i segni e le cifre di una memoria permanente, indelebile eppure logorata, sminuzzata e tutta da riconfigurare nella sua barbara disseminazione. Un groviglio fitto da decrittare e sciogliere, nodo dopo nodo, come i gironi di una storia antica e tramandata di volo in volo, di predizione in predizione, di dolore in dolore… Così le pagine di Bianca, sapide e graffiate, cristalline e dense di stratificazioni.

    Come nel grande dipinto della Galleria nazionale d’arte moderna, il libro di Bianca Sorrentino articola un racconto torrentizio, la mappatura di un materiale titanicamente indomabile, un progetto di argomentazione ad alto tasso di entropia, una visione trasfigurante, affastellando una messe di singoli segni, citazioni, depositi, lampi che costellano gli ultimi tre millenni della storia umana.

    Il racconto delle pieghe del mito si fa giustamente minuto, minuzioso e avvincente. La lunga disamina, la trattazione estenuante e spesso autoreferenziale della saggistica tradizionale lasciano il posto a un analizzare parcellizzato, spezzettato in lacerti di approfondimenti, in frammenti che possono considerarsi conchiusi eppure addentellati, fitti di riflessioni e illuminazioni tra loro collassanti, slegate e aperte in direzioni continuamente ipertestuali ma comunque comprese in una discontinuità fluida e doviziosa che lascia transitare ragionamenti e contenuti da un segmento all’altro della trattazione, stimolando in questo modo il lettore a personali ricomposizioni e letture virtuose e attive.

    Un invito alla lettura e un atto d’amore sono questi fili, queste reti di parole. Forse è ingenuo, pretestuoso o indelicato attribuire significati ulteriori rispetto a quelli che con rigore e serietà un libro come questo porta con sé e consegna alla responsabilità del lettore. Ciononostante, ci è permesso di leggere il lavoro di Bianca Sorrentino come mosaico di frammenti di un’autobiografia letteraria, un registro delle passioni – di donna prima, di curiosa lettrice poi e infine di attenta studiosa – di chi lo scrive. Forse sono la necessità o il dovere etico di trovare risposte un pungolo interiore, che spinge l’autrice a interrogarsi sul significato profondo della sofferenza all’interno di un percorso esistenziale, a rendere un conto impari dello «straziante magistero dell’esperienza», per verificare se è vera tuttora la lezione dei classici e cioè che dal dolore si possa imparare, distillando insegnamenti preziosi, facendo sì che la sofferenza sia feconda e faconda, che il patire sia fruttifero nell’andare. Ma questo libro è anche importante strumento per l’autobiografia di una cultura, la nostra. Che sulle strutture del mito tuttora si sostiene, sulle passioni dei suoi personaggi, sulle rotte fantasmagoriche delle loro avventure, sulle metafore e sulle allegorie del loro essere discorsivo.

    Allora l’antidoto o la risposta ai fondamentalismi, allo stridore dei conflitti vicini o lontani ma comunque globali, alla violenza sempre più sofisticata e pervasiva e totalizzante dell’uomo sull’uomo, ai caroselli della politica, alle inesorabili logiche dell’economia e del mercato è proprio in questo ricordarci di quanto siamo e siamo stati umani, capaci di accenderci di poesia e di tessere con la poesia la materia fluida del sogno. Non solo. In un mondo in cui l’esperienza della realtà è sempre più traducibile e identificabile e interpretabile nelle narrazioni che di essa si fanno, il mito è necessario. E, sui barconi dei profughi che solcano il Mediterraneo, chissà se un nuovo Odisseo desideroso di tornare a Itaca o un nuovo Enea in cerca di una patria da rifondare stanno imparando dalle onde del loro viaggio un nuovo modo di cittadinanza, impastata di una memoria da preservare e tramandare, di un nuovo trucco con cui giocare il destino che è sempre ancora tutto da scrivere.

    Mito come guida, mito che ci illumina e ci intona. In un periodo storico in cui l’Occidente sbanda, la coscienza del mito e le divertite passioni che ne fanno pulsare la carne gloriosa possono aiutarci a vedere meglio, a vedere oltre, spingendo lo sguardo dove ha osato Iperione. Perché la conoscenza è sempre preferibile alla non-conoscenza, nonostante il dolore. Se è vero che oggi, come scrive Aldo Busi nell’incipit del suo Seminario sulla gioventù, di questo dolore oltre il filtro del tempo non rimane niente («Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza. Il peggio, una volta sperimentato, si riduce col tempo a un risolino di stupore, di essercela tanto presa per così poco, e anch’io ho creduto fatale quando si è poi rivelato letale solo per la noia che mi viene a pensarci. A pezzi o interi, non si continua a vivere ugualmente scissi? E le angosce di un tempo ci appaiono come mondi talmente lontani da noi, oggi, che ci sembra inverosimile aver potuto abitarli in passato»), resta per

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