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Eraldo Affinati: La scuola del dono
Eraldo Affinati: La scuola del dono
Eraldo Affinati: La scuola del dono
E-book255 pagine3 ore

Eraldo Affinati: La scuola del dono

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Info su questo ebook

«Queste persone imperfette mi commuovono, in quanto rappresentano, come meglio non si potrebbe, l’essenza dell’umanità. Se così non fosse, non verrebbero da noi. Resterebbero a casa. Chi vive sbaglia. Si sporca le mani. Mette in gioco se stesso. Ma la cosa più bella è un’altra: l’energia da cui sono animati questi individui feriti, spiritualmente irrequieti, alla perpetua ricerca di qualcosa che forse, inutile negarlo, non troveranno mai, deriva da tale incompiutezza. Il fascino che li avvolge si alimenta dell’insoddisfazione, della frenesia» (Eraldo Affinati, Via dalla pazza classe). La ricerca delle motivazioni profonde, non ancora del tutto acquisite, di questa energia e di questa commozione è il sentiero principale percorso nell’impianto saggistico della I Parte della monografia su Eraldo Affinati. Nella II Parte, caratterizzata da un intento didattico come nell’idea della collana “Universale”, il libro compone per la prima volta una cronistoria dei libri di Affinati attraverso un’ampia rassegna della critica militante, con una corposa bibliografia degli interventi saggistici dell’autore e sull’autore. Ad una visione progressiva dell’opera di Affinati risalta il dilatarsi dell’esperienza della gratitudine colta in relazioni umane sempre più avvincenti, dalla percezione del «vuoto pneumatico» dell’adolescenza alla fondazione della comunità educativa della Penny Wirton che dall’iniziale nucleo romano si è estesa in tutta Italia e in Svizzera.
La scuola del dono.
LinguaItaliano
Data di uscita24 mar 2020
ISBN9788838249167
Eraldo Affinati: La scuola del dono

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    Anteprima del libro

    Eraldo Affinati - Fabio Pierangeli

    Fabio Pierangeli

    ERALDO AFFINATI

    La scuola del dono

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    Per la sezione Interpretazioni – Letteratura

    Coordinamento

    Emilia Di Rocco (Università La Sapienza di Roma)

    Giuseppe Leonelli (Università Roma Tre)

    Fabio Pierangeli (Università Tor Vergata di Roma)

    Copyright © 2019 by Edizioni Studium - Roma

    ISSN della collana Universale 2612-2812

    ISBN 978-88-382-4916-7

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 9788838249167

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    INTRODUZIONE

    PRIMA PARTE

    LA SCUOLA DEL DONO

    1. «Senza l’imperfezione non sapremmo misurare il valore della vita nelle sue molteplici forme»

    2. L’urto

    3. I forti hanno bisogno dei deboli

    4. L’orrore e il mostruoso

    5. Il fascino dell’eroe assoluto

    6. I due semidei

    7. «Nel silenzio, nella fiamma, nell’immobilità». Oltre la paura

    8. Allora ci si vorrebbe poter affidare all’essenziale

    9. Il padre e i viaggi con gli allievi

    10. Accendere un fuoco

    11. Erminio: gli innominabili sono tutti i nomi del mondo

    12. La scuola di Penny

    SECONDA PARTE

    ERALDO AFFINATI: IL FIGLIO, LO SCRITTORE, L’INSEGNANTE

    1. Lo scrittore

    2. Il figlio. L’insegnante

    3. La vera libertà implica l’accettazione del limite

    4. I venti volumi di Eraldo Affinati (1992-2019) finora pubblicati: sintesi e inserti critici

    BIBLIOGRAFIA

    INDICE DEI NOMI

    UNIVERSALE STUDIUM

    Universale

    Studium

    103.

    Nuova serie

    Interpretazioni – Letteratura

    Fabio Pierangeli

    Eraldo Affinati

    La scuola del dono

    È una fortuna quando il lavoro coincide con l’interesse.

    Ancora di più, come in quei giorni a Tor Vergata, quando dentro a tutti e due ci sono degli amici.

    L’occhio guarda per questo è fondamentale.

    È l’unico che può accorgersi della bellezza.

    Il problema è avere occhi e non vedere, non guardare le cose che accadono, nemmeno l’ordito minimo della realtà.

    Occhi chiusi. Occhi che non vedono più.

    Che non sono più curiosi. Che non si aspettano

    che accada più niente.

    Forse perché non credono che la bellezza esiste.

    Ma nel deserto delle nostre strade Lei passa, rompendo il finito limite e riempiendo i nostri occhi d’infinito desiderio.

    ( Patrizio Barbaro)

    INTRODUZIONE

    «Non c’è sfida più bella di quella di non perdere nessuno per strada, di non lasciarlo indietro»

    ( Mario Rigoni Stern)

    La presenza di Mario Rigoni Stern affiora silenziosa nella casa romana di Eraldo Affinati [1] .

    I dialoghi per la stesura di questo libro gli ricordano i pellegrinaggi dal Maestro, agli altipiani di Asiago, l’emozione di sfogliare i libri e i manoscritti nella sua biblioteca, di scendere nella cantina piena di oggetti e cimeli e di risalire le mura circondate dal profilo delle montagne.

    Ricorre spesso nelle nostre conversazioni il ricordo di Patrizio Barbaro, a cui questo libro è dedicato, trascorsi vent’anni dalla prematura scomparsa; per primo mi ha indicato in Affinati uno scrittore rigoroso, di forte impianto etico, dallo stile lirico e sentenzioso, aspro e immaginifico. Capace di intaccare la feccia del linguaggio come assalire le zone evocative della prosa lirica.

    Per non lasciare nessuno indietro, come scrittore e come insegnante, cosciente della responsabilità delle parole, a cui devono seguire azioni concrete nella sfida più bella.

    Patrizio, saggista, regista, autore di documentari su scrittori basati sui materiali delle teche RAI, recensisce, il 10 febbraio 1996, Bandiera bianca, il terzo libro dello scrittore romano, sulle colonne del settimanale «Vita», oggi mensile, testata giornalistica del volontariato e del terzo settore, da quel momento in poi attenta allo svolgersi dell’impegno pedagogico e letterario di Affinati, diventato con il tempo un punto di riferimento insostituibile (si veda, nella II Parte l’intervista di Giuseppe Frangi, attuale direttore della rivista).

    Barbaro, sensibile ai temi civili e all’universo dei freaks, nella più ampia delle accezioni, quale la intende Leslie Fiedler [2] , aveva intuito le potenzialità di una scrittura inquieta, a tratti onirica, nascoste dietro le metafore belliche e la baldanzosa richiesta ribelle di felicità, riscatto da una condizione di solitudine e di vuoto pneumatico vissuta nell’infanzia, nel difficile rapporto con il padre, figlio illegittimo.

    Rompere il finito limite, scrive Patrizio nell’incipit di un suo romanzo, rimasto alle prime righe. Ancor prima di affrontare con una dignità commovente, piena di grazia [3] , il calvario della malattia, aveva compreso che il desiderio di bellezza e di senso consiste nella condivisione, nel dare credito agli incontri significativi che la realtà ti pone dinanzi.

    Si tratta, come aveva intuito recensendo Bandiera bianca, del punto infuocato della prima parte dell’ispirazione di Affinati, fino a Il nemico negli occhi, con richiami e ritorni fino agli ultimi libri dedicati al mondo della scuola.

    Immerso in quel passato adolescenziale, il protagonista del libro affronta a viso aperto i suoi astratti furori, i suoi turbamenti alla Törless, avverte con forza il compito di protezione degli scarti della società [4] , in un equilibrio precario tra volontà di potenza, solipsistica, tendenzialmente dominatrice e disponibilità a donare gratuitamente, per la costruzione di una comunità basata sui valori del dono reciproco.

    Bandiera bianca si chiude con un appello di persone in apparenza Innominabili per la società, disabili, malati mentali, disagiati, interpellati ad uno ad uno nel padiglione nascosto del manicomio di Villa Felice, mentre la televisione entra nell’Istituto detentivo alla notizia della evasione di due matti: il protagonista (seconda emanazione del mitico Comandante degli esordi dello scrittore romano) e il Coprofago. Il primo decide di tornare nel manicomio, schivando l’inattesa pubblicità e chiama per nome quelle persone ormai certo che i mostri siamo noi; il secondo cerca di attizzare individualmente la debole fiamma di una rivoluzione in un avvenire mai realizzato.

    Un bivio che si ripresenta nella narrativa di Affinati almeno fino a Il nemico negli occhi e a Secoli di gioventù, due tensioni opposte, nitidamente visibili quando l’uomo viene posto in condizione di estremità, come nell’universo concentrazionario, reclusorio, rappresentato nello spazio claustrofobico dell’ospedale psichiatrico, in cui è adombrata La Martellona di Guidonia, comune alle porte Est di Roma.

    Affinati vi ha abitato e insegnato, visitando la struttura ospedaliera, conoscendo alcuni malati e traendone una forte impressione: «certe notazioni fisiche, certi corpi ipertrofici di malati mentali mi sono rimasti in testa come certi quadri di Bacon» [5] . Nel romanzo ha voluto trasmettere non una fotografia di quella realtà concentrazionaria ma la sua quintessenza filosofica e antropologica.

    Esperienza, leggiamo ancora nell’intervista a Barbaro su «Vita», che si intreccia, percettivamente e anche cronologicamente, con quella del viaggio ad Auschwitz raccontata in Campo del sangue: «È come se la specie umana mandasse avanti questi uomini malati a conoscere degli spazi, delle cose nuove che nelle condizioni di normalità non si conoscono» [6] .

    Il segno di una predilezione che, nel lungo cammino trentennale della narrativa di Affinati, si indirizza non più su un interesse agonistico e ribelle di cui le schiere dei reietti formano la testa di ponte per combattere i privilegi dei benestanti, ma all’attenzione integrale per la persona, con la responsabilità che ne deriva.

    Alla domanda di Barbaro se avesse avvertito disagio nel manicomio, Affinati risponde di aver sentito, come nelle visite in carcere, un senso di grande umanità: «sono uomini assolutamente più sensibili, sia fragili che sensitivi, sono come una ferita aperta, sono pronti ad ascoltare qualsiasi cosa, sono molto ricettivi anche da un punto di vista umano» [7] .

    Un passaggio da reazioni istintive alla consapevolezza della responsabilità pedagogica, una volta posato lo sguardo sulla persona, da cui non ci si può sottrarre, ribadita nei romanzi, nei saggi, nelle centinaia di articoli per i quotidiani.

    Nelle nostre conversazioni, Affinati ricorda una coincidenza illuminante intorno a Guidonia. La tessera mancante di un mosaico che si andava costruendo tra le esperienze di incontro con una umanità coatta.

    Riguarda un frammento cinematografico tra i più intensi della ispirazione di Pier Paolo Pasolini, il finale di Mamma Roma, del 1962.

    Rappresenta l’agonia del ragazzino Ettore che, arrestato per un banale furto, viene legato al letto di contenzione e abbandonato in una umida cella. Da quella prigionia, chiama la madre, da lontano, inascoltato, in preda a convulsioni, in agonia. In piena contaminazione, l’allusione a celebri opere medievali e rinascimentali, a chiaroscuri caravaggeschi con la struggente musica di Vivaldi rendono universale il dolore del ragazzo, rappresentano, nella scala simbolica pasoliniana, la negazione brutale delle premesse di felicità provenienti dall’infanzia.

    «Riportateme a Guidonia, quando ero piccoletto», grida il ragazzino con un filo di voce, in quella stanza buia e umida.

    Un fatto di cronaca di qualche anno prima che Pasolini certifica ricorrendo a modelli artistici della tradizione pittorica su soggetti religiosi, con una modalità ripresa da Affinati con strumenti linguistici complessi, per descrivere una diversa dimensione di proletariato urbano nella Roma del secondo millennio, formata da immigrati per lo più africani residenti nelle periferie della città o nei paesi limitrofi. Non a caso il ritratto di Pasolini nei suoi luoghi d’elezione chiude il volume di viaggio nei territori dei classici della letteratura italiana Peregrin d’amore. Sotto il cielo degli scrittori d’Italia, sottolineandone il tributo, ma anche certe distanze da alcune scelte estetizzanti dello scrittore di Ragazzi di vita.

    Guidonia, sede del manicomio di Villa Felice, nella fiction romanzesca congiunge idealmente l’Eden negato dell’infanzia di Ettore con la creaturalità affettiva degli Innominabili. La cittadina romana rappresenta, in solide mura, il forte anelito alla felicità, misconosciuto dalla tirannia della società omologante, consumistica, con una falsa idea di sanità, fisica e morale. Siamo tutti materia da plasmare, desiderio di rivivere quello stato edenico, almeno per alcuni istanti della vita.

    Non esiste alcuna differenza tra il dentro e il fuori del manicomio. L’intuizione di voler dare ai ragazzini come Ettore una dimora (farli tornare a Guidonia equivale oggi al ritorno nell’Africa di Khaliq e di altri allievi raccontata in La Città dei Ragazzi e in Vita di vita), si realizza concretamente con la Penny Wirton, la scuola di italiano per stranieri fondata nel 2008 con la moglie Anna Luce Lenzi e con il tempo diventata una vera e propria comunità educativa (vedi le interviste ad Affinati nella II Parte).

    Nell’intervista del febbraio del 1996 ne troviamo il germe costitutivo, quando Affinati, in sintonia evidente con l’interlocutore, descrive il sofferto passaggio di tutta una generazione da un radicalismo etico ribelle all’ordinarietà della condizione quotidiana (appresso, nei più autentici, al desiderio di rompere i limiti), sfociata in un senso di egoismo per cui «la solitudine è totale oggi nella grande città». Nel libro vi è l’elaborazione del lutto per questa perdita di desiderio di eticità, come se si volesse prendere per mano il vuoto di quei giovani nati tra la metà degli anni Cinquanta e i primi dei Sessanta.

    Passati più di vent’anni, nel volume del 2019, Via dalla pazza classe, Affinati può affermare:

    Queste persone imperfette mi commuovono, in quanto rappresentano, come meglio non si potrebbe, l’essenza dell’umanità. Se così non fosse, non verrebbero da noi. Resterebbero a casa. Chi vive sbaglia. Si sporca le mani. Mette in gioco se stesso. Ma la cosa più bella è un’altra: l’energia da cui sono animati questi individui feriti, spiritualmente irrequieti, alla perpetua ricerca di qualcosa che forse, inutile negarlo, non troveranno mai, deriva da tale incompiutezza. Il fascino che li avvolge si alimenta dell’insoddisfazione, della frenesia. Cos’è successo nelle loro vite? Quali talenti sono stati abbandonati? Quali promesse tradite? Quali bellezze dissipate? Quali sogni svaniti? Avanti, Ismail, fallo capire a Irene. Sorin, dillo a Matteo. Tao, fai in modo che Claudia lo sappia. E tu, Francisca, spiegalo ad Alberto. Era proprio quello che intendevi, Khaliq, quando in Africa mi dicevi: «Porof, questa è vita di vita!» [8] .

    Per valorizzare totalmente questa sensibilità acuta, anche nelle persone disabili, i protagonisti della narrativa di Affinati devono compiere un lungo percorso. Umanamente affascinante, tra riprese, cadute, utopie e ribellioni.

    È il sentiero che voglio ripercorrere nella I Parte di questo libro, con gratitudine e commozione verso lo scrittore e la sua opera, umana, educativa, letteraria.

    Nella II Parte, a fini didattici e come invito alla lettura, offro delle sintesi dei venti volumi di Affinati.

    Chi non ne ha letto l’opera o la conosce parzialmente, come presumibilmente la maggior parte dei giovani studenti dei corsi universitari, potrà giovarsi di queste brevi tracce, corredo necessario al taglio tematico estremamente personale della I Parte. Consiglio a questi lettori di iniziare dalla II Parte, rimandando anche al sito di Affinati, dove, di mano dell’autore, o comunque da lui riviste, si trovano analoghe sintesi, libro per libro.

    Vi unisco importanti indicazioni provenienti da stralci di autorevoli interventi della critica, per lo più da quotidiani di caratura nazionale, che rafforzano la breve analisi della I Parte sul ruolo di Affinati nel panorama della narrativa italiana contemporanea, come prevedono i parametri della collana che mi ospita, a coronamento di mezzo secolo di collaborazione con Studium a cui devo un sentito ringraziamento, in particolare nelle persone del presidente delle Edizioni, Giuseppe Dalla Torre, il responsabile del Comitato editoriale (di cui mi onoro di far parte), Giuseppe Bertagna, di Simone Bocchetta, responsabile editoriale, e di Anna Augusta Aglitti, caporedattrice e responsabile della rivista.

    Ad una visione complessiva, minima e di servizio, risalta il dilatarsi in gratitudine e in curiosità di una esperienza umana e letteraria, dalla percezione del «vuoto pneumatico» dell’adolescenza alla fondazione della comunità educativa della Penny Wirton, che dalla prima esperienza romana si è estesa in tutta Italia e in Svizzera.

    La scuola del dono.

    «Ponete le domande. Colpite. Mettetemi al muro. È questo che voglio. Altrimenti perché uno dovrebbe scrivere?. Questo professore che ascolta uomini e ombre traduce in effetti il principio che nella scuola uno non aiuta, ma cerca aiuto e può ricavare più miele che da tutti i fiori di Marienbad (Kafka)» [9] .


    [1] Eraldo Affinati cura il Meridiano delle opere di M. Rigoni Stern, Storie dall’Altipiano, Mondadori, Milano 2003, con il saggio introduttivo ispirato alla parola tematica responsabilità: La responsabilità del sottufficiale. Inoltre dedica a Rigoni diversi articoli, introduzioni, curatele, tra cui M. Rigoni Stern, Lettere editoriali (1951-1980), Einaudi, Torino 2018.

    [2] Cfr. L. Fiedler, Tyranny of the Normal. Essay on Bioethics, Theology & Mith, 1996, traduzione italiana di Maria Baiocchi, La tirannia del normale. Bioetica, teologia e mito, Donzelli, Roma 1998 e L. Fiedler, Freaks: Myths and images of the Secret Self, recente una nuova edizione italiana con traduzione di Ettore Capriolo, Freaks: Miti e immagini dell’Io segreto, Il Saggiatore, Milano 2019. Punto di riferimento per gli studi culturali su questo tema: The Disability Studies Reader, a cura di L.J. Davis, Routledge 2013.

    [3] Per rendere presente il ricordo di Patrizio, a vent’anni dalla morte, offro al lettore, con gratitudine e commozione, le vibranti espressioni di Andrea Gareffi: «Se è vero quanto è scritto in un libro che Patrizio non ha fatto in tempo a leggere, che là, sulla terra, tutto era importante; ma qui altro è necessario, è vero anche che uomini come Patrizio non hanno avuto bisogno di libri per sapere qui sulla terra che cosa fosse necessario là nell’oltretempo», A. Gareffi, Ricordo di Patrizio Barbaro, in P. Barbaro, Sperdutezza. Sguardi e volti del Novecento letterario, a cura di F. Pierangeli, San Gabriele, Roma 2001, p. VII.

    [4] Mi permetto di rimandare a F. Pierangeli, Ultima narrativa italiana, 1985-2000, Studium, Roma 2000, pp. 48-56.

    [5] L’intervista, Il mio viaggio all’estremità degli uomini, e l’articolo, Io desidero la felicità: sono matto? di Barbaro usciti su «Vita» del 10 febbraio 1996 sono riprodotti nel libro postumo di raccolte dei saggi e degli articoli da me curata: P. Barbaro, Sperdutezza. Sguardi e volti del Novecento letterario, cit., p. 55.

    [6] Ivi, p. 57.

    [7] Ibid.

    [8] Via dalla pazza classe. Educare per Vivere, Mondadori, Milano 2019, p. 141. Nel caso dei libri a firma Eraldo Affinati nelle note ometto nome e cognome.

    [9] G. Ficara, Eraldo Affinati. Romanzo di romanzi, «Il Sole-24 Ore», 25 febbraio 2019 .

    PRIMA PARTE

    LA SCUOLA DEL DONO

    1. «Senza l’imperfezione non sapremmo misurare il valore della vita nelle sue molteplici forme»

    Su questa strada nessuno deve smarrirsi, esorta, dunque, Mario Rigoni Stern.

    Neanche Hurbinek, il bambino figlio di Auschwitz, di circa tre anni, paralizzato dalle reni in giù, gambe atrofiche, sottili come stecchi, ma con occhi terribilmente vivi e desiderosi.

    Lo ritrae, evocandolo dalle atrocità del lager, Primo Levi, lì dove un filo di pietà attraversa il baratro tra la vita e la morte.

    Marco Paolini lo rappresenta lucidamente per chiudere in apocope il racconto teatrale, Ausmerzen: vite indegne di essere vissute utilizzando la citazione di Rigoni Stern che ho ricordato all’inizio.

    Soltanto Henek, un ragazzo di quindici anni, ungherese, si prende cura di Hurbinek, tranquillo e testardo sedeva accanto alla piccola sfinge tentando di farlo parlare, di captare i suoni della sua lingua:

    Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, il senza nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz, Hurbinek morì ai primi giorni di marzo del 1945, libero ma non redento [1] .

    Nulla resta di lui:

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