Invettive apotropaiche
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Anteprima del libro
Invettive apotropaiche - Francesco Bennardo
B.
PREFAZIONE
Titolo ostico e pretenzioso Invettive apotropaiche, quasi una sfida al lettore medio (sempre che nell’annaspante mercato dell’editoria abbia ancora senso tale astrazione), quasi una beffarda dichiarazione di distanza, di superiorità, di sciamanica spocchia. E in effetti Francesco Bennardo inaugura la sua raccolta con un vaticinio, con quel Son spirito defunto da un bel pezzo
che suona al contempo come un anatema contro la modernità, contro la concretezza della miseria e contro l’egoismo della contingenza. Sono invettive, sì, ma ammantate di una dimensione magico-rituale e di un andamento sapienziale, non lontano, anche per precise scelte lessicali, dalla corrosività biblica; e sono invettive che si compiacciono di uno sfacciato classicismo, selettivo ma non canonico, che predilige la satira latina, la dotta tradizione dantesca e lo scolastico poetichese
di ascendenza carducciana.
Ma proprio questa predilezione per la cantilena, questo affastellamento alla burchia
di idee e registri linguistici, questa consapevole pomposità sono la chiave per penetrare il vero quid letterario di Bennardo: l’ironia. Infatti da subito, dalla sua seconda invettiva, dal sapore di Salmo veterotestamentario, appare evidente l’ambivalenza di quel a morte il capitale!
che, lungi dal depotenziare lo spessore politico del componimento, lo alleggerisce, lo fa levitare
. Torneremo sulla peculiare visione che questo novello Camus che è Bennardo ha della rivolta; per ora basti dire che nemmeno essa è esente dalla vis parodica del poeta. Arcaica panacea è un perfetto travestimento burchiellesco; Una scarpa, mille storie ha il delicato sarcasmo di un Gozzano, in una narrazione che finisce, auto-parodicamente, con una demistificatoria auto-esegesi; Padre tortura, Canzone per un professore e soprattutto Nuovi sepolcri, forse la summa della raccolta, fra delicate pennellate crepuscolari, sentiti autobiografismi e sostenutezze formali vivono di una commossa canzonatura; infine, le riscritture parodiche del finale, dichiarate e con tanto di scuse ai beffati, scoperchiano definitivamente le potenzialità formali del poeta.
Viene da chiedersi il motivo di tale ironia, ardua e mai compiacente, non scoperta ma sempre da rintracciare, soprattutto in un’epoca in cui, se fa ridere, la poesia si può (quasi) vendere. Bennardo sembra usare l’ironia come arma conoscitiva, come viatico per affrontare il viaggio della frustrazione del vivere. Al di là della comicità (anzi, al di sopra di essa, quasi a soverchiarla), c’è il dolore di un mondo malato, che esclude invece che integrare, che isola ed esilia il poeta; toccante e virulenta, Il mio paese ci presenta un uomo solo e straniero
, quasi forzato ad arroccarsi nella sacerdotale funzione della scrittura, per esorcizzare i