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Dall'Europa del mito, all'Europa di Dante: Un imprevedibile passato
Dall'Europa del mito, all'Europa di Dante: Un imprevedibile passato
Dall'Europa del mito, all'Europa di Dante: Un imprevedibile passato
E-book255 pagine3 ore

Dall'Europa del mito, all'Europa di Dante: Un imprevedibile passato

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Proprio dopo che Nietzsche ebbe proclamato «la morte di Dio» e tutto, anche le parole fondamentali – io, Dio, padre, madre, felicità, libertà – sembrò sgretolarsi in una sconnessa miriade di piani, proprio allora la cultura scoprì Dante la cui eco risuona, per non citare che pochi nomi, tra Eliot e Beckett, tra Montale, Levi e molti altri. Ricordando a ciascuno che cosa significa essere uomini, che la libertà è un dono rischioso e va meritato ogni giorno, che il Paradiso può essere qui e ora, che l’Inferno si annida ovunque, che bastano un gesto o una lacrima a salvare una vita. Che l’indicibile parla con la voce della poesia e la poesia parla con la voce di noi uomini. Che tutti siamo storia e apparteniamo alla storia, ma non tutto finisce con la storia. Che possiamo subirla o tentare di modificarla, magari scrivendo, oppure leggendo, quello straordinario romanzo d’iniziazione e d’avventura che Dante chiamò, in tutta umiltà, semplicemente «Commedia».

Maristella Mazzocca, laureata in Lettere classiche, dottore di ricerca in Filologia moderna, giornalista pubblicista, è stata docente nei Licei e poi collaboratrice di quotidiani e riviste. Ama gli autori di frontiera, in particolare Giacomo Leopardi, legato a doppio filo al mondo classico eppure anticipatore come nessuno dell’età della crisi. Ama non meno Dante, inattuale rispetto all’oggi nostro e suo e perciò contemporaneo dell’umanità. Ad entrambi ha dedicato saggi comparsi su autorevoli riviste accademiche (Lettere italiane, Sigma, Tradurre poesia).
Ha ideato e promuove da oltre un quin- dicennio la rassegna di incontri I valori che non muoiono e, da un quinquennio, il concorso per la Scuola secondaria Adotta una parola. Vive a Padova ed è attualmente Presidente del Comitato di Padova della Società Dante Alighieri.
LinguaItaliano
Data di uscita28 set 2021
ISBN9788865127803
Dall'Europa del mito, all'Europa di Dante: Un imprevedibile passato

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    Anteprima del libro

    Dall'Europa del mito, all'Europa di Dante - Maristella Mazzocca

    Prefazione

    Le nozze tra il mito e la storia

    Un mito rinasce ogni volta che qualcuno lo evoca. Ma anche la storia vive finché coltiviamo la nostra memoria. Tra il mito e la storia ci sono almeno tre mirabili ponti: la religione, l’arte e il pensiero.

    La chiave del mito diventa il filo d’Arianna dell’opera di Maristella Mazzocca che è in realtà un viaggio alle radici della civiltà europea: figure del mito, personaggi storici entrati nella leggenda, santi e pensatori che hanno colmato con le loro opere il fossato che si apre tra il mito e la storia. Ma l’Europa resta l’incipit del libro, che esordisce ricordando appunto il mito di Europa; e l’Europa lo conclude, in bellezza, con Dante Alighieri visto come padre dell’Europa.

    Atene, Roma e Gerusalemme sono i bastioni della civiltà europea: l’Atene dei miti, di Omero ma anche di Socrate che fu forse un demitizzatore più che un mitoforo, sostituendo al Mito il Concetto e agli Dei il demone interiore. Poi la Roma dei Cesari ma anche delle donne famose, che portò l’impero non solo sulle spade ma anche nelle opere pubbliche e nel lindo splendore del latino. E la Gerusalemme di Cristo, dei cristiani, poi dei santi che in suo nome evangelizzarono il mondo. Oltre Atene, Roma e Gerusalemme non c’è solo l’oscurità e la barbarie, ci sono altre civiltà, altri miti, altre tradizioni importanti, a partire da Gerusalemme ebraica per poi allargarsi nell’infinito Oriente. Ma quello è il nostro passato, anzi la nostra origine.

    Narrato in modo piacevole, a tratti ironico, ma fedele alla tradizione, il racconto di Maristella non asseconda a tutti i costi la premura di attualizzare tutto, di ridurre tutto al linguaggio di oggi e all’orizzonte presente, fino a modificare la realtà della storia e la solennità dei miti per adattarla allo spirito del nostro tempo. È un racconto leggero ma rigoroso, il suo, che non si discosta dalla verità secondo tradizione e la riassume in modo chiaro e sereno.

    A volte occhieggiano gli Dèi, ma sono considerati più rappresentazioni mitico-letterarie che sublimano la nostra umanità, piuttosto che nella loro distanza olimpica e nella loro entità sacra e trascendente. Omero grandeggia come il grande narratore dei miti; a lui non è dedicato un capitolo ma è una voce sussurrante dietro le quinte. I santi che accompagnano la narrazione su Gesù, da San Paolo a Sant’Agostino, a San Girolamo, l’amante della lettura, fino a San Benedetto e San Francesco, costituiscono un percorso nella cristianità ma anche nella formazione della civiltà cristiana. E Dante, che conduce in porto il viaggio alle radici della nostra civiltà, è colui che media tra il mondo terreno e il mondo ultraterreno; lui così sanguigno e celeste, capace di scendere fin dentro l’inferno delle passioni e delle dannazioni e risalire poi nel cielo delle visioni e delle beatitudini.

    Per certi versi è una gita nel mondo classico, e insieme nel liceo classico, considerando i luoghi, i tempi e le figure che narra. Ma in quel triangolo tra Mito, Storia e Sacro, che è poi il triangolo tra Atene, Roma e Gerusalemme, c’è il senso pieno delle nostre matrici umanistiche e religiose, della nostra identità nelle sue più significative stratificazioni e rappresentazioni.

    Ho letto con particolare piacere le pagine di Maristella, che me le ha fatte conoscere prima che diventassero progetto di libro, e che ho incoraggiato a pubblicare, non solo per la scorrevole lievità di un viaggio pure così titanico tra i giganti del nostro passato. Ma anche perché mi sono ritrovato a casa, avendo dedicato alcuni saggi al mito, agli dèi, e da ultimo a Dante: vi ho trovato lo stesso amore nostalgico e la convinzione implicita che essendo nani sulle spalle di giganti non possiamo scendere dalle loro spalle perché perdiamo ogni visione e ogni altezza. Maristella Mazzocca ci invita al banchetto di nozze tra il mito e la storia, celebrato dalla letteratura: dalla loro unione nacque nostra Madre Civiltà.

    Marcello Veneziani

    Premessa

    Un mito ha molte vite. Tante quanti sono gli autori, o i lettori, pronti a ripercorrerlo. Per trovare, al fondo di ogni racconto, una parte di sé. Tra il mito e la storia il confine è labile, perché ogni storia può tramutarsi in mito. E farsi esempio, specchio o paradigma, microcosmo in cui si riflette il Tutto. Per questo il libro raccoglie figure storiche e figure letterarie, tutte rilette nella chiave del mito che sono state o sono diventate. Trascegliendo non secondo il giudizio della storia, che è figlio del tempo e delle circostanze, ma secondo l’eco di una coscienza comune che ha eletto le tre città da cui siamo nati, Atene, Roma e Gerusalemme, a luoghi deputati della consapevolezza di noi e della nostra cultura. Per questo convivono, nella narrazione, figure del mito come Europa, Penelope o Elena di Troia, e figure della storia come Pericle, Cesare o Pilato; figure della letteratura, come Antigone o Didone, e figure che sono entrate di diritto nella storia della cultura come Benedetto da Norcia o Francesco d’Assisi. Trasmettendo, ciascuna, un archetipo della sensibilità, un colore peculiare da cui deriva il multiforme mosaico di ciò che chiamiamo non il nostro immaginario – parola che sa di falso e di finzione – ma piuttosto, secondo la definizione, perfetta, di Henry Corbin, il nostro immaginale: il grande spartito d’immagini composto da legislatori, filosofi, mistici e poeti, attraverso cui possiamo leggere l’essenza di ciò che siamo stati e siamo. Tradotta in una lingua che scrosta l’antico dalla stanca patina di scuola con cui una tradizione opaca ce l’ha troppo spesso trasmesso, per riscoprire con freschezza, lirismo e ironia, la perennità, insieme culturale e umana, di ciò che, con parola greca, chiamiamo ancora Europa. Di cui Dante Alighieri, come Eliot intuì per primo, fu il più geniale dei padri fondatori.

    Parte prima – ATENE

    Europa Nessuna è come te....

    La storia d’Europa inizia con un ratto. Un sequestro di persona, ma fu consensuale, se vogliamo prestar fede al più curioso (e spericolato) dei reporter antichi. Fu Erodoto che, con buona pace della galanteria, tagliò corto sulla faccenda sentenziando, sornione e sbrigativo, che: «…per rapire una donna ci vuole il suo consenso, quindi...» ¹ . Anche Zeus del resto, seduttore confesso e don Giovanni impenitente, ma senza la tristezza del suo epigono moderno, archiviò l’episodio con distratta nonchalance . Ma bisogna capirlo: Giunone, legittima consorte, era riuscita nell’ardua impresa di sedurre senza riserve, ad onta dei trascorsi millenni di matrimonio, il riottoso consorte. E lui, a cose fatte, gigioneggiava beato e, per una volta almeno, sincero: «Nessuna è come te...neppure Leda, neppure Europa…» ² .

    Dovettero passare secoli di cultura e sensibilità perché il mito venisse riletto dalla parte di lei, rovesciandone le parti nel segno dell’ironia. Eppure se, come sostiene Marguerite Yourcenar, «si conosce a fondo un popolo soltanto attraverso i suoi dèi» ³, in quell’avventurosa love-story si nasconde, o si manifesta, qualcosa che ci riguarda da vicino. E spiega perché il mito di un’ignara fanciulla, rapita da Zeus su una costa fenicia, sia divenuto, nei secoli, il mito di fondazione della cultura occidentale. L’immagine attraversò secoli di poesia, trionfò nella pittura fino ad un avanzato Novecento, diede vita ad interpretazioni innumerevoli e ancora campeggia, come un’ultima bandiera, sulla banconota greca dell’euro. Ed è curioso solo in apparenza il fatto che il mito, pur ambientato in terra fenicia, sia tuttavia ignoto alle culture orientali. Perché un ratto somiglia a una nascita: recide un legame, presuppone un’alterità, uno sfondo su cui una vita nuova possa diventar figura. Ed il mito, infatti, non altro racconta se non la storia di un’alterità tra oriente e occidente che prese forma allorquando una fanciulla fenicia rapita da Zeus, abbandonò il grembo misterioso dell’Asia per approdare ad una terra sconosciuta, adagiata tra le onde dell’Egeo, alla quale regalò il suo nome.

    Tutto iniziò nel tempo favoloso degli dèi e degli eroi, su un tratto di costa dove la sabbia si confonde con il mare e gli scogli, confusi oltre la linea delle dune, hanno il colore dell’ocra e dell’oliva. Era il regno di Agenore, re di un favoloso lembo d’Asia che oggi chiamiamo Libano. Terra, allora, di mercanti e marinai, esperti trafficanti, raffinati artigiani abili a trarre dal vetro, dall’ambra e dall’oro, gioielli e monili la cui fama viaggiava incontrastata lungo le rive del Mediterraneo. Erano i signori del mare, i fenici. Le loro città crescevano all’ombra dei cedri che svettavano alti, come colonne erette a sfidare il cielo. Dai loro tronchi veniva il legno prezioso da cui trarre le navi che sole, in tutto l’oriente, sapevano orientare la rotta notturna sul corso delle stelle. Dal mare veniva la preziosa conchiglia da cui trarre la porpora che macerava al sole per ornare, come un sigillo prezioso, le vesti di imperatori e re. Lì, un mattino, proprio dove la terra s’incurva ad accogliere nel suo golfo il mare fenicio, risuonò un vocio gioioso di fanciulle. Quante il mito non sa dire, ma assicura che, tra tutte, una ne spiccava, radiosa più dell’aurora. Portava un nome bello e misterioso, Europa, in cui vibrava qualcosa di simile ad una musica notturna. Come un’eco di terre lontane, di cui non rimanevano che suoni, allusivi e densi come quel nome che, nella lingua dei fenici, indicava, da tempo immemorabile, l’ombra del tramonto che cala sull’azzurro compatto del mare. Poco lontano, su un prato, pascolava mite una mandria di tori. Per i sudditi di Agenore erano animali familiari. I giovani ne avvertivano l’arcana potenza, con cui amavano misurarsi in un corpo a corpo che gli affreschi minoici, secoli dopo, avrebbero ritratto agile come una danza. E ne ammiravano la forza, in cui sembrava manifestarsi qualcosa di divino. Nella forma delle corna, minuscole e ricurve come la prima falce di luna, i sacerdoti leggevano il segno di un’arcana certezza: fedele come la luna, che ripete senza sosta il suo ciclo nel cielo, la natura sarebbe rinata dal sonno dell’inverno. Non c’era ragione di diffidare di quegli animali che portavano, inscritta nelle corna lunate, la promessa della vita che si risveglia ad ogni primavera. Le fanciulle porsero del cibo, scherzarono con una confidenza che venne spontanea. Con uno, in particolare. Era candido come la neve e più che mansueto. Anzi, stranamente docile, addirittura giocoso. Si offriva con naturalezza alle carezze, le sollecitava, giocava come un cucciolo avido di tenerezze. Europa lo assecondò: annodò una ghirlanda di fiori alle corna ricurve come uno spicchio di luna, poi lo carezzò sul dorso e sul muso che cercava la sua mano. Con un brivido di piacere l’animale si chinò, si inginocchiò, le offrì il dorso, come a chiederle di salire in groppa. Lei stette al gioco e si abbandonò senza sospetto al piacere di quell’insolita cavalcata nell’aria odorosa di resina e di mare. Il toro si avvicinò indolente alla riva, fino a lambirla. La fanciulla avvertì la frescura dell’acqua che sfiorava le caviglie e sorrise. Salutò per gioco le compagne, senza notare che l’animale si inoltrava, impercettibilmente, tra le onde. Ma l’azzurro si fece presto più cupo: non se ne scorgeva più il fondo, ormai, e l’animale fendeva l’acqua con la velocità del vento che gonfiava le vesti, come una vela purpurea. La fanciulla ricordò, all’improvviso, la visione intravista in sogno, durante la notte: due terre in lotta, una strana contesa, di cui era lei, Europa, la posta in gioco. E poi strani presagi nell’aria, misteriose allusioni ad una oscura volontà di Zeus. Si era svegliata di soprassalto, turbata e inquieta, senza capire. Intanto il toro scivolava veloce sull’acqua ormai bruna. Doppiava promontori oscuri e profili di terre ignote: intorno nulla, se non le nitide geometrie delle stelle. Dov’era? Viaggiava più veloce delle magnifiche navi di cedro che tante volte aveva visto salpare al porto. Non aveva remi né chiglia quell’imbarcazione misteriosa, ma la sua corsa somigliava a un volo. Europa conosceva la potenza di Zeus, che può assumere ogni forma, comparire in ogni luogo, guidare il corso delle folgori e scatenar la furia delle tempeste. Era dunque un dio in incognito quel misterioso essere a cui sembravano inchinarsi gli elementi? L’acqua stessa sembrava aprirsi al suo passaggio: spumeggiava vorticosa, ma senza osare sfiorarle neppur l’orlo della veste che fluttuava nel vento. Quando la prima striscia di luce lacerò l’oscurità notturna, si profilò in lontananza una terra ignota, persa tra una manciata d’isole sparse come semi sul mare. Si sarebbero chiamate Sporadi, un giorno, proprio perché minuscole e sparse, come semi portati dal vento dell’Egeo. Poi, netto sulla linea dell’orizzonte, apparve il profilo verde di un’isola. L’approdo fu rapido e lieve: l’animale avanzò di pochi passi sulla sabbia, poi si chinò con grazia: lo sguardo invitava, gentile, a scendere dalla groppa lucente. Europa si guardò intorno: oltre il folto dei canneti, sulla sabbia del colore dell’ambra, dilagava una luce nuova, abbagliante, in cui le cose conquistavano una chiarità inaudita. Ritagliato in quella luce tutto sembrava farsi essenziale, definitivo ed assoluto. Tagliente e lucido come il pensiero, che nell’uomo è divino. Fu in quella assolata luminosità meridiana che Zeus si rivelò e, nel momento in cui il dio si chinò su di lei, la figlia di Agenore avvertì il seme di un mondo nuovo, che sarebbe stato figlio della luce di Zeus e di una fanciulla fenicia che gli avrebbe dato il suo nome: Europa.

    Elena di Sparta Il fiore di palude

    Fu la prima delle divine, di cui inaugurò il nome e, in fondo, anche lo stile, in cui si mischiano bellezza, innocenza e trasgressione. Fu considerata la più bella delle donne, ma anche la più funesta, o la più sfuggente. Sicuramente fu la più infelice. Le furono attribuiti mariti ed amanti in quantità, e tutti di stirpe regale, ma c’è chi sostiene che fu la più casta delle spose, vittima di un complotto della storia di cui Omero fu l’inconsapevole aedo. Per lei si scatenò una guerra in cui l’occidente si riconobbe per tale, rispetto ad un oriente dagli incerti confini. Conquistò una notorietà universale grazie ad un concorso di bellezza, il primo della storia, che le valse un palcoscenico d’eccezione: i ripidi spalti delle mura di Troia da cui si affacciò un giorno a contemplare i fantasmi di un passato che sarebbe diventato il nostro. Maestra ineguagliata del vedo-non vedo, apparve in scena avvolta dal candido fluttuare di un velo, che non altro lasciò trasparire se non la malinconia di una lacrima. Veniva da Sparta, dove era cresciuta in tempi lontani, in cui la memoria frugava a tratti, dolorosamente. Di chi era figlia? Di Zeus, si diceva. Concepita tra i canneti di un fiume, il paludoso Eurota dove crescevano fiori dalla bellezza impura. Come la sua. Era un fiore di palude, Elena. Conosceva la libertà della natura, l’ebbrezza della corsa, i canti e le danze infantili improvvisate sul velluto dei prati. Ma aveva sperimentato presto anche la violenza senza nome di un ansare improvviso, di una morsa d’uomo stretta sulle sue membra di bambina. Aveva dodici anni appena, allora. Lui, forse cinquanta. E si era allontanato senza una parola, con l’indifferenza ottusa dell’animale che ha razziato il suo cibo. A lei era rimasto uno sgomento doloroso, una sensazione confusa di colpa, cui non sapeva dare un nome. Ma il fiore era cresciuto comunque. Era sbocciato radioso, nella luce di un sole che purificava ogni macchia e portava lontano la fama di una bellezza che, nel volger breve di un paio d’anni, divenne leggenda. Ma troppi anni erano trascorsi, da allora. Nessuno, da gran tempo ormai, la chiamava più Elena di Sparta. Per tutti, e innanzitutto per sé stessa, era Elena di Troia, la perfida, la «cagna» ⁴ . O, forse, solo la derelitta.

    Si era al decimo anno di guerra. Una guerra di posizione, al confine tra l’Europa e l’Asia, fatta di scontri, rappresaglie, incursioni che, da dieci anni, logoravano gli animi e i corpi. Per questo la proposta, saggiamente avanzata da Nestore, di un duello in campo aperto tra i due protagonisti della guerra, Paride e Menelao, rispettivamente l’amante in carica ed il legittimo consorte della bellissima, parve a tutti di una promettente ragionevolezza. Fu allora che Priamo, re della città da dieci anni assediata, chiese ad Elena di indicargli, dall’alto delle mura, i condottieri del campo avverso. E fu allora che la «divina» comparve in scena, suscitando intorno a sé il brivido sgomento di chi sente nell’onnipotenza della bellezza l’ambiguo segno degli dèi. Dei quali è un dono, sì, ma inesorabile. A Troia lo capirono gli anziani, i saggi che assolsero, al vederla, gli assedianti e gli assediati, i greci e i troiani, sedotti senza colpa, gli uni e gli altri, da una forza che avvertirono misteriosamente divina. Forse è per questo che Priamo, là, dall’alto delle mura affacciate sul «mare di viola» è con Elena così stranamente paterno, così stranamente cavalleresco: la chiama «figlia», anzi, «figlia diletta» e tutta la scena ha qualcosa di domestico, di familiare. Quasi non ci si accorgerebbe d’essere in guerra, non fosse per il bagliore delle armature che scintillano al sole. Ma la bellissima la guerra l’ha negli occhi e nel cuore. Non c’è voluto molto a capire che Paride è solo un bellimbusto. Codardo, per giunta. Un belloccio tutta apparenza, senza un filo di coraggio, uno capace di tagliar la corda di fronte al nemico in campo, un damerino imbelle di cui i greci sghignazzano, infatti. La bellezza di Paride non è che un guscio vuoto. Ma a causa di quel guscio vuoto si combatte da dieci anni, si sparge sangue, si piange e si muore. Elena lo ricorda ogni giorno a sé stessa, tessendo, come Penelope, la sua tela. Ma Penelope è accorta, tesse di giorno e disfa di notte. Non subisce, agisce. Sa dare il là al suo tempo. Elena no. Dura da dieci anni la sua tela, su cui ricama paziente ogni cosa accaduta. Accaduta a causa sua. Forse la odia, quella tela che la inchioda al suo destino, come uno specchio importuno in cui i posteri leggeranno la storia di Troia. Ma il pensiero ha una libertà che i sensi non hanno. Può volare oltre l’orizzonte di ciò che si vede, può anche sognare. Il pensiero torna alle rive dell’Eurota, dove ancora sorge la reggia paterna. Non brillavano per eleganza, gli spartani. Gente scontrosa, di poche parole. Ma c’era per le donne una libertà sconosciuta ad altre città della Grecia. C’erano palestre, gare atletiche, il verde lucente dei boschi. Elena aveva un suo albero, proprio suo, lo chiamavano l’«albero di Elena», infatti. Lì le compagne avrebbero appeso la sua corona nuziale. Non era che un’attesa delle nozze la vita di una donna e non a tutte, come a lei, era concesso il privilegio di scegliere, anziché d’esser scelta. Non era stato facile: troppi principi erano accorsi da ogni angolo della Grecia. Tanti che lei stessa faticava a ricordarne i volti o i nomi che la pazienza di molti storiografi avrebbe provveduto poi a raccogliere come un archivio prezioso di stirpi. Era accaduto, allora, anche qualcosa di davvero strano: la prevedibile rivalità tra i troppi aspiranti alla sua mano si era trasformata in alleanza. Tutto ufficiale, tutto alla luce del sole. Con tanto di patto. I pretendenti capivano bene che la fanciulla non avrebbe potuto scegliere che uno solo tra loro. E tutti intuivano che in quell’eccezionale bellezza vibrava qualcosa di segreto, di misterioso e imprevedibile, come il destino. Si accordarono, con cavalleresca lealtà: sarebbero corsi in aiuto, tutti, del prescelto, se qualcuno avesse osato oltraggiare la sposa. L’eventualità non era poi così remota, dati i tempi. Ed ognuno nutriva in cuor suo la segreta certezza di conquistare il cuore della splendida figlia di Zeus. Per questo lì, sotto le mura possenti di Troia, erano accorsi tutti i principi di Grecia, convenuti da tutte le isole, ciascuno con le sue schiere dai nomi leggendari. Menelao era uno di loro ed i patti erano chiari: tutti per uno, uno per tutti, con la lealtà dei cavalieri antichi. Non priva di un accorto calcolo politico se la vittoria su Troia avrebbe aperto le porte ai fastosi mercati d’oriente. La memoria di Elena s’interrogava ancora: che cosa l’aveva conquistata

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