Chiamami Alex
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Anteprima del libro
Chiamami Alex - Lynda Johnson Vitali
Ci sono due modi di vivere la vita: uno è pensare che niente sia un miracolo, l’altro è pensare che ogni cosa lo sia.
ALBERT EINSTEIN
Con parole mie
Ho vissuto un dramma.
Ciò che credevo un dramma.
Chi avrebbe mai pensato tanti anni fa, mentre vivevo il dolore di aver partorito un bambino con la Sindrome di Down, con tutta la paura che sentivo per il futuro che, un giorno, avrei aiutato Alex come gli altri figli a organizzare la sua vita?
Oggi, tra le sue priorità, c’è quella di raggiungerci al mare con la sua ragazza e di restarci il più a lungo possibile compatibilmente ai suoi impegni di lavoro.
Alex non è un ragazzo prodigio. È un ragazzo down come tanti altri: fa alcune cose molto bene, alcune male e altre non le fa affatto.
Non è stato facile riempire queste pagine perché una parte di me, spesso, si chiedeva quanto potessi risultare presuntuosa a un pubblico di lettori. Come se avessi in tasca le chiavi di risoluzione per quella montagna che, un giorno, mi è crollata addosso.
Sono semplicemente una donna, una madre. E non ho le risposte per ogni problema. Ci sono molte cose che avrei potuto o dovuto fare e che non sono stata in grado di fare.
Quindi, non sto dicendo che avere un figlio con la Sindrome di Down sia un’esperienza meravigliosa, di quelle che tutti dovrebbero provare.
Quando nasce un bimbo down è un trauma per tutta la famiglia e il cammino è molto impegnativo, talvolta difficile.
Dal momento in cui Alex è nato sono partita per un viaggio alla scoperta di qualità che non pensavo di possedere. E non pensavo che Alex possedesse. Le abbiamo scoperte durante la nostra vita di tutti i giorni, nei nostri successi, nelle nostre frustrazioni, nelle nostre lacrime, nelle tante risate e nel mondo d’amore in cui siamo cresciuti insieme.
Ho scritto questo libro.
Il mio editore l’ha letto e mi ha detto: – Fanne un romanzo, questa è una cronistoria.
No. Non voglio trasformare la mia esperienza in un romanzo.
Le mie idee sono chiare, adesso.
Ho riempito queste pagine per esigenza, un’esigenza sorretta dalla speranza che la mia esperienza possa arrivare a quelle giovani coppie spaventate e disperate mentre cullano un bambino diverso domandandosi come sarà il futuro.
Ecco a cosa può servire il mio vissuto. Mi invento scrittrice per comunicare che, i bambini come mio figlio Alex, possono raggiungere una qualità di vita insperata. Per dire a genitori sotto shock, che non sanno cosa fare: – Si può fare molto, moltissimo.
Serve una buona dose di coraggio per diventare consapevoli di quanto queste persone speciali hanno tutto il diritto di integrarsi nel mondo grazie alle loro individuali capacità.
Guardando oggi mio figlio, vedo un giovane con una personalità ben delineata. È molto in sintonia con alcune persone, con altre no; in certi giorni si sveglia felice, in altri triste; ha avuto trionfi e sconfitte, gioie e delusioni come tutti. Proprio come tutti.
Certo, per lui è stato più faticoso. Ogni meta da raggiungere ha richiesto uno sforzo molto più grande rispetto a chi vive la cosiddetta normalità. Sicuramente Alex ha avuto meno successi di altri, ma il suo entusiasmo è incrollabile: mio figlio non molla mai.
Oggi Alex ha trent’ anni.
Un giorno mi ha detto: – Non voglio essere chiamato down, il mio nome è Alex, Alex Vitali.
– E poi… e poi che altro, Alex?
– Perché hai fatto me down? Perché non Francesco: perché io?
Quella montagna era già crollata tanto tempo fa.
Ciò che, grazie all’unità della mia famiglia, ho costruito in tutti questi anni, mi ha aiutata ad accettare che, a volte, non abbiamo risposte risolutive.
– Perché ti lamenti? Hai un lavoro, una fidanzata, una vita normale come tutti!
– Non mi piace come gli altri mi guardano: è questo che non mi piace.
Forse, queste pagine, cambieranno certi sguardi.
Forse, un giorno, le montagne non crolleranno più.
LYNDA JOHNSON VITALI
Quando facciamo il possibile, non sappiamo mai quale miracolo causiamo nella nostra vita o in quella di un altro.
HELEN KELLER
Nessun sospetto
Roma.
Nel letto di una clinica guardavo mio figlio Alex appena nato.
Ero contenta che tutto fosse finito. Mi sentivo orgogliosa.
Era stato un parto difficile ma, dopo qualche ora di riposo, volevo solo tenere in braccio il mio meraviglioso bambino, allattarlo e godermi l’incanto. Ricordo di aver pensato: Non è carino come Flaminia, la sorella maggiore, ma sono sicura che crescendo diventerà un bel ragazzo
.
Nemmeno per un attimo ho sospettato che ci potesse essere qualcosa che non andava.
La visita della mia famiglia.
Mio marito Paolo sembrava più preoccupato per il mio benessere che per il piccoletto, tranquillamente addormentato nella sua culla. Mia madre Kate era arrivata dal Canada per la nascita e per prendersi cura di Flaminia: la nostra primogenita aveva solo due anni.
Come se rivedessi ora quel giorno, Flaminia sembrava impazzita dalla gioia. Saltava sul mio letto per un abbraccio, cercava di toccare il fratellino addormentato, voleva l’attenzione di tutti puntata addosso.
Ripresi a riposare solo quando mi salutarono con un bacio promettendo di tornare il giorno seguente.
Ero veramente in pace, mi sentivo profondamente appagata: un marito innamoratissimo, una figlia splendida e, ora, il desiderato maschietto. Cominciai a fantasticare sul mio ritorno a casa e sul momento in cui avrei potuto presentare Alex, con fierezza, a tutti gli amici.
Non lontano dalla clinica nel nostro appartamento suonò il telefono.
Rispose Paolo.
Era un’infermiera. Era costernata, ma il suo dovere prevedeva quella comunicazione urgente: secondo i medici, nel neonato, c’era qualcosa che non andava.
– Il bambino, forse, non è normale. Probabilmente è affetto da Trisomia 21, o meglio, Sindrome di Down. Non possiamo esserne sicuri. Abbiamo bisogno di ulteriori accertamenti.
Mio marito non sapeva di cosa stesse parlando quella donna. Ma non occorsero giri di parole per precisare che, con tutta probabilità, si trattava di una forma di mongolismo.
Shock. Terrore.
Paolo, il più giovane di sette fratelli, d’istinto e in preda al panico, corse da sua madre.
Mia suocera provò a consolarlo. Conosceva bene il dolore, sapeva come ci si sente quando la vita si ribalta senza avvertirti prima, quando ti fa vivere un istante, un istante in cui tutto cambia. Come quando il suo secondogenito viaggiava sulla moto e un incidente non lo riportò mai più a casa. Aveva imparato a sopravvivere alla sofferenza fino a conviverci e a farla diventare parte di se stessa. Ora, ancora il dolore per un figlio.
Un figlio che soffriva, che piangeva, che le domandava perché, perché, chiedendole aiuto, forza, coraggio.
E lei gli diede tutto. Tutto ciò che Paolo nel buio cercava pur di trovare una possibilità per aiutare la donna che amava e il suo piccolino appena nato.
Ci furono parole e ci fu il conforto che arrivarono da quel cuore aperto e infinito di mamma che, una manciata di anni dopo, dichiarò:
– Alex è il centro di questa casa, c’è più amore in lui di quanto non ce ne sia in tutti noi messi insieme.
Nessuno poteva certo immaginare quanta gioia Alex avrebbe saputo darci.
Allora, c’era solo un gran senso di disperazione.
Il pensiero di comunicarmi la terribile notizia era troppo per Paolo. Non riusciva. Si consultò con chi, per noi, era anche un amico, il pediatra di famiglia. Questo dottore suggerì di aspettare un mese per avere conferma della diagnosi e, solo allora, durante il consueto controllo del neonato, avrebbe provveduto lui stesso a informarmi dell’eventuale problema di Alex.
Per Paolo furono trenta giorni molto difficili. Mentre si teneva annidato nell’anima il terribile dubbio che il nostro bambino non fosse normale, portava avanti la vita senza far trapelare nulla, proteggendomi da un futuro che avrebbe potuto ferirmi. Continuava a comportarsi come un padre orgoglioso, ma il tormento interiore generava ansia e, quello stato d’animo, lo condusse a ritrovare un vecchio amico sacerdote che già gli era stato molto vicino durante gli anni di scuola, e con il quale era sempre rimasto in contatto.
Non so che cosa si dissero ma, da quell’incontro in poi, Paolo non ebbe più timori. Come capofamiglia, sentiva un’enorme responsabilità e, al tempo stesso, sapeva che non avrebbe mai rinunciato al suo ruolo di padre.
Alex era suo figlio e faceva parte di una famiglia. La sua.
La famiglia che aveva fortemente voluto, creato e in cui nessuno avrebbe vissuto un abbandono.
Così, mio marito, fece il tratto di strada più difficile: trovò il coraggio di accettare la disabilità del nostro bambino ed era pronto a crescerlo con tutto l’amore che poteva dargli al cento per cento.
Qualche tempo fa Alex volle darci prova delle capacità acquisite al corso di judo.
Volle sfidare suo padre davanti a tutta la famiglia riunita e lo sbatté a terra con un movimento rapido, prima che l’altro potesse capacitarsene.
Fu divertente per tutti, in realtà, nostro figlio ci stava dimostrando come aveva imparato a gestire la propria forza fisica adoperandola con astuta abilità.
Forse c’è una ragione per tutto il nostro dolore.
Forse è quello che dobbiamo fare.
MAHATMA GANDHI
Cristallizzata nell’ombra
Trent’anni fa, la Sindrome di Down non era certo un argomento di conversazione e chi non aveva un’esperienza diretta tramite familiari o amici ne sapeva ben poco.
Se fossi stata più informata sull’argomento avrei notato in Alex sintomi inequivocabili, quali, la caratteristica linea che attraversa tutto il palmo della mano, lo scarso tono muscolare, le particolari linee facciali. Ma, protetta dall’ignoranza, continuai a godermi la mia gioia e il mio riposo in clinica, dove il mio bambino sembrava un neonato perfetto: mangiava e dormiva tutto il giorno.
Finalmente tornai a casa.
Il primo mese volò.
La vita scorre rapidamente quando si hanno dei bambini piccoli e, tra una passeggiata al parco, la spesa e la casa, arrivò presto il momento di prendere appuntamento con il pediatra per il primo controllo di Alex.
Andammo tutti dal dottore, sembrava una gita di famiglia: Paolo ed io, Flaminia, il neonato e mia madre, che sarebbe rientrata in Canada da lì a breve.
Dopo i soliti convenevoli di ben ritrovati, il medico visitò Alex con cura.
– È un bambino molto robusto!
– Lo so.
E il mio sorriso beato.
Me lo rimise tra le braccia.
Mi fissò con intensità.
– Lynda, c’è qualcosa che devo dirti…
Gli stavo seduta di fronte stringendo Alex.
Il pediatra prese fiato.
Un presentimento. Un brivido. Entrai in apnea.
In quell’ istante il mio cervello formulò migliaia di ipotesi per cui tutto era possibile. Ma tutto cosa? Che stava succedendo?
– Lynda… il tuo bambino ha qualcosa che non va…
– NO!
– Lynda, ascolta…
La gola cominciò a bruciare e un vento interiore improvviso e