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Il giallo di Villa Ravelli
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E-book240 pagine3 ore

Il giallo di Villa Ravelli

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Info su questo ebook

Un giallo degno dei romanzi di Agatha Christie

Un’indagine del commissario Adalgisa Calligaris

Non c’è pace per il commissario Adalgisa Calligaris. Pensava di poter staccare la spina, dopo il suo trasferimento a Rivorosso, e invece, risolto un caso, in meno di ventiquattr’ore se ne presenta un altro. Il corpo senza vita di Silvia Ravelli è stato trovato dalla sorella, Antonia, nel salotto della sua villa. È un colpo d’arma da fuoco ad averla uccisa, ma non c’è traccia della pistola. Con l’aiuto del magistrato Gualtiero Fontanella, il commissario Calligaris scopre che tra le due sorelle non correva buon sangue, a causa dell’eredità di uno zio. Ma Adalgisa capisce ben presto che, se vuole arrivare alla verità, deve allargare il suo raggio d’indagine. Soprattutto quando le vittime aumentano e la lista dei sospettati si allunga: l’imprenditore agricolo Giorgio Moretti, l’ex di Silvia Ravelli; il notaio Paride Calzone; il ricco compagno di Antonia Ravelli, Luigi Corbellini, vecchia conoscenza del commissario, oltre a una serie di figure losche legate al mondo della malavita e al gioco d’azzardo. Come in un puzzle all’inizio indecifrabile, i contorni della vicenda si vanno a mano a mano delineando. Il colpo di scena finale è assicurato…

Dalla vincitrice del premio Ilmioesordio, un altro giallo intricato e indecifrabile, in perfetto stile Agatha Christie.

I commenti dei lettori:

«Una storia ironica e piacevole. Deliziose le espressioni in umbro e le descrizioni del paesaggio così come il mondo femminile di Rivorosso. Brava l’autrice e al prossimo caso di Adalgisa!!!»
Claudia

«Brillantissimo giallo scritto con maestria che regala personaggi dipinti a tinte vivaci, una storia molto originale e un finale a sorpresa!»
Sara

«Bellissimo libro, interessante, avvincente e mai prevedibile, che cattura l’attenzione per poi riversarla in un finale avvincente!»
Luca

«Una lettura piena di ironia, una storia che coinvolge per le descrizioni vivaci dei personaggi e della protagonista, il commissario Adalgisa, ruvida, schietta e pungente. Da leggere!»
Carla
Alessandra Carnevali
È nata a Orvieto ed è laureata in Lingue. Nel 1996 si diploma come autrice di testi presso il CET di Mogol. Ha partecipato, in veste di autrice, al Festival di Sanremo 2002 con il brano All’infinito eseguito da Andrea Febo. Scrive romanzi, racconti e poesie. Nel 2007 è la prima blogger ufficialmente accreditata al Festival di Sanremo. Dal 2005 al 2012 ha curato online il blog Festival, sulla musica italiana e Sanremo, per il network Blogosfere. Dal 2007 si occupa di promozione web per eventi e artisti emergenti. La Newton Compton ha pubblicato Uno strano caso per il commissario Calligaris, libro vincitore del Premio Ilmioesordio nel 2016 e Il giallo di Villa Ravelli.
LinguaItaliano
Data di uscita7 feb 2017
ISBN9788822705419
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    Anteprima del libro

    Il giallo di Villa Ravelli - Alessandra Carnevali

    Capitolo 1

    La mattinata era uggiosa, il cielo indaco. Pioveva piano piano e la temperatura era scesa verso lo zero. Le previsioni promettevano neve e questo voleva dire che presto Rivorosso Umbro sarebbe rimasta isolata per qualche giorno dal resto del mondo. I ragazzini non sarebbero andati a scuola e avrebbero affollato le strade in discesa con slittini di ogni genere e fattura, da quelli antichi in legno, ripescati in qualche vecchia cantina, a quelli più moderni di plastica colorata col freno, passando per improvvisate attrezzature da scivolo consistenti in tavole di legno o sacchi condominiali della spazzatura. Le vecchiette avrebbero indossato curiosi stivaletti neri di cavallino fuori moda e i più giovani avrebbero saccheggiato il negozio di articoli sportivi, lasciandolo presto sguarnito di doposci e giacche a vento high tech.

    Il commissario Adalgisa Calligaris non temeva la neve. Amava il cadere lento dei fiocchi che segnavano l’esordio di una nevicata e gioiva nel cuore quando vedeva il bianco prendere il sopravvento su tutti gli altri colori del paesaggio. Sarebbe stata quindi contenta di poter osservare dalla finestra del suo ufficio le auto coprirsi di un candido velo e così le tegole dei tetti, l’erba dei giardini, i sampietrini delle strade e gli alberi del parco di fronte al commissariato. La cosa che amava di più era la calma ovattata che la neve portava con sé. Il mondo metteva il silenziatore e improvvisamente, tutto intorno, regnava una fredda pace.

    Ma quel giorno il commissario non aveva tempo per godersi lo spettacolo della neve, era impegnata con una serie di reclami da parte di alcuni contadini che abitavano le campagne limitrofe a Rivorosso. Le proteste riguardavano l’andirivieni molesto di troupe televisive che, secondo indiscrezioni, da qualche tempo stavano effettuando sopralluoghi per individuare una location ideale dove ambientare un nuovo programma. Cercavano una zona amena con vista idilliaca e un grande casale che, così girava voce, sarebbe stato trasformato in un set per riprese di lunga durata.

    «Che le devo dire, signor Mecchi, stiamo cercando di saperne di più… Sì, è vero, ci hanno avvertito che faranno un programma televisivo qui nella nostra zona, ma non sappiamo molto di più… Certo che ci faranno sapere… Certo che ci informeremo… ma stia tranquillo, non sono mica dei barbari… anzi, magari valorizzano la zona se la fanno vedere in televisione… Se fanno danni pagheranno, sono assicurati quando lavorano… stia tra… stia tranquillo. No… le mucche non se le mangiano, no… dorma sereno, signor Mecchi, le sapremo dire di più a breve… Arrivederla Mecchi, sì… Arrivederla».

    «Ancora il vecchietto delle mucche?», chiese il sovrintendente Briganti, entrando con un caffè nell’ufficio del commissario, mentre Adalgisa riattaccava sbuffando.

    «Sì, speriamo che faccia tre metri di neve, così, almeno per un po’, questi della televisione non passano più davanti alla fattoria di Mecchi e io finalmente ritrovo la pace…», implorò occhi al cielo la Calligaris, con un’espressione da martire dipinta in viso. «Non esagero, avrà telefonato quindici volte in una settimana e mica soltanto lui!».

    «Senza contare tutte le chiamate che ho preso io, quando lei non c’era, dottoressa!», aggiunse Rossano, porgendo al suo capo il bicchierino bianco con lo stecchetto trasparente. «Tutti terrorizzati da questi del film… della tv o quello che sarà! E poi davvero non sappiamo cosa dire, perché non si sa che cosa ci vengono a fare da queste parti… Mah, si beva ’sto caffè e si tiri su, dottoré, che mi pare un santino del prete!».

    «Grazie, Rossano. Altro che caffè, qui mi ci vuole una pausa. Tanto a parte le telefonate non succede granché, oggi… Faccio un salto al mercato, prima che nevichi forte!».

    «Vada pure, dottoressa. Qui ci sono io e se succede qualcosa la chiamo subito!», disse Briganti, sorridendo sotto i baffi, conoscendo il vizietto segreto che era alla base delle fughe del commissario Calligaris.

    Al mercatino c’era la solita combriccola asserragliata intorno al banco di Tonino, che aveva sfidato le intemperie pur di essere puntuale in piazza anche quel giovedì. La Banda della Maglina, così si erano auto-soprannominate le instancabili rovistatrici dell’usato di Rivorosso, era al completo.

    C’erano la Pina, il Dietologo, l’Architetto, il Bradipo, la Miliardaria, che insieme formavano il quintetto base della squadra, la dirigenza del prua – Partito Rovistatrici Usato Ammucchiato.

    Nessuna di loro arrivava mai più tardi delle otto di mattina, cosicché alle otto e un quarto erano già in grado di stabilire se quella sarebbe stata una mattinata proficua per l’ampliamento a basso costo del guardaroba personale.

    «Che ne dite di questo dolcevita azzurro per mia figlia?», se ne uscì per prima il Bradipo, detta così per la lentezza quasi irritante con cui estraeva i capi dal mucchio del banco.

    «Trissste!», disse la Pina, strascicando la esse.

    «Piccolo!», sentenziò il Dietologo, per la quale quasi tutti gli esseri umani erano, salvo la Pina, troppo grassi e bisognosi di rigide regole alimentari.

    «Ha un buco sulla manica», rivelò la Miliardaria indicando un foro evidente sul gomito sinistro.

    «Allora, come non detto», si arrese il Bradipo di fronte ai pareri del gruppo di rovistatrici senior, lasciando ricadere la maglietta bucata sul banco delle occasioni trendy a cinque euro.

    Adalgisa fece un giretto frettoloso, aveva freddo e poco tempo a disposizione, giusto in tempo per vedere Pina e il Dietologo allontanarsi verso il bar per il primo caffè della mattinata e l’arrivo della new entry che ormai da qualche mese non mancava mai all’appuntamento bisettimanale. Era uno straniero alto e piazzato, forse dell’Europa dell’Est, con un particolare gusto per l’orrido nell’abbigliarsi. L’uomo, sui trentacinque anni, abbinava infatti con disinvoltura pantaloni a zampa d’elefante con camicie sgargianti dal collo enorme che, anche in pieno inverno, portava rigorosamente sbottonate sul petto glabro, dove faceva bella mostra di sé una robusta catena d’oro impreziosita da un non meglio indagato pendente. L’andatura un po’ dinoccolata, i modi non particolarmente raffinati e una vaga somiglianza con Gigi D’Alessio gli erano valsi il soprannome di Neomelodico. Arrivava a metà mattinata e di lui si diceva che fosse solito piazzarsi al reparto maschile a pescare per ore, senza dire una parola, senza interagire con nessuno, se non con il venditore al momento di pagare. Nessuno sapeva chi fosse, neppure Adalgisa, dato che il Neomelodico risultava incensurato.

    Quando qualche fiocco iniziò a scendere leggero, gli ambulanti iniziarono a rimettere nei camion la mercanzia, in vista di una probabile abbondante nevicata che avrebbe reso disagevole o impossibile il ritorno a casa. Tonino richiamò i suoi aiutanti e ordinò di piegare i vestiti e sbaraccare al più presto. Pina, che era la più freddolosa per via della sua estrema magrezza, fu la prima a salutare tutti, poi fu la volta del Dietologo che doveva vedere una paziente nel suo studio. Il Bradipo a passi lentissimi si avviò verso casa e così a poco a poco la Banda della Maglina si disperse. Il Neomelodico si abbottonò la camicia e, dopo aver comprato un gilet di lana a rombi gialli e viola, si allontanò. Adalgisa fece ritorno al commissariato.

    Capitolo 2

    Briganti era nella guardiola e gli agenti Fava e Ritagli erano in piedi davanti al distributore del caffè. Parlavano del tempo e di squadre di calcio. Le partite sarebbero state sospese per la neve? Questo l’interrogativo che animava la conversazione dei due poliziotti. Per Fava, poi, quello era l’ultimo turno in servizio. L’indomani sarebbe andato in ferie per qualche giorno, a trovare degli amici all’estero, in Francia, e stava spiegando al collega l’itinerario enogastronomico che avrebbe voluto fare.

    «Va bene che Fava domani ci lascia per andare a gozzovigliare oltralpe, ma per oggi non avete niente da fare, giovanotti?», li interruppe Adalgisa, passandogli accanto per rientrare nel suo ufficio, dopo la rapida incursione al mercato.

    A dire il vero quel giorno c’era poco da fare, ma lei era nervosa, molto nervosa. Quella sera, infatti, alle nove in punto sarebbe uscita con Carlo Petri. Una pizza informale tra due vecchi compagni di scuola, ora colleghi di lavoro. Adalgisa si sforzava di vederla così. Ma più focalizzava l’attenzione sull’aspetto amicale di quell’appuntamento, più si risvegliava in lei un malessere sopito per anni, un dolore che credeva addomesticato dal tempo.

    Si rese conto che Carlo non avrebbe mai potuto essere una persona qualsiasi per lei. Nel suo passato di mera spettatrice degli amori degli altri, Carlo era stato il coltello conficcato profondamente nel fianco, dove ora restava una cicatrice tangibile. Un vetro rotto e tagliente che la graffiava ogni volta che le capitava di rovistare nella tasca dei ricordi.

    Adalgisa pensava che accettare quell’appuntamento, come aveva fatto saggiamente notare tanti anni prima Ornella Vanoni, era stata una pazzia. E lei già si vedeva, come nella canzone, ferma sotto la pioggia, nel suo caso sotto la neve, ad aspettare chi non sarebbe mai arrivato.

    «Amore fai presto, io non resisto, se tu non arrivi non esisto!». Il famoso e tragico ritornello le tornò in mente e le affiorò sulle labbra, ma fu subito respinto e riconvertito in semplice pensiero.

    Adalgisa esisteva anche senza Carlo e senza amori, lo aveva fatto per anni, e ora era molto arrabbiata col destino che, come un cameriere rancoroso, le ripresentava prepotentemente quel conto in sospeso.

    Ormai però era deciso e non poteva, e forse nemmeno voleva, tirarsi indietro.

    Si ricordò che doveva avvisare sua madre che sarebbe andata fuori a cena e quindi di non preparare niente da mangiare. Mentre componeva il numero di casa, Adalgisa si preparò psicologicamente all’immancabile interrogatorio di Rosaria, che avrebbe trovato piuttosto strana l’uscita a cena della figlia.

    Cosa poteva dirle? Optò per i motivi di lavoro che non avrebbero suscitato sospetti e domande.

    «Mamma, sono io! Volevo dirti di non preoccuparti per la cena! Passo un attimo da casa, ma torno subito al lavoro che abbiamo da fare!».

    «È successo qualcosa di nuovo, di grave?», indagò la signora Becchetti.

    «No mamma, cose di ordinaria amministrazione, dobbiamo sistemare documenti e archivi e ci serve calma, quindi lo facciamo di sera. Non ti agitare! Comunque ci vediamo più tardi, perché devo passare da casa, ciao!», tirò corto il commissario e attaccò sospirando.

    In quel momento Briganti corse dentro l’ufficio di Adalgisa senza bussare.

    Dietro di lui arrivò trafelato un vecchietto basso e rotondo, sulla settantina, vestito con pantaloni di velluto a coste beige, giubbetto marrone e un cappello con la visiera in testa. Ai piedi calzava pesanti scarponi da contadino e i suoi passi rimbombavano, lasciando tracce di neve sciolta sul pavimento.

    «Dottoressa, c’è il signor Mecchi, quello delle mucche…». Briganti, allargando le braccia sconsolato, tentò un maldestro quanto tardivo annuncio dell’ospite inatteso.

    «Non ti dico fallo passare, perché è già bello che entrato!», constatò la Calligaris.

    «Sò Gervasio Mecchi, commissà! Sò venuto giù de persona che lì stanno a fà lo stravede. Vanno, vengono, fonno le foto ma le vacche, magnono la pizza, sporcono, nun puliscono… Tutto su la terra mia, e che ca… cavolo!», sbraitò inferocito l’omino rotondo, togliendosi il cappello e scoprendo una evidente calvizie.

    «Allora Mecchi, gliel’ho già detto tante volte al telefono. Ho avuto notizia che dovranno fare un programma televisivo e stanno cercando le location giuste…», spiegò Adalgisa, cercando di essere calma e chiara.

    «Che lochè?»

    «Ah scusi, location vuol dire il posto dove girano un film o registrano un programma, è un termine tecnico…».

    «Ah, e ’sto lochè lo vojono fà proprio lì da me? A me nun m’ha detto gnente nisuno, e poe io mica sò d’accordo!», s’infiammò Mecchi, tormentando con le mani la visiera del cappello.

    «Io so che è stata sua moglie a dare il permesso di ispezionare il podere e quindi hanno un’autorizzazione firmata».

    «Sì, quella scimunita de la mi moje le danne le fa co’ la pala, falla scoppià! Je l’avevo detto a quella str… strollica, che je doveva dì de no, invece quella gnente, tosta come ’r somaro. E mo’, commissà, che succede mar podere mio?», si sfogò l’ometto trattenendosi a stento dal turpiloquio.

    «A quanto ne so stanno vedendo diversi posti, quando decideranno faranno una richiesta ufficiale che lei potrà accettare oppure no, ma le posso dire che solitamente pagano bene per girare in una proprietà privata», cercò di tranquillizzarlo la Calligaris.

    «Ah sì, e quanto me pagono?», si incuriosì il vecchietto, alzando ad archetto le sopracciglia e accentuando il reticolo di rughe al di sopra degli occhi celesti e furbi.

    «Be’, di preciso non saprei, ma di solito sono belle cifre, se la produzione è importante!».

    «E le mi’ vacche? Che ce faranno co’ le mucche?»

    «Guardi tutt’al più le faranno vedere in televisione e diventeranno famose…», ironizzò il commissario. «Stia tranquillo Mecchi, se poi dovessero fare danni rilevanti di qualche genere me lo dica, ma due cartacce e qualche traccia di pneumatico si possono tollerare, no? Poi magari mi diventa famoso pure lei!».

    «Sì, mo’ famoso io. Io sò vecchio e ruspante, mejo si diventono famose le vacche. Sò più belle!».

    Il vecchio si rimise in testa il cappello e, in uno slancio di buona creanza, tese la mano callosa ad Adalgisa. «Grazie commissà e scusate la mi’ prescia, ma ero in orgasmo pe’ sta faccenna. Io comunque ho lasciato tutto ar poliziotto qui fori, l’indirizzo, il telefono, ’gni cosa. Si ve fanno sapé mejo, me avvisate? Arivederce adesso, commissà, e grazie tante, eh!».

    «Arrivederci, signor Mecchi, non mancheremo di farle sapere e la prossima volta non si agiti così, che le fa male alla salute!».

    I passi sgraziati di Gervasio Mecchi rimbombarono verso l’uscita come quelli di una truppa di fanti in ritirata. Adalgisa si abbandonò sulla sedia, sfinita, e guardò l’orologio. Si erano fatte quasi le due, il suo stomaco reclamava conforto, così decise di mangiare un tramezzino al bar all’angolo.

    Capitolo 3

    Il bar Celestino distava pochi metri dal commissariato ed era spesso meta dei poliziotti di Rivorosso per uno spuntino all’ora di pranzo.

    Celestino Rossi era il policromatico proprietario dell’omonimo locale. Non solo nel nome, ma anche nell’abbigliamento che non prevedeva mai meno di quattro o cinque colori mal combinati, come in una coperta patchwork di cattivo gusto. Se la camicia era a quadri rossi e blu, il maglione era verde e i pantaloni neri. Le scarpe magari gialle, con effetto sorpresa quando l’uomo usciva da dietro il bancone per servire ai tavoli.

    Il bar era semplice e decoroso, l’arredamento più datato che volutamente rétro. Stretto e lungo, con pochi tavolini, un bancone azzurro che terminava con una vetrina contenente una discreta varietà di panini e tramezzini, pizzette e un assortimento base di pastarelle. Uno schermo a venticinque pollici trasmetteva video musicali dall’alba al tramonto, sospeso in alto, lì dove il soffitto diventava più basso, formando un arco sotto il quale iniziava un corridoio. Sul fondo una porta giallo ocra portava alla toilette, sulla destra un’altra sempre gialla, ma più canarino, recava un cartello scritto a macchina: Slot machine – Vietato l’ingresso ai minori di 18 anni.

    Ogni tanto qualcuno entrava o usciva da quella porta, con l’aria di chi non vorrebbe essere visto. Di solito gli avventori in uscita da quella saletta lasciavano dietro di sé una scia di puzza di fumo e di chiuso e avevano sempre l’aria di anime dannate che riemergano per pochi attimi dagli abissi dell’inferno. Passavano a testa bassa davanti ai clienti del bar che, considerandosi probabilmente creature superiori e immuni da vizi, li osservavano giudicandoli e spesso commentavano le disavventure di ciascuno di quegli esseri perduti.

    Alla specie maledetta dei ludopatici, apparteneva anche la moglie di Celestino Rossi, Antonella, una bella mora vistosa e truccatissima di quarantasette anni, sempre vestita con abiti neri e attillati e tacchi a spillo vagamente fetish.

    Il problema creava grande preoccupazione e rammarico nel marito che le aveva provate tutte per farla smettere con quel gioco infernale.

    Aveva anche pensato di chiudere la sala giochi, ma i guadagni che ne derivavano erano buoni e sapeva che, se non avesse potuto giocare lì, Antonella sarebbe andata altrove a buttare soldi, come del resto faceva spesso, quando la sopportazione del marito arrivava al limite ed esplodevano tra i due violente discussioni, a volte anche quando il bar era pieno di gente.

    Ormai quella storia la conoscevano tutti e Celestino si sfogava con i frequentatori più assidui del bar, lamentandosi per quella disgrazia che gli stava capitando. Ognuno diceva la sua, elargiva consigli più o meno utili e lo consolava alla meno peggio, poi una volta fuori era tutto un fiorire di pettegolezzi che raccontavano di come, secondo alcuni, l’Antonella, piena di debiti a destra e

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