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De divina omnipotentia: L'onnipotenza divina
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E-book261 pagine2 ore

De divina omnipotentia: L'onnipotenza divina

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Il DE DIVINA OMNIPOTENTIA è una piccola gemma incastonata nella storia della filosofia. In questo breve opuscolo, Pier Damiani consegna alla riflessione medievale un pensiero inaudito, destinato a dare voce ad una delle più radicali apologie della volontà e libertà divine. È possibile che Dio restituisca la verginità ad una donna che l’ha perduta, facendo sì che una cosa accaduta non sia in realtà mai accaduta? Rispondendo in modo affermativo a questa domanda, Damiani incarna un unicum nel panorama teologico del Medioevo, e lascia in eredità al pensiero successivo una soluzione inedita al problema dell’onnipotenza divina. Alternando l’invettiva all’esame degli argomenti dei suoi avversari, l’ampio bagaglio delle sacre scritture all’aneddoto vivido e godibile, Pier Damiani è la perfetta testimonianza di un modus philosophandi non ancora incardinato nella forma e nella struttura della Scolastica. Anzi, il metodo e le intenzioni del monaco rappresentano forse uno dei tentativi più estremi e coraggiosi per deviare il corso che la riflessione medievale stava ormai per intraprendere alla fine dell’XI secolo.
LinguaItaliano
EditoreIl Prato
Data di uscita14 gen 2014
ISBN9788863362299
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    De divina omnipotentia - Pier Damiani

    LA SFIDA DEL DE DIVINA OMNIPOTENTIA

    DI ANDREA TAGLIAPIETRA

    È una domanda audace (audenter) (596 C, 5)¹, ai limiti dell’impudenza e della temerarietà, quella da cui muove il piccolo capolavoro del De Divina Omnipotentia di Pier Damiani (1007-1072). L’audacia è, certo, quella del monaco che avanza obiezioni nei confronti di una tesi sostenuta dalla venerabile autorità di un dottore e padre della Chiesa del calibro di San Girolamo, il traduttore latino della Scrittura, il redattore della Vulgata. Di colui, cioè, che il Medioevo cristiano non cessa di celebrare per la profondità della sapienza esegetica, per la vastità delle conoscenze enciclopediche, nonché per la genuina ispirazione divina della fede che ha guidato la sua mano: qualità che furono senza dubbio necessarie per portare a termine una così grande impresa, durata ben 23 anni.

    Tuttavia, audace è anche l’esempio di cui si tratta, che introduce, nella regolata castità del chiostro – ambiente chiuso, separato, maschile, spesso misogino e percorso, quale conseguenza inevitabile del suo ascetico esercizio quotidiano, dalle sensuali tentazioni della carne –, l’immagine della vergine violata, quasi un’icona femminea del desiderio maschile più rozzo e feroce e, insieme, del pericolo sommo in cui può imbattersi il monaco continente, vergine anch’egli, ed esposto, quindi, al rischio di identica, rovinosa caduta.

    Ma l’audacia massima di questa minuta gemma, che risplende incastonata al centro del reliquiario del secolo successivo all’anno Mille, è quella di un pensiero che, per restituire la purezza e l’illibatezza alla vergine violata, sostiene, in nome di Dio e come attributo della sua illimitata e illimitabile potenza, la più radicale di tutte le violazioni, quella di quel principio di non contraddizione che la filosofia, sin dai suoi primi passi in terra greca, ha indicato come il fondamento saldissimo e inaggirabile della ragione e del mondo ordinato che vi si rispecchia, e che stabilisce incontrovertibilmente che ciò che è avvenuto, ovvero il passato quale immagine della necessità, non possa più essere diversamente o persino non essere affatto.

    Il Dio di Pier Damiani, invece, può tutto. Egli può distruggere Roma non solo nel presente e nel futuro, come farebbe, avendone i mezzi idonei, qualsiasi potente umano, troppo umano di questa nostra martoriata terra, ma anche far sì che la città eterna non sia mai stata fondata, cancellandone persino la memoria dal passato (619 A, 42-44). Il Dio onnipotente, che abbraccia la totalità della storia dal punto di vista finale, non può far limitare la portata del suo Giudizio e, quindi, della sua giusta punizione, dalla logica lineare della successione del prima e del poi. Come già scriveva un apocrifo ebraico-cristiano di genere apocalittico del II secolo dell’era volgare, «Il Diletto sprigionerà fuoco dinanzi a sé ed egli consumerà tutti gli empi, che diverranno come se non fossero mai stati creati» (Ascensione di Isaia IV, 18)².

    Non teme, allora, il paradosso inevitabile racchiuso nei viaggi nel tempo il Dio del monaco ravennate, dal momento che la sua onnipotenza è ogni volta in grado di disporre sincronicamente tutte quelle modifiche del reticolo temporale necessarie a riconfigurare il presente corrispettivo di un passato divenuto all’improvviso diverso. È, quindi, un Dio, quello di Pier Damiani, a cui non fa difetto il talento del grande narratore, che contempla dalla sua onnipresenza assoluta, alla stregua del romanziere innanzi alla materia compiuta del suo racconto, i personaggi, gli intrecci, le biforcazioni e le eventuali contraddizioni dello scorrere spazio-temporale.

    L’idea di Dio del De Divina Omnipotentia contrappone la ragione poetico-retorica della volontà creatrice, con il suo gusto particolare per la meraviglia, per la moltiplicazione delle possibilità e per la sorpresa che affascina l’immaginazione, alla ragione grammaticale di quei dialectici che presto saranno chiamati scolastici e che traspongono nel concetto di Dio le regole formali del discorso umano – in primis il sillogismo – imbrigliandone la potenza in un fitto sistema logico di enunciati.

    E infatti, dopo le sezioni argomentative e dimostrative del testo, per la cui analisi rinviamo al bel saggio introduttivo di Alfredo Gatto, il curatore di questo volume, Pier Damiani si avvia a celebrare, come in un breve ma denso Liber monstrorum simile, per plasticità, ai bestiari fantastici che affollano l’immaginario medievale³, una natura che, privata dell’autonoma necessità delle sue leggi dall’illimitata potenza creatrice divina, è tanto natura quanto contro natura, dal momento che la mano di Dio può, in ogni istante, mutarne radicalmente il disegno. Ecco allora l’umida salamandra, che invece di rimanere bruciata dalle fiamme ne esce rinvigorita; ecco la paglia soffice, che mantiene intatta la neve nel gelo, ma, calda e accogliente come il letto per il viandante, fa maturare la frutta; ecco metalli e pietre meravigliose, dotate di poteri e reazioni sorprendenti, come i magneti e i diamanti che accostati fra loro mutano di proprietà e d’aspetto; ecco sorgenti freddissime e roventi, che passano l’una nell’altra nel succedersi quotidiano della notte e del giorno; ecco la legna del fico egiziaco, che invece di galleggiare va a fondo come il piombo, per poi riemergere tutta d’un tratto; ecco i frutti dell’empia Sodoma, che turgidi e maturi svaniscono in cenere e fumo; ecco le cavalle di Cappadocia, fecondate dal vento con prole destinata a rapida morte; ecco l’isola indiana di Thilon con i suoi misteriosi alberi mai privi di foglie; ecco i prodigiosi esseri che, una volta distaccatisi dal ramo gravido che li ospita come frutti, tramutano il picciolo in becco, diventando anatre pennute, che imparano a volare, si potrebbe dire, quasi prima che a vivere (612 A, 1-614 C, 149).

    In questi termini Pier Damiani abbozza il mondo naturale come un flusso inesausto di mirabolante contingenza, come quel regno dell’universale trasformazione di tutti gli esseri che chiede all’uomo di essere accolto, accettato e riconosciuto quale creazione di una volontà tanto assoluta quanto sovrana. Allora, rispetto al panorama di questa natura misteriosa, metamorfica, ma soprattutto destabilizzante per le certezze umane, la grammatica dell’argomentazione razionale deve lasciare spazio alla narrazione arguta dell’aneddoto, che ripete, nella dimensione comunicativa del linguaggio e della scrittura, l’effetto, nell’orizzonte dell’esperienza, dell’apparizione a sorpresa del monstrum, che spiazza le aspettative sia del senso comune, sia di quella ragione che su di esso poggia. Come nell’episodio dei due contadini bolognesi blasfemi e del gallo di San Pietro – quello che cantò dopo che l’apostolo ebbe rinnegato tre volte il Maestro (Mc. 14, 72; Mt. 26, 74; Lc. 22, 60; Gv. 18, 27) – che, cucinato, squartato e disossato nel piatto, torna vivo e ricoperto di piume sgargianti, a smentire la loro bestemmia con il pepe della salsa, che si muta nel tremendo castigo della lebbra ereditaria, ma confermando, nell’inverosimile del miracolo, quel ruolo di custode e di svelatore della verità che il racconto evangelico gli assegna (615 D, 3-617 C, 49).

    Ecco allora che la natura contingente, modellata di continuo dalla volontà creatrice di Dio, non è caos indifferenziato quanto, sviluppando la famosa espressione con cui Michel Foucault descrive l’organizzazione dei saperi premoderni⁴, selva delle somiglianze e delle dissomiglianze, ossia gioco umbratile dell’onnipresente categoria del simile, utile a catturare la nostra attenzione come prova di una regola o di una ricorrenza, ma altrettanto preziosa, qualora ne venga violata l’aspettativa, per gettare nello sconcerto e nella vertigine della perplessità l’osservatore che si sia assopito nell’abitudine e su di essa, alla stregua dei saeculi sapientes, abbia osato fare eccessivo affidamento. Come la moglie del contadino che accoglie inconsapevole nel suo letto il vicino lussurioso, tremante di desiderio, credendolo il marito di ritorno dai campi, raffreddato e febbricitante, e che, se risulta certo innocente agli occhi di Dio e degli uomini, comunque attesta il profondo scacco conoscitivo di una condizione dell’esperienza umana dove ciò che appare potrebbe continuamente non essere ciò che sembra.

    L’episodio (616 D, 3-618 B, 2), che non si ha certo imbarazzo a definire boccaccesco ante litteram e in cui non dobbiamo trascurare la sottesa ironia e pruderia del monaco nei confronti dei costumi e delle licenze del mondo dei coniugati, è esemplare di un gusto per la narrazione – Pier Damiani lo racconta come una notizia appresa da lui stesso, mentre era studente a Parma – che si nutre di colpi di scena, di irruzioni imprevedibili, tanto sapide quanto rocambolesche. Dapprima l’inverosimile circostanza dello scambio notturno, con il diabolico stratagemma (diabolica machinatio) del vicino e l’ingenuità della moglie che confonde l’ardore peccaminoso della libidine per il tremore della febbre, poi la prodigiosa scena della Chiesa affollata dai fedeli in preghiera, con il reprobo posseduto dallo spirito maligno (daemoniacus spiritus), che, per contrappasso, fa osceno scempio del suo stesso corpo, lacerandosi le budella e squarciando nell’intimo quella medesima carne desiderante con cui si è compiuto il peccato.

    Ma neppure i corpi e la loro dislocazione nello spazio sono completamente affidabili nella contingenza radicale in cui opera l’onnipotenza assoluta del Dio di Pier Damiani. È, allora, particolarmente significativo che il De Divina Omnipotentia si concluda con un altro breve aneddoto, anch’esso proveniente dalla fonte del vissuto stesso del monaco ravennate, quello del bambino di cinque anni che, nottetempo, veniva trasportato dagli spiriti immondi (spiriti immundi), prima ad un grande banchetto, dove aveva potuto gustare le vivande più prelibate – quello medievale è un universo della fame, sempre minacciato da vicino dallo spettro della carestia⁵ –, poi, come il Cristo delle tentazioni evangeliche (Mt. 4, 5; Lc. 4, 9), sulla sommità della basilica del monastero, infine nel panificio dell’eremo, chiuso dall’interno, dove fu ritrovato, all’ora del risveglio, con grande stupore, dal fornaio (621 C, 2-622 D, 2).

    Mi sono soffermato sugli excursus narrativi del testo perché è mia intenzione sottolineare la forte connessione tra il dischiudersi di un mondo del tutto contingente, l’idea di un Dio assolutamente onnipotente, in grado di modificare il passato oltre il divieto istituito dal principio di non contraddizione, e la narrazione come pratica attiva della possibilità. La narrazione, cioè l’atto di raccontare una storia, che a volte frettolosamente viene ricondotta alla pura dimensione del passato e all’esigenza di registrazione della memoria individuale e collettiva, in realtà ha a che fare altrettanto con l’aspettativa del futuro come quel non ancora vero che potrà, un giorno, esser vero.

    Le storie ci seducono per gli eventi che narrano, ma soprattutto per il pàthos dell’esser possibile che esse racchiudono. Le grandi narrazioni storiche propriamente dette, ma anche di finzione letteraria, drammaturgica e romanzesca, ci restituiscono, con il racconto di ciò che è stato, l’apertura del passato verso la rosa dei suoi futuri possibili. Un passato, cioè, rispetto a cui il futuro, non è quello che è stato e che, quindi, è divenuto il presente reale, ma la gamma aperta di tutto quello che avrebbe potuto essere⁶.

    Si tratta, pertanto, di concepire il rapporto tra le possibilità dischiuse dal passato – il passato non risarcito, come lo chiamava Ernst Bloch⁷ – e il passato effettivamente accaduto quale emblema della necessità, ovvero come isolamento logico-figurale che blocca la dinamica del presente nell’immagine statica della sua ripetizione, scoraggiando, in nome di questa cosiddetta realtà, ogni forma di contestazione e di protesta. Viene enunciato in questi termini lo sfondo ontologico in cui si insedia la facoltà della critica, la quale si dà e ha senso solo se si ammette la dimensione della possibilità, vale a dire se è possibile immaginare, pensare e agire diversamente, scalzando il così com’è, ossia lo status quo dei saperi e dei poteri.

    C’è, quindi, nell’affermazione storica della nozione di volontà implicita negli sviluppi delle conseguenze del’attributo divino dell’omnipotentia, un elemento strutturalmente emancipatorio, che dev’essere posto in relazione teoretica con l’estensione dell’idea, anche politica, di libertà, mentre va osservato che le declinazioni intellettualistiche del concetto di Dio spesso concludono in forme e sistemi di pensiero costruiti attorno all’idea di necessità. Se la vicenda del pensiero medioevale è stata soprattutto

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