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The Rune Trilogy: I giorni perduti
The Rune Trilogy: I giorni perduti
The Rune Trilogy: I giorni perduti
E-book466 pagine6 ore

The Rune Trilogy: I giorni perduti

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Info su questo ebook

Quale collegamento esiste tra la riforma del Calendario Giuliano, portata a termine dal pontefice Gregorio XIII nel 1582, e gli esperimenti condotti prima e durante la seconda guerra mondiale dagli scienziati nazisti? Cosa lega le vicende di Giordano Bruno al gruppo degli illuminati e alla cospirazione che ruota intorno al progetto di instaurare un nuovo ordine mondiale sulla terra? Chi si cela dietro il misterioso personaggio chiamato L'Osservatore? Il professor William J.Connor, incaricato di risolvere alcuni enigmi storici incentrati su strani personaggi del Terzo Reich, impegnati alla ricerca dell'essenza stessa del cosiddetto "uomo ariano", si troverà ben presto e suo malgrado catapultato in un'avventura in cui mitologia, storia, scienza e destino dell'umanità si intersecano e si incrociano. Accompagnato dalla studiosa Alicia Wyler, Connor dovrà non solo svelare gli enigmi occulti delle SS di Himmler, ma capire perché gruppi finanziari e politici convergenti siano tanto interessati a entrarne in possesso.
LinguaItaliano
Data di uscita4 mar 2015
ISBN9788868510718
The Rune Trilogy: I giorni perduti

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    Anteprima del libro

    The Rune Trilogy - Pierluigi Tombetti

    Pierluigi Tombetti

    The Rune Trilogy

    I giorni perduti

    Prima Edizione - febbraio 2015

    Eclypse 44

    ISBN 9788868510718

    © arkadia editore

    Prologo

    Luogo del concilium secretum. Villa Mondragone, Roma. 2 ottobre 1582

    Nubi nere e minacciose si erano addensate sulla Città Eterna e forti lampi serpeggiavano nel cielo plumbeo annunciando un temporale di insolita potenza. Le prime gocce sferzarono rabbiosamente le vie polverose diffondendo un forte profumo di terriccio bagnato, mentre i romani cominciavano a cercare riparo sotto i tetti o presso le innumerevoli rovine, vestigia di un passato che non sarebbe più tornato, che costellavano ogni angolo dell’Urbe.

    Sordi tuoni iniziarono a scuotere le sicurezze delle autorità cittadine che si chiedevano se Dio stesse mandando loro un segno di qualche genere. Poi, l’immensa energia generata dalle masse umide in sfregamento continuo nei cieli si scatenò con fragori e vampe accecanti di impressionante potenza. In poche ore la quantità di pioggia fu tale che il Tevere si gonfiò pericolosamente e non si poterono contare i caseggiati allagati. Il Colosseo, le cui pietre venivano regolarmente saccheggiate per altre costruzioni, osservava impotente e passivo al disastro, come ogni grande monumento la cui gloria era finita insieme ai fasti della città dei Cesari. Ora era una semplice cava, dopo essere stata la residenza fortificata di una delle più grandi famiglie romane, i Pierleoni.

    Il volto di Roma era completamente mutato nei secoli a causa delle ferite che il tempo aveva inferto alla metropoli capitolina. Quante cose erano accadute in quelle strade, quante battaglie, quanti trionfi, quanti annunci di sconfitte? Quanti schiavi, imperatori, senatori, gente comune, avevano calpestato i basolati, frequentato i fori, le botteghe, le insule che si innalzavano al cielo come immensi alveari pronti a crollare da un momento all’altro? E quanta sofferenza, energia, sangue si erano profusi nella lunga storia della città? Quella Roma non esisteva più. La Roma imperiale, dei grandi generali, delle legioni vittoriose. Era arrivato il tempo dei secoli bui. E la forza di Roma era divenuta preda delle sue stesse pulsioni, le mollezze del lusso dell’impero avevano provocato una profonda crisi culturale, sociale, etica, indebolendo alle radici l’essenza stessa della città, la sua disciplina, il suo spirito di corpo. Era accaduto poi che ondate di barbari avessero avuto la meglio su una potenza che avrebbe potuto distruggerli facilmente con le sue macchine da guerra, le sue tecniche belliche raffinate ed efficienti, il suo esercito addestrato e preparato da ufficiali e strateghi di valore. Ma la città periva sotto la sua stessa decadenza, tra intrighi di corte, corruzione a ogni livello e violenza.

    La Roma di Augusto, di Traiano, di Adriano aveva ceduto il posto alla Roma delle Mura Aureliane, alla Roma assediata dai barbari, rinchiusa in se stessa, sfiduciata. Il potere dei Cesari era caduto e al suo posto era arrivata la Chiesa. I figli e i nipoti dei pescatori della Galilea avevano potuto emergere, si erano diffusi come un’erba rampicante sul tronco dello stato esangue, della res publica, occupando ogni spazio, ogni pertugio e cambiandola per sempre. Abdicando alla originaria missione spirituale abbracciarono una visione temporale del mondo. I senatori, le grandi famiglie le cui ricchezze inestimabili si riversavano nelle costruzioni di edifici religiosi dedicati al nuovo e unico Dio, divennero cristiane. Il mondo romano divenne cristiano. Le sofferenze e la crudeltà dei tempi inducevano a vedere nella Chiesa l’unica ancora di salvezza. E nessuno poteva resistere a quel miraggio.

    Ma quelli erano anche tempi in cui era necessaria una energia insolita, tempi in cui il vicario di Dio doveva agire con forza per la gloria del Regno. Erano tempi in cui i santi abbandonavano l’idea dell’edificazione spirituale per dedicarsi a un’opera molto più terrena, corruttrice, diabolica: il potere assoluto.

    E quella sera le tenebre scesero presto a causa della spessa coltre nuvolosa ma, a Villa Mondragone, a poca distanza da Roma, i presenti nella stanza non vi facevano caso, come non si curavano della pioggia copiosa e delle saette che martoriavano la campagna circostante, illuminando per brevi attimi l’intero territorio di una luce spettrale.

    I convenuti si trovavano in una delle residenze fuori città di Gregorio XIII, duecento ventiseiesimo papa della Chiesa, successore di Pio V. Alle guardie era stato ordinato di tenersi a distanza e di non interrompere in alcun modo il pontefice.

    All’interno sette uomini, cardinali tra i più fedeli, accomodati su altrettante sedie con gli schienali intarsiati e foderate di preziosi tessuti damascati. Gregorio XIII occupava un trono di legno dorato e aveva fatto mettere ai lati due seggi per quelli che tutti definivano i suoi uomini migliori.

    Grandi candelabri e bracieri illuminavano la scena, mentre le ampie vetrate sussultavano a causa del vento e refoli d’aria fredda si insinuavano micidiali, pronti a colpire chi fosse di salute cagionevole. Ma anche questo non sembrava disturbare in alcun modo il concilium secretum.

    Il vicario di Pietro era piuttosto anziano. I suoi ottant’anni si facevano sentire, nonostante fosse un uomo vigoroso e granitico. Dotato di una grande cultura, impegnato nella difesa dell’ortodossia, apertamente in guerra contro ogni morbo eretico, era salito al soglio una decina d’anni prima e, giorno per giorno, si era potuto rendere conto dell’enorme responsabilità che gravava sulle sue spalle.

    Il manto di porpora e il collare di ermellino bianco, insieme al fuoco del camino, non riuscivano a produrre il risultato che cercava. Era da tempo che non riusciva a scaldarsi, oramai, ma quella sera gli risultava ancora più difficile.

    I visi di tutti i convenuti erano segnati dalla serietà, dalla preoccupazione. L’atmosfera che avvolgeva ognuno di loro sembrava prossima a soffocarli. D’altra parte, gli eventi degli ultimi tempi, soprattutto a partire dall’anno precedente, erano stati così importanti, così pericolosi, da mettere in dubbio l’esistenza stessa non solo della Chiesa, ma dell’umanità intera.

    Quegli uomini erano lì per trovare una soluzione, per eliminare un problema, forse il problema più grave che mai si fosse presentato a un principe.

    Era chiaro a tutti che quello non era un concilium come gli altri. Né aveva l’aspetto di una riunione di alti prelati impegnati in questioni di ordinaria amministrazione. Le loro voci sommesse si mischiavano, si sovrapponevano, ma non si alzavano mai di tono, quasi che il parlare a voce bassa potesse esorcizzare il pericolo. Si erano incontrati varie volte nei giorni precedenti, avevano udito i pareri degli uomini ritenuti più saggi e istruiti che le terre del papato offrivano. Si erano consultati con gli intellettuali, gli studiosi, i professori universitari. Avevano richiesto consiglio ai grandi del tempo, meditato sulle loro risposte, soppesato i pro e i contro. Alla fine la conclusione che avevano raggiunto aleggiava immateriale tra le pareti della sala. Una conclusione che pareva la più ragionevole per tutti.

    Il cardinale Guglielmo Sirleto, vescovo di Squillace, cardinale e amico di vecchia data del pontefice, sosteneva la decisione presa a spada tratta.

    «Santità», disse rompendo il debole vociare dei colleghi, «ci si presenta un’occasione unica: quella di eliminare dalla storia gli eventi di cui sappiamo… di cancellarli dalla memoria dell’uomo. Nessuno potrà mai risalire a noi perché nessuno potrà mai capire cosa sia realmente successo.»

    Gli altri annuirono, mentre Gregorio XIII si limitò a osservarlo con attenzione. Poi, incrociando le dita delle mani, chiese: «Continui…»

    «Approfitteremo dell’annuncio che Sua Santità darà al mondo relativo alla riforma del calendario. Approfitteremo del fatto che dal 4 ottobre passeremo direttamente al 15, che in quest’anno Domini 1582, per via della riforma, cadranno dieci giorni del vecchio calendario. In ogni monastero, chiesa, archivio pubblico o privato, tutte le registrazioni datate tra il 5 e il 14 ottobre saranno distrutte, cancellate, emendate. Le transazioni, gli atti di acquisto, quello che sarà necessario salvare per motivi di ordine economico o altro, basterà retrodatarlo a prima del 5 ottobre… o postdatarlo. Lasceremo che ognuno si regoli come meglio crede. Questo non è l’aspetto più importante. Basilare sarà che ogni traccia di chronica historica, degli eventi intercorsi tra il 5 e il 14 ottobre sarà eliminata e, ove questo non fosse possibile per problemi pratici, modificata. Nulla di ciò che è accaduto in questi dieci giorni sopravvivrà se non nel documento che terremo nascosto nel nostro archivio.»

    Fece una breve pausa, come a prendere fiato. Quindi, scrutando i volti dei presenti, cercò conferma a quanto aveva appena esposto.

    «Al punto in cui siamo ora, non sembrano esservi alternative. A dire il vero abbiamo vagliato ogni altra possibilità. E questa sembra l’unica attuabile», disse uno dei cardinali.

    Il papa osservò Sirleto. Era uno dei suoi uomini migliori. Quello che più di tutti pareva aver preso maggiormente sul serio la situazione. E quello che, fra tutti, si era speso di più per trovare una soluzione.

    «Siete assolutamente certi che i computi siano stati verificati e siano dunque corretti? Ciò che stiamo per fare avrà gravi ripercussioni nei secoli avvenire. E non solo per le nostre terre cristiane. Gli echi delle nostre decisioni si riverbereranno nella storia futura del mondo.»

    «Santità», prese la parola un altro cardinale, colui che era stato preposto ai calcoli matematici, in collaborazione con le menti più illuminate del tempo. «Santità, ho personalmente seguito e supervisionato ogni aspetto del problema e posso assicurarle che ogni cosa è ineccepibile, corretta. La commissione da voi ordinata è presieduta dal matematico bavarese Cristoforo Clavio, professore presso il Collegio Romano, un gesuita il cui sapere è noto in tutta Europa.»

    Gregorio XIII annuì grave. La reputazione di Clavio era inossidabile. Nessuno avrebbe mai potuto fare meglio di lui. Su questo punto non c’era da temere.

    «È stato coadiuvato dal calabrese Luigi Lilio», proseguì il cardinale, «dal matematico e astronomo siciliano Giuseppe Scala e dal matematico perugino Ignazio Danti. Inoltre altri dotti ed eruditi hanno verificato con precisione l’errore che il calendario di Cesare ha accumulato: già i padri del Concilio di Nicea del 325 avevano fatto notare che, ai loro tempi, la Pasqua giungeva quando il reale equinozio solare era oramai passato da dieci giorni. L’occasione è straordinariamente propizia, dunque. In ogni caso, se non modificheremo il calendario giuliano, la Santa Pasqua cadrà tra pochi anni in piena estate. D’altronde possiamo utilizzare tale scusa per risolvere il nostro problema, senza creare controversie, perplessità o sospetti.»

    «Certo», si insinuò Sirleto. «Da ogni angolo della cristianità si chiede a gran voce questa riforma. E noi gliela daremo. Prendendo, come si suol dire, due piccioni con una fava.»

    «Vi vedo molto concordi», si espresse il pontefice. «E questo mi rende felice. Significa che siamo sulla buona strada. Che lo Spirito divino ci ha ispirato al fine di trovare la soluzione migliore.»

    Sirleto non sapeva se c’entrasse davvero lo Spirito divino, piuttosto era sicuro che la scienza moderna aveva dato un fortissimo contributo alla loro ricerca.

    «Le misurazioni dell’erudito e astronomo Niccolò Copernico, contenute nel libro postumo De Revolutionibus orbium coelestium libri sex», fece infatti rilevare, «hanno fornito una base di calcolo eccezionalmente precisa. In pratica è risultato che il calendario di Giulio Cesare non collima perfettamente con l’anno solare, perché è più corto di 11 minuti e 14 secondi. Di conseguenza, il calendario giuliano accumula un giorno di ritardo ogni circa 128 anni. Ecco perché siamo giunti al punto in cui siamo ora.»

    «Questa è un’occasione mandataci dal cielo», si espressero in molti.

    Gregorio XIII li osservò, uno per uno. In quei momenti, nonostante le parole appena pronunciate, non era affatto convinto che fosse stato il cielo a volere tutto ciò, perlomeno non con una notte come quella. Sembrava infatti che le forze naturali si fossero scatenate sopra Roma e, in particolare, su Villa Mondragone. Poteva essere un segno fausto o infausto, o magari solo una coincidenza.

    Fece una lunga pausa.

    Poi comunicò la sua decisione: «Emanerò la bolla papale Inter Gravissimas, che ho già scritto in buona parte. Per stornare qualunque dubbio ho deciso di pubblicarla datandola 24 febbraio di quest’anno del Signore 1582, in modo che nessuno possa collegare», e dicendolo fece un’ampia panoramica con lo sguardo, «la riforma alla cancellazione degli eventi di cui tutti siete a conoscenza. Ciò che è stato fatto è un abominio. Una violazione delle leggi che regolano la Creazione.»

    Si interruppe, come a trovare le parole adatte per proseguire.

    «La realtà è che il mondo è stato immerso nelle tenebre più oscure. È stato squassato dalla violenza, dalla morte. Dal male. Ma voi e io saremo gli unici a sapere realmente cosa sia accaduto.»

    Un coro di voci si alzò a commentare. Gregorio XIII, non avendo ancora terminato, alzò la mano e tutti smisero di parlare.

    «Così è deciso, così sia fatto: sia nominata una apposita commissione che indaghi con discrezione e registri ogni cosa. Non rimanga nulla di questa faccenda. Ciò che deve essere fatto sia compiuto entro una settimana, per evitare che qualcuno faccia domande o nell’eventualità si spargessero voci infondate. E che Dio ci perdoni per tutto quello che stiamo compiendo. Segretario, prendete nota e portatemi il documento che state stilando; lo firmerò e vi apporrò il mio sigillo. Dopo, che cada l’oblio su tutto. Abbiate premura di nascondere il resoconto nell’archivio, laddove nessuno potrà mai consultarlo, se non uno dei miei successori.»

    Uno dei cardinali, che aveva continuato a prendere appunti, annuì: «Certamente, Santità.»

    Anche gli altri annuirono e scurirono in volto: nessuno osò più parlare. A cominciare dal papa tutti si alzarono e, in silenzio, tornarono ai loro alloggi, profondamente preoccupati.

    Il concilium si era concluso nel modo che ci si aspettava. Quanto era stato detto e deciso sarebbe rimasto per sempre segreto. Solo il pontefice avrebbe potuto autorizzare qualcuno o leggere di persona quanto sarebbe stato depositato nei sancta sanctorum dell’archivio segreto della Chiesa.

    Parte Prima

    Alle radici del male

    Capitolo 1

    King’s College, Strand, Londra. Dipartimento di storia moderna. Ufficio del professor William Jonathan Connor. 22 maggio 2017. Ore 11:50

    Era una bellissima mattina di maggio. Il sole entrava dalla finestra illuminando la scrivania del professor William J. Connor. Il tavolo da lavoro appariva ben ordinato, sebbene fosse ingombro di fascicoli, documenti e libri che erano stati pazientemente selezionati e impilati dalla segretaria, miss Ross. Era stata lei a occuparsi dell’arredamento dell’ufficio e, oltre alla scelta del mobilio e delle tende, non passava settimana senza che spostasse un vaso con delle piantine, un quadro, una cornice, il cestino della carta, il mobiletto della stampante… con l’unico risultato che il professor Connor, a volte, faticava a trovare quello che cercava. Tuttavia, da buon maschio, considerato che miss Ross non solo modificava l’aspetto dell’ufficio ma lo teneva anche scientificamente pulito, non poteva che esserle grato. Il risultato era un bell’ambiente, accogliente, inondato di luce e pieno di verde, molto naturale. Alle pareti varie fotografie che riassumevano la carriera di Connor. Tra le tante una spiccava in particolare: lo ritraeva con Edward Hughes, rettore del King’s College, immortalato con i paramenti da Gran Maestro di 33° grado della Massoneria di Rito Scozzese Antico e Accettato.

    Nessuno ignorava che Hughes fosse massone, pochi invece erano a conoscenza che fosse zio di Connor, dal ramo paterno.

    William trovava il suo studio il luogo ideale per lavorare. Il tocco di miss Ross era ciò che ci voleva per trasformare un’asettica stanza in qualcosa di diverso. Più brioso, più fantasioso. C’era un’aria di casa e allo stesso tempo si respirava un che di professionale: il profumo intenso di legno antico che emanava dalle spesse ed eleganti pareti di massello che rivestivano i muri, il caminetto del XVII secolo, le poltrone di pelle e il grande divano sul lato più lungo, ogni particolare richiamava l’eleganza british e un po’ old style che tanto gli piaceva.

    Quello era il suo covo. E si trovava talmente bene tra quelle quattro pareti che vi passava gran parte del tempo. Molto di più di quanto non trascorresse a casa sua. Avendo superato poi la fatidica soglia degli anta, non si curava molto delle questioni domestiche, impegnato com’era nelle sue ricerche, nel suo lavoro di docente e in mille altre cose, tra cui una moderata attività fisica. Di bell’aspetto, anche se non poteva certo essere definito un Adone, aveva corporatura media e una folta capigliatura che cominciava a spruzzarsi di grigio. Nulla che gli importasse, in realtà, anzi, riteneva che le sempre più marcate rughe ai lati degli occhi e i capelli sale e pepe gli donassero un’aria più confacente al suo ruolo. Guardandosi dietro poteva dirsi soddisfatto della vita che, pezzo dopo pezzo, era riuscito a costruire. Soprattutto dal punto di vista professionale.

    Eppure, nonostante l’aria frizzante di primavera, quella mattina non riusciva a stemperare l’espressione seria dei due interlocutori che si erano accomodati di fronte a lui.

    Erano stati presentati da miss Ross come incaricati di un ricco uomo d’affari statunitense il quale, a detta degli uomini ora seduti nello studio, era rimasto profondamente colpito dagli studi di Connor. Per questo motivo intendeva affidargli un incarico che, a loro dire, William avrebbe trovato straordinariamente interessante, oltre al fatto che sarebbe stato lautamente ricompensato.

    Quando miss Ross gli aveva chiesto, giorni prima, se era intenzionato a dare colloquio a due signori che venivano per conto di un affarista statunitense, William si era limitato a guardare l’agenda. Troppi impegni, forse tra tre, quattro settimane. Poi, la divina segretaria, aveva pronunciato le parole magiche: ricerca interessante, premio in denaro.

    «Sono tempi duri», aveva sorriso William stiracchiandosi. «E quel denaro potrebbe farmi comodo per qualche borsista… o per qualche mio sfizio didattico.»

    «Ecco, bravo professor Connor», era stata la replica di miss Ross, che lo osservava da sopra gli occhiali, come solitamente faceva quando aveva preso al posto suo una decisione. E infatti, anche in quel caso, era stato così. «Perfetto, saranno qui dopodomani, alle undici e trenta in punto.»

    Il sorriso sornione sotto la barba leggera piaceva molto al pubblico femminile che seguiva le sue lezioni, ed era un’espressione tipica di William quando attendeva una risposta o soppesava attentamente chi avesse davanti.

    «Bene, signori», esordì con una certa malcelata curiosità, dopo i primi convenevoli. «Cosa posso fare per voi? Avete accennato alla mia segretaria di una ricerca che potrebbe interessarmi.»

    Uno dei due uomini si tolse gli occhiali scuri e si accomodò meglio sulla poltrona fissando gli occhi di zaffiro del professore. Il suo volto appariva liscio, privo di qualsiasi espressione che denotasse un qualunque stato d’animo. Asettico, arido, quasi fosse stato levigato sulla pietra. Anche il resto era quanto di più glaciale potesse esserci: capelli cortissimi, pelle olivastra, unghie ben curate, mani che probabilmente non avevano mai osato interessarsi a umili lavori. William dedusse che fosse probabilmente di origine sudamericana, ma con evidenti ascendenze europee.

    I modi erano cortesi, ma spicci. Tipico di chi si trovava per conto di terzi a dover prospettare una situazione di lavoro per risolverla nel più breve tempo possibile.

    «Professor Connor», cominciò a dire, scandendo perfettamente le parole e fissandolo, «noi rappresentiamo un mecenate di New York, un uomo estremamente ricco. E potente. Da tempo, come le è stato riferito, il nostro principale segue i risultati delle sue ricerche. Ed è rimasto affascinato da quanto lei ha esposto nei suoi lavori.»

    William sorrise ancora. No, il tizio che aveva di fronte non era sudamericano. E se anche lo fosse stato doveva fargli i complimenti per il suo inglese perfetto.

    «Per venire al sodo, diciamo che il nostro principale vuole invitarla a New York, in modo tale da poterle spiegare meglio l’incarico che intende offrirle.»

    «A New York?», chiosò William perplesso. Sviò per qualche istante lo sguardo. «Ma… ho i corsi, le lezioni. Un mucchio di lavoro.»

    «Capiamo perfettamente», intervenne il secondo uomo. «E l’incarico che le verrebbe dato comporterebbe una sua assenza prolungata.»

    «Quanto prolungata?», domandò.

    «Circa un anno», rispose. «Ma un anno che impiegherà viaggiando, studiando. E che potrebbe implicare una miriade di sorprese positive.»

    «Beh», fece William, «non so che dire… dovrei parlarne con il rettore.»

    «Oh, su questo non si preoccupi», riprese la parola il primo uomo. «Il rettore sarà ampiamente compensato con fondi per il suo istituto. E il suo impegno, come detto, sarà ben remunerato. Se anche dovesse licenziarsi dal King’s College, mi creda, i cinque milioni di dollari che il nostro principale intende offrirle le basteranno per il resto dei suoi giorni.»

    «Cinque milioni?», chiese William di scatto, incredulo.

    «Sì, ha capito bene: cinque milioni. Senza contare che la persona per cui lavoriamo si propone anche di finanziare per cinque anni le attività della vostra struttura. Pertanto crediamo che il rettore sarà ben felice di darle un anno sabbatico.»

    «Certo, prospettato in questo modo…», pensò a voce alta il professore. Non disse, però, che tutta la faccenda gli puzzava. Chi mai poteva essere il pazzo che si impegnava a staccargli un assegno tale da cambiargli la vita? E per cosa poi? I suoi erano studi accademici, certo interessanti per gli addetti ai lavori… ma niente di più.

    «In realtà i progetti in cui intende coinvolgerla il nostro principale sono due. Per questo riceverà il compenso pattuito in due tranche.»

    Seguì una lunga pausa. Silenzio da entrambi i fronti.

    Il primo uomo a parlare inforcò nuovamente gli occhiali. Anche se le sue pupille erano schermate dalle lenti, si capiva benissimo che lo fissava.

    «Ebbene, professore?», domandò alla fine.

    «A dire il vero sono molto impegnato, come vi ho detto. Sono certamente incuriosito… e mi offrite anche, diciamolo, un compenso stratosferico. Ma… i miei studenti… non me la sento di lasciarli così, quando tornerò qualcuno si sarà già laureato e li avrò lasciati senza tutor.»

    «Professore», disse sicuro il secondo uomo, «le sue preoccupazioni le fanno onore. Ma sarà sostituito da un docente eccellente e altri collaboratori. E i suoi ragazzi non avranno di che pentirsene. Tra l’altro, in vista della sua assenza, i sostituti sono stati informati dei suoi programmi e delle sue competenze, pertanto sarà come se al loro posto ci fosse lei.»

    «Avete pensato a tutto», disse William, cominciando a sentire un certo disagio e, al contempo, un’intensa curiosità.

    «Tutte le questioni burocratiche sono state sistemate.»

    «E il mio rettore?»

    «Ci siamo permessi di affrontare preliminarmente il discorso con lui», fece il primo uomo. «Si è mostrato disponibilissimo. Ma ha lasciato a lei la scelta.»

    Sì, avevano pensato proprio a tutto.

    Il secondo uomo prese la parola: «Quella che le viene offerta, professore, è un’opportunità unica. Di quelle che non capitano nella vita di tutti i giorni. E, soprattutto, capitano una sola volta. Se posso permettermi un consiglio, prenda al volo l’occasione fornitale dal destino. Non se la lasci sfuggire. Potrebbero aprirsi orizzonti inimmaginabili. Il suo nome diventerebbe famoso. William J. Connor potrebbe diventare una celebrità nel suo campo.»

    «C’è già un posto prenotato a suo nome sul volo Gatwick-New York», continuò il primo uomo. «Troverà il biglietto per il check-in online sulla sua mail.»

    «Signori… siete molto persuasivi. Non vi nascondo che, come uomo di scienza, mi avete incuriosito. Ma se poi l’incarico che mi si vuole affidare fosse al di là delle mie possibilità? Se avessi dei problemi, che so, una malattia o qualsiasi altro impedimento?»

    «Non si preoccupi. Per il momento dovrà solo venire a New York e incontrare il nostro capo.»

    Il principale si era trasformato in capo. Poteva essere un semplice lapsus o forse… non ebbe il tempo di continuare il ragionamento.

    «L’invito non è impegnativo e serve solo per spiegarle meglio ogni cosa. Per parlare di persona. Capirà che si tratta di una faccenda delicata che richiede la massima discrezione e, se mi passa il termine, una discussione diretta.»

    Connor rifletté qualche secondo, osservando la fotografia di Hughes alla parete: un uomo che aveva contato molto nella sua vita. Era stato lui a suscitare nel giovanissimo William l’amore per la ricerca, per la conoscenza e per i misteri ancora irrisolti che giacevano nascosti tra le pieghe della storia.

    Era stato grazie a Hughes che William aveva intrapreso gli studi universitari con profitto e poi la carriera accademica. Doveva molto al suo mentore, un uomo sempre presente nei momenti salienti della sua esistenza e nelle fasi cruciali. Non era stato semplicemente un parente, un affettuoso zio con il senso dello humor e un grande potere di persuasione. Una sola volta gli era andata male quando, portatolo a una riunione massonica, Hughes gli aveva spiegato nel dettaglio cosa fosse la fratellanza e l’importanza del farne parte. In quel caso, ma solo in quello a sua memoria, William aveva declinato l’invito. Non era cosa per lui entrare in una setta. Da cristiano credente sebbene non praticante, era un’idea che non gli andava affatto; conosceva bene cosa si celasse dietro ai paramenti, allo sfarzo, all’eleganza delle riunioni massoniche. Se andava al passato, ai suoi anni infantili, alla giovinezza, però, a parte quello della Massoneria, non c’era episodio importante in cui lo zio Edward non fosse stato determinante per le scelte intraprese. E anche questa volta, considerato il suo assenso alla partenza, Hughes aveva dato il suo essenziale contributo.

    Sorrise nell’osservare la foto alla parete: era comunque lieto che Edward approvasse quella scelta.

    Con un sospiro diede la sua risposta.

    «Accetto.»

    Capitolo 2

    Manhattan, New York. Sede della Wyler Foundation. 23 maggio 2017. Ore 10:00

    William scese dal taxi e fu quasi sopraffatto dalla sensazione di potenza che si sprigionava dallo straordinario skyline di Manhattan: aveva i piedi ben piantati a terra, ma guardare verso l’alto, osservare quegli inni al dio che muoveva ogni cosa in quell’area così speciale, il denaro, svettare così imponenti e possenti, gli fece girare la testa, un’ebbrezza passeggera in cui gli sembrò di cadere. Le nuvole scorrevano placide, indifferenti al ritmo frenetico delle persone che affollavano le strade, ognuna di esse intenta a seguire i propri affari o problemi.

    In realtà non gli era mai piaciuta quella frenesia tipicamente newyorkese. In passato c’era già stato, limitandosi a visitare i suoi musei, tenere qualche conferenza e, già che c’era, assistere a qualche partita dell’NBA di basket. Trovava la città simbolo degli Stati Uniti esagerata, più o meno come l’America, una terra, secondo la definizione accurata di un suo caro amico, dove coesisteva il meglio e il peggio di tutto, sapientemente mescolato. Ma Londra, beh, era tutta un’altra cosa, senza dubbio più a misura d’uomo, una metropoli in cui, se un turista si fermava per più di trenta secondi con una carta in mano, invariabilmente si trovava un cittadino pronto a offrire il suo aiuto con le parole: «Posso aiutarla?»

    A New York questo non sarebbe potuto accadere, pensò, osservando l’apparente freddezza delle persone che incrociava. In effetti non era così: quelle stesse persone prima estranee riuscivano a divenire gentilissime, appena ci si scambiava più di un paio di frasi. Ma in quel contesto, in quel momento della mattina, l’America, gli Stati Uniti, la città motore della sua economia, erano un semplice brulicare di formiche intente a rincorrere carriera, successo, denaro, piacere.

    Finalmente rivolse la sua attenzione all’ingresso dell’edificio della Wyler Foundation: gli richiamò subito alla mente il Rockefeller Center. Lo stile era il medesimo. Dal piazzale si intravvedeva un’enorme scala attorniata da fontane e bandiere di tutti i paesi del mondo, artisti di strada attiravano i turisti che, con il naso all’insù, fotografavano quel prodigio di coraggiosa architettura.

    Anche lui guardò ancora verso la cima della costruzione, prima di avviarsi in direzione dell’enorme porta girevole in cristallo e placche dorate che, da subito, forniva una chiara idea della potenza di quella istituzione.

    Lo accolse una hall che lo impressionò non solo per il lusso profuso, a dire il vero un po’ troppo kitsch, ma anche per le dimensioni. Grandi finestre si innalzavano per decine e decine di metri, lasciando filtrare abbondante la luce dell’esterno. Quella stessa luce, deviata e riflessa da particolari sistemi ottici, offriva particolari scenografie che aumentavano la suggestività del luogo. Vide delle aree verdi, come dei giardini pensili sospesi a mezz’aria, ascensori a tubo che fuggivano verso i piani superiori con incredibile velocità, banchi di ricevimento, personale intento alle più disparate mansioni. Un alveare, ecco, se gli avessero chiesto di descrivere con un solo vocabolo l’interno della hall, avrebbe certamente usato quel termine.

    Con piacere notò che alcune di quelle che riteneva semplice aree verdi in realtà erano riproduzioni di particolari ecosistemi della Terra. Si ricordò allora di aver letto che, tra le tante cose, la Fondazione sosteneva progetti per la tutela della natura e della biodiversità. In un angolo, ma ben visibile, si ergeva un grande pannello digitale. Il display segnalava l’energia prodotta dai sistemi generatori a impatto zero geotermici e dai pannelli solari sul tetto e quella effettivamente consumata, evidenziando la parte di energia in eccesso donata alla città.

    Bello… forse un po’ pacchiano, ma bello, pensò William.

    Al centro della hall campeggiava un globo terrestre di cinque metri di diametro che segnalava tutte le aree del mondo in cui era attiva la Wyler Foundation, sostenendo opere di restauro, scavi archeologici, mercati d’arte, e anche aiuti alle popolazioni più bisognose. Non solo ambiente, dunque, ma anche tutela dei beni artistici e della salute.

    Una voce femminile lo fece girare.

    «Questo è quello che facciamo, professor Connor», disse la donna avvicinandosi e fermandosi a meno di un metro da lui. «Preserviamo le cose più belle del mondo.»

    Porse la mano aggraziata e si presentò: «Sono Janine Bluvet, assistente del direttore dei progetti speciali. L’ho chiamata stamattina per spiegarle come arrivare.»

    «Ah, sì… grazie. È stata molto gentile.»

    «Si immagini. L’appuntamento con il direttore è tra breve, venga, le faccio strada.»

    William annuì. La giovane segretaria indossava un elegante tailleur grigio la cui severità era ingentilita da orecchini di oro bianco e perle ai lobi e dai capelli biondi sciolti sulle spalle. Poteva avere ventotto anni, fresca di master e forse di un PhD.

    Incamminandosi, Janine indicò con un ampio gesto del braccio l’intera architettura.

    «Splendida, non trova? È stata progettata da un’equipe che annovera i migliori architetti della Terra, tra cui Jean Nouvel, Renzo Piano e Tom Wright. Il concetto era quello di rendere onore ai paesi che ospitano le attività della Wyler Foundation.»

    «Molto global», sorrise William.

    «Sì, qui si pensa sempre in grande.»

    Arrivarono a uno degli ascensori. Le pareti di cristallo permettevano di avere una panoramica magnifica sull’interno della hall. Una musica soffusa e piacevole accompagnò i secondi di risalita.

    Giunti al piano l’assistente condusse William per corridoi e ambienti tutti gradevoli e ben proporzionati. Incrociarono decine e decine di persone. Ognuno sembrava svolgere le proprie mansioni in modo tranquillo e armonizzato con il contesto. I telefoni squillavano con tonalità moderate, gli uomini e le donne parlavano a voce bassa, non udiva rumori molesti e fuori luogo in quello che sembrava il posto di lavoro più bello che avesse mai visto. Tranne il King’s College, forse. Che quanto a rumore era tutt’altra musica, considerato che era frequentato da giovani studenti. Lì, invece, ogni cosa sembrava perfetta, metodica, regolare…

    L’ufficio del dottor Millan si affacciava direttamente sulla grande hall, aveva spiegato la donna. Prima di accedere nell’area Janine passò il suo badge nello scanner e la porta scivolò silenziosa da un lato. Entrarono in quella che doveva essere una zona preclusa ai più. Ma quello era solo il vestibolo. Di fronte al vero ingresso dell’ufficio Janine ripeté l’operazione con lo scanner e questa volta, di fronte a William, si aprì un nuovo universo.

    La stanza di Millan era enorme. Avrebbe potuto contenere, fatti rapidi calcoli, una trentina di volte il suo ufficio a Londra. Si trattava di una sala in cui era ricreato una sorta di habitat naturale con tanto di piante, ruscello e un lago in miniatura. Anche qui musica soffusa e, nelle pareti sull’altro lato, quadri. Tanti quadri. Tra questi riconobbe due o tre firme di inestimabile valore. Se non fosse stato per la scrivania e il computer a schermo piatto e tastiera direttamente disponibile sul desk, avrebbe potuto pensare di essere ovunque. Di fianco alla scrivania alcune teche. All’interno, ben custoditi, lame giapponesi, quelli che sembravano antichi rotoli, reperti archeologici tra i quali gli sembrò di intravvedere alcuni pezzi che gli richiamarono alla mente la casta sacerdotale di Babilonia.

    Era impossibile non fare un paragone con il suo studiolo al King’s. E non poteva fare a meno di paragonare la docile e secca miss Ross con la bellezza smagliante e giovanile di Janine. Ma ogni confronto venne interrotto da una voce forte e sicura: «Benvenuto professor Connor.»

    William si voltò. Janine si scostò leggermente.

    «Grazie Janine, può andare», disse Millan mentre stringeva la mano del nuovo arrivato.

    Il direttore dei progetti speciali era un uomo sui quarant’anni, molto ben portati, curato, e con un elegante vestito di Ferré impreziosito da una cravatta che non poteva costare meno di duecento dollari. L’abito si stringeva su fasci muscolari evidenti ma non eccessivi. L’orologio di acciaio, un Omega Seamaster Planet Ocean, reso ancor più famoso da Daniel Craig che lo indossava nelle sue pellicole dedicate all’agente 007, sportivo ed elegante allo stesso tempo, spiccava sulla sua abbronzatura; era evidente che passava buona parte dell’anno all’aria aperta in chissà quali incarichi. Sembrava più un uomo d’azione, forse un ex soldato, piuttosto che un alto dirigente.

    «Ben arrivato professore», disse dopo che Janine se n’era andata. Quindi fece segno a William di sedersi e prese posto dietro la sua scrivania. Sulla targhetta spiccava il nome:

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