Lettera a mio padre
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Lettera a mio padre parla di lavoro, così cambiato dall’epoca delle mitiche tute blu, di quel lavoro operaio e delle mani che oggi sembra scomparso. Con la progressiva diminuzione del lavoro artigiano e delle mani ciò che è andato perduto è, infatti, un immenso patrimonio di conoscenze e di pratiche, di gesti e di attività via via incorporati nelle macchine.
Il racconto è un dialogo immaginario tra una figlia e un padre, alla ricerca di una via di uscita dal nichilismo dell’astrazione delle merci che sovrasta ogni relazione sociale. Una rilettura dei cambiamenti che il capitalismo ha indotto nel mondo del lavoro e, in contraltare, dei movimenti che oggi gli si oppongono, dei loro obiettivi e delle forme di resistenza. Nel racconto l’accento è posto sulle realtà che nel mondo diffondono conflitti in forme diversificate ma accumunate dai valori dell’autodeterminazione e dell’autogoverno.
Barbara Balzerani, nei primi anni Settanta milita in Potere operaio, poi nelle Brigate rosse. Al termine di una lunga latitanza viene arrestata e sconta 25 anni di carcere. DeriveApprodi ha pubblicato tutte le sue opere, tra le quali, Compagna luna, Lascia che il mare entri, L’ho sempre saputo.
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Anteprima del libro
Lettera a mio padre - Barbara Balzerani
Barbara Balzerani
Lettera a mio padre
narrativa
Barbara Balzerani
Lettera a mio padre
© 2021 DeriveApprodi srl
tutti i diritti riservati
DeriveApprodi srl
piazza Regina Margherita 27, 00198 Roma
info@deriveapprodi.org, www.deriveapprodi.org
Progetto grafico: Andrea Wöhr
Impaginazione e realizzazione digitale/Plan.ed
www.plan-ed.it
ISBN 978-88-6548-384-8
Prefazione. Essere, tempo e rivoluzione
Vincenzo Morvillo
Leggo il libro di Barbara nei giorni della quarantena, causata dalla diffusione planetaria del Covid 19. Giorni di sgomento e di paura. Di rabbia e di forzata rassegnazione.
Quotidianità attraversate da dilatazioni e rallenty temporali. Auto percezioni allucinatorie da Pasto Nudo di Burroughs o distopici limbi esistenziali, come nel Mondo Nuovo di Huxley: quello della società fordista e della produzione seriale, per intenderci.
O anche, nella routine appiattita dei nostri pensieri, accelerazioni improvvise e inattese, che sembrano solcare un quadrante storico costruito in base alla meccanica dei quanti e al Principio di indeterminazione di Heisenberg. Riletto dall’ermetismo messianico delle Tesi di filosofia della Storia di Walter Benjamin.
Leggo, e non posso fare a meno di pensare che queste emozioni e sensazioni, questi spettri semantici della realtà – spettri da intendersi nella duplice connotazione di ambiti e ombre – Barbara sa condensarli in una scrittura vaticinante. Al limite tra l’Apocalisse e la Salvezza.
Perché la sua scrittura – dalle cadenze allegoriche e magiche di L’ho sempre saputo alle istantanee concrete di questa Lettera a mio padre, intarsiate nella materica corporeità legno-gommosa di un albero salgadiano – ci parla del nostro presente e del nostro passato.
Una scrittura in cui risuonano le note di The End dei Doors e di Psycho Killer dei Talking Heads. Dell’amato De Andrè del Ballo Mascherato o di Quello che non ho, passando per La canzone del Maggio.
In cui, le terrificanti immagini pittoriche di un Francis Bacon, di un Hieronymus Bosch, di un Edvard Munch e di un Otto Dix, si alternano a quelle di un Diego Rivera, di un Jean-Michel Basquiat, di una Kara Walker o di un Banksy.
Quella di Barbara è una parola impastata di carne e di inconscio. Che lascia tuonare, tra gli spazi bianchi dei sintagmi, le voci di passate società, di organizzazioni sociali pre-capitaliste, di un’umanità dall’intelligenza creativa e dalle mani sapienti. Gli echi simbolici di un’orda d’oro primitiva che, riunita intorno al pasto totemico, uccide il padre cibandosi del suo corpo. A imperitura memoria delle catene spezzate e a riscatto della libertà conquistata. Finalmente, in assenza del senso di colpa. E nell’aspirazione a una società di eguali e senza classi, dove la messa in comune dei beni non trova l’ostacolo del privilegio. Sia esso di censo, di casta, di razza o di genere.
Una parola che, pur sprofondata nella realtà fin dentro i condotti nasali, corrosi dalla mefitica aria irrespirabile, esalata dai gas di scarico e dai liquami dell’industria 4.0, quella stessa realtà è capace di reinterpretarla e reinventarla, svelandone le potenzialità rivoluzionarie. Nascoste tra le feritoie di una Storia mai convenzionalmente lineare o hegelianamente progressiva, ma sulla cui strada scoscesa si verificano impreviste e imprevedibili inversioni ad U.
Tra i corridoi di questo Tempo/Storia, impensabile secondo una rappresentazione monodimensionale e deterministica, ci si può imbattere in porte che si aprono su spazi liberati dai vincoli legali delle ore, segnate sull’orologio esclusivo dei padroni dell’esistenza.
Sulla superficie levigata di una natura oramai artificiosa, si può sprofondare in pur minuscoli crateri, all’interno dei quali scorre l’incandescente magma, ancora inesploso, di una generazione di vinti e di dannati, che si agita tra le viscere della terra.
Una scrittura e una parola profetiche, si diceva dunque, quelle di Barbara. Perché capaci di rivelare l’infezione letale di un virus che, prima ancora di prendere l’esotico nome di Corona, ha da sempre assunto quello funesto di Capitale. Oggi declinato nella sua lugubre e ancor più micidiale versione di neoliberismo.
Una messa a nudo di un sistema e dei suoi re, che hanno depredato risorse e desertificato terre, arroccati in fortezze che rischiano però di poggiare su macerie da loro stessi edificate.
Guerre, colonialismo, cementificazioni, grandi opere, trivellazioni, produzione high tech, sono le bocche fameliche del mercato borsistico e finanziario. Capace di fagocitare fette di terra sempre più grandi, di succhiare e insozzare fondali marini vergini, di triturare ossa e digerire carne umana alla velocità di una lugubre luce, rifratta dai grafici di un consiglio di amministrazione fino alla più lurida discarica della più remota megalopoli latinoamerica o africana.
Una scrittura e una parola che colpiscono il corpo flaccido del capitale morente, e perciò stesso mai tanto avido di merce.
Ma anche una lingua teologicamente marxista e marxianamente teologica. Quasi a inverare in sé e a far agire per sé l’eresia messianica di Benjamin e la filosofia della praxis dell’imprescindibile Marx. Seppur riconsiderato alla luce delle mutate condizioni storiche.
Una lingua quasi perduta, sottratta al dominio dei vincitori di ogni epoca, e di cui, come degli archeologi alla Jean François Champollion, siamo chiamati a decifrare i crittogrammi: comunismo comunitario, innocenza di un sapere condiviso, gli oppressi e la loro storia, sabotaggio, lotta, rivoluzione.
Crittogrammi che vanno a insinuarsi sotto la pelle ingiallita –al pari delle pagine dei libri – dei compagni addormentati nel sonno di un conformismo ortodosso. O soffocati dalla talassica liquidità del presente, tra le cui increspature il pensiero debole del postmodernismo ha ridotto le idee/forza di un tempo a puerili rivendicazioni utopiche. Un sonno sul cui fondo, quelle parole infuocate riposano come dei sogni. Incapaci di tramutarsi nell’incubo reale dei padroni del mondo.
Non c’è più tempo ci dice Barbara. Nell’incedere vorticoso del progresso e della produzione purché sia, il tempo umano sembra sfuggirle e sfuggirci tra le dita. E il Tempo, insieme alla figura del padre perduto anni prima, sembra essere il protagonista di questo settimo sigillo della Balzerani. Di questa partita a scacchi tra Barbara/Odradek e la Morte.
Di questa elegia in forma di epistola al padre, che Barbara ha scritto intingendo la penna nel sangue raggrumato delle sue antiche ferite e strappando brandelli di carne e memoria alla sostanza cupa di un’anima vissuta a lungo nella cattività del sogno rivoluzionario, violato con la violenza di uno stupro padronale.
Nel procedere bipolare di queste pagine, che dalle feritoie aperte nelle tenebre tecnocratiche della realtà contemporanea lasciano filtrare lancinanti squarci di luce, provenienti dal passato e riverberati dai più remoti recessi del mondo, il Tempo e la Morte si fronteggiano e si sfidano. Si sfidano e si fronteggiano le generazioni dei dominatori e quelle degli oppressi. Si fronteggiano e si sfidano, con la tenerezza dell’amore filiale e la durezza dialettica di Antigone di fronte a Creonte, una figlia e un padre. La coscienza ribelle di una giovane donna e la morale patriarcale che nulla può concedere al gesto sovversivo. Si sfidano e si fronteggiano la narrazione magica e quasi fiabesca di un mondo che si pretenderebbe immutabile, e la trama cocciuta di una realtà dura e in rapido, esplosivo divenire.
Per questo oserei dire che, in un ribaltamento delle categorie del pensiero heideggeriano, qui l’Esser-ci non è un esser-ci per la morte. Bensì è un Esser-ci per la Libertà. Un Essere per la Rivoluzione. Rivoluzionare il Tempo, lo Spazio, la Storia, il Passato. Solo così si potrà agire, fino alle estreme conseguenze rigeneratrici, la rivoluzione nella società contemporanea del «tempo veloce».
Lasciamo parlare Walter Benjamin, le cui Tesi di Filosofia della Storia intridono tutto il libro di Barbara:
la coscienza di far saltare il continuum della storia è propria delle classi rivoluzionarie nell’attimo della loro azione. […] Al concetto di un presente che non è passaggio, ma in bilico nel tempo ed immobile, il materialista storico non può rinunciare. Poiché questo concetto definisce appunto il presente in cui egli per suo conto scrive la storia. Lo storicismo postula un’immagine eterna del passato, il materialista storico