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Appena oltre la cenere
Appena oltre la cenere
Appena oltre la cenere
E-book284 pagine4 ore

Appena oltre la cenere

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Info su questo ebook

Al mondo sta succedendo qualcosa d’inquietante. È luglio del 1258, ma l’estate stenta ad arrivare: il clima è gelido, il cielo coperto da un velo perenne di caligine, la carestia imperversa e un morbo si diffonde tra gli uomini. Ciononostante, il giovane monaco Thierry si sente un privilegiato, perché ha assistito ai prodigi della Santità che vive isolata sulle montagne, un burbero semidio dall’aspetto animalesco a cui rifornisce cibo, che però è in grado d’interagire con la natura e di mutarla. Proprio quando Thierry sta per diffondere la notizia a tutti i frati, l’inflessibile e attraente Duchessa, sua madre, sopraggiunge nel convento per riportarlo al castello, richiamandolo ad altre responsabilità e scatenando conseguenze inaspettate.
Più in là nel tempo, nel 2020, il ligio ingegner Bonfanti fronteggia un guasto della piattaforma petrolifera su cui è relegato in mezzo al mar Mediterraneo, facendo i conti con l’abbandono da parte del suo capo e in un frangente storico dominato da epidemie, terremoti ed eruzioni. Si ritrova anche a soccorrere l’ingegnoso Swot, che a bordo di un gommone è partito dalla Siria per arrivare in Francia, reduce da un incontro con un uomo straordinario...
Stefano Faraoni delinea una storia avvincente e misteriosa che proietta il lettore in uno scenario ricco di fascino, capace di sorprendere e suscitare riflessioni.

Stefano Faraoni è nato a Roma il 17 gennaio 1959. Dopo la maturità classica si è laureato in Giurisprudenza all’Università “La Sapienza” di Roma. Ha contestualmente conseguito il diploma in lingua inglese presso la Cosmopolitan School di Roma.
 Appassionato di astronomia e musica, si è dedicato attivamente alla politica ricoprendo anche cariche istituzionali attraverso le quali ha cercato di soddisfare il suo innato bisogno di impegno sociale. Vicepresidente del X° Municipio del Comune di Roma, ha svolto per circa un ventennio l’incarico di Funzionario Ufficio Legale presso grandi società. 
Amante della letteratura classica, pur non disdegnando quelle moderna e contemporanea, ha collaborato con alcuni giornali di taglio laico e diverse testate online.
Scrivere è sempre stata una passione coltivata fin da piccolo. Con il tempo si è impegnato più assiduamente nel campo della narrativa, difendendo caparbiamente la sua natura creativa in un contesto sociale dove, a suo dire, il concetto di cultura sta vivendo un momento preoccupante di regressione.
LinguaItaliano
Data di uscita6 lug 2023
ISBN9788830685222
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    Anteprima del libro

    Appena oltre la cenere - Stefano Faraoni

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    Stefano Faraoni

    Appena oltre

    la cenere

    © 2023 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-8063-0

    I edizione giugno 2023

    Finito di stampare nel mese di giugno 2023

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Appena oltre la cenere

    Nascere non basta.

    È per rinascere che siamo nati.

    Ogni giorno.

    Pablo Neruda

    Prefazione

    Secondo un antico proverbio, la storia del mondo è come un libro di cui si siano perse la prima e l’ultima pagina. Stefano Faraoni, l’autore di questo romanzo, Appena oltre la cenere, si concentra sull’eterna ricerca di quell’ultima pagina da parte dell’essere umano: che fine farà il mondo? E l’umanità con lui? Ci sarà il Giudizio Divino Universale o una Grande Catastrofe Naturale? L’immaginazione letteraria sfonda volentieri gli orizzonti della mente umana che, fra scienza e fede, è sempre in cerca di possibili, per quanto difficilissime, risposte... Appena oltre la cenere diventa così un viaggio fascinoso e appassionante nel futuro che ci fa venire in mente almeno tre riferimenti letterari di alto livello: il romanzo La nube avvelenata di sir Arthur Conan Doyle, l’inventore dell’Investigatore (Sherlock Holmes), il finale inaspettato, precipitoso e definitivo de La coscienza di Zeno, il capolavoro di Italo Svevo con il suo triestinismo apocalittico, e il Notturno fantascientifico di Isaac Asimov, che ci fa sentire tutti figli e figlie dell’Universo.

    Muovendosi su due piani temporali, il Medioevo e il Duemilaventi, l’autore qui ci racconta la storia di due diverse eruzioni vulcaniche che in qualche modo spingono gli esseri umani verso una straordinaria, forse inaudita consapevolezza: sentirsi umilmente parte del grande Cerchio della Vita e, al tempo stesso, accettare la responsabilità di esserne solo i saggi e previdenti custodi per tutto quello che è nelle nostre possibilità.

    Ma questo è soprattutto un romanzo storico da leggere con piacere, dove la trama si fonde con i grandi temi di oggi: l’approccio della fede e quello della scienza al rapporto con l’ambiente, i tumultuosi cambiamenti climatici, le bizzarrie delle stagioni, gli episodi estremi che sgorgano dai pozzi invisibili del cielo o dalle profondità arroventate della Terra. In mezzo ci siamo noi, che abbiamo bisogno di imparare se vogliamo nutrirci del dolce latte di Madre Natura o se invece vogliamo continuare a toglierle impunemente il sangue.

    Gianni Maritati, giornalista Rai e scrittore

    Capitolo 1 – Magma

    Lì sotto c’era qualcosa di vivo che si tormentava. Era lontano dal cielo e anche dalla terra come la si vede tutti i giorni; era denso, ma anche fluido e aspro, e si contorceva perché aveva bisogno di spazio. Mutevole, in quella prigione senza fine dalla quale prima o poi doveva uscire, cercando vie e canali e un vuoto che là non c’era. Perché il vuoto era in alto. E ogni essere vivo, anche lui che non lo era, ambiva a sfuggire al tormento terribile della chiusura. 

    Non poteva pensare, ma gli atomi dentro di lui sapevano che, per qualche legge senza un confine, aveva bisogno di uscire. La fisica, la forza, l’incontenibile sapienza della materia vivevano la loro vita estrema tramite leggi accurate, a volte conoscibili, a volte no. Ma non era di uomini che si stava parlando. Fosse stato vivo, avrebbe pensato che la conoscenza non era degli uomini, o almeno non solo degli uomini.

    Fosse stato veramente vivo, un uomo dei nostri giorni, avrebbe contato il tempo per pura utilità, sapendo che ottocento anni prima, sopra, ben sopra il suo essere contorto, viveva un azzurro cristallino, anzi, due. Ciascuno rivale dell’altro, ciascuno più azzurro dell’altro in una gara di specchi. Mare e cielo.

    La pressione che esercitava era potente, di inimmaginabile, distruttiva potenza. Non poteva pensare, ma, in quanto materia, aveva dei bisogni. Occupare spazio è la regola per la materia, e lui non derogava. Nei suoi giochi di luce e di colore cangiante, aveva sì tutto il tempo che voleva, perché per lui il tempo non aveva senso, ma si sentiva stretto e non avrebbe aspettato per molto.

    Verso il mare e verso il cielo emetteva fremiti di comprensibile inquietudine, muovendo la roccia, spaccandola, trascinandola con sé fin dove voleva. Né là sopra potevano sapere quanto stesse male e quali fossero i suoi veri bisogni. 

    Come se fosse dormiente, ma in realtà non lo era. Si muoveva. Da sopra non poteva essere visto, ma si spostava in continuazione, era questo il suo segreto. L’illusione che tutto fosse a posto, ordinario e consapevole ce l’avevano in alto, dove ogni cosa si sistemava in maniera composta, gradevole, netta. Il cielo e il mare per l’appunto: due consuetudini che la calma aveva scelto come esempi. Andarli a separare, a volte, non era possibile, ma si poteva provare, e una volta provato, gli esseri inanimati, anche loro, non avrebbero potuto non estasiarsi al cospetto della bellezza.

    Tuttavia, il senso della beatitudine non era, non è di questo mondo. Dal fuoco infernale del tormento al paradiso perfetto dell’empireo bastava poco, se solo, da un momento all’altro, la bestia contorta avesse preso la decisione di andare a vedere dall’altra parte. 

    Quanta parte di illusorietà. Quanta calma ingiustificata, quanto bisogno di silenzio delle cose. Nel mare come nel cielo (le due entità contigue) vigeva l’illusione che il gioco delle nettezze, dei ritagli d’azzurro, potesse aver ragione per sempre. Un dio o vari dèi buoni potevano così aver voluto, o forse, potevano provare a ingannare. 

    Non di uomini era fatto il mondo. Era fatto di universo.

    La bestia e i suoi modi di essere.

    La forma non aveva bisogno del pensiero, forse la forma era pensiero stesso. Presa l’abitudine, da parte degli uomini, di ragionare di sé stessi nell’infinito lago delle proiezioni del proprio Io, si dimentica il gioco di esistenze che è mare. E oltre. È acqua a non finire. 

    Nei piccoli ritagli di esistenza dei piccoli uomini che non sanno pensare oltre, l’appagamento o la sofferenza sono i protagonisti. Il resto non conta, come se le cose fossero davvero inanimate, quasi che non fosse tutto materia, estesa o meno, formata o meno.

    La bestia gemeva, forzava, sputava calore. Chi, comunque, fra gli uomini (se fossero esistiti) e fra le cose che erano lo stesso degli uomini, credeva che la calma del giorno e della notte portasse con sé tutti i significati di cui si aveva bisogno, era in errore.

    Esisteva, questo sì, fin dai momenti radicali dell’universo e della sua esplosione, un’impareggiabile levigatura operata dal tempo. Quando questa elegante, ordinaria omogeneità si fosse interrotta e il tempo avesse preso significato con le sue interruzioni, si sarebbe generato il cataclisma.

    Poteva essere il nodo cruciale delle due orbite che si intersecavano in quel punto, o gli atomi della stella che non reggevano più al calore, o la bestia stessa che, nella sua ineffabile cecità, aveva percepito che quel pertugio per essa fosse salvezza, per altri distruzione, difficile da dire. L’uscita allo scoperto. L’eruzione.

    Capitolo 2 – L’anno senza estate

    Il monaco Thierry era preoccupato. Il suo Dio non lo aiutava e non aiutava nessuno in quell’estate dell’anno del Signore 1258, dal momento che faceva un gran freddo ancora a luglio.

    Certo, lui e il suo monastero stavano in altura, ma non c’era uomo che si ricordasse di un’estate così fredda, dai contorni così inquietanti. E c’era di più: da qualche mese era come se il cielo fosse offuscato da una caligine, un velo persistente. Come se un grande incendio che non finiva mai, da qualche parte, avesse portato i suoi residui a stazionare nel cielo basso. Rari erano i momenti in cui un forte vento riusciva a spazzare l’aria e a restituire a quei monti la loro essenza cristallina, quella per cui il buon Dio li aveva creati.

    Thierry sapeva della fine del mondo, che questo fosse un evento che prima o poi doveva accadere. Ma non era un po’ troppo presto?

    Il monaco, che stava percorrendo un viottolo di montagna stretto e ripido, si fermò a pregare. Era più forte di lui: ogni volta che c’era qualche difficoltà, che avvertiva una paura, implicita o esplicita che fosse, lui cominciava a pregare. Finché non ritrovava la sua serenità interiore, e il conforto di Dio, della sua presenza, non lo pervadesse tutto come il suono della campana del convento.

    Mentre pregava recitando a memoria quelle frasi che non avevano più un significato, perché prive di sentimento, in realtà pensava, non a Dio o chi per lui, ma alla carestia e ai raccolti che quell’anno non c’erano stati. Le scorte nel monastero c’erano e sarebbero bastate chissà per quanto ancora, ma l’idea che non ci fosse da mangiare lo terrorizzava. Per cui si concentrò ulteriormente nella preghiera e, sempre senza sentimento, riuscì a recitarla più velocemente e a voce più alta, forse nel tentativo distratto di farsi sentire meglio da chi stava oltre quella caligine, oltre quelle nuvole, oltre quel cielo malato che non voleva saperne di mostrarsi di nuovo e interamente nel suo fulgido splendore, come era negli anni passati.

    Finito di pregare, terminata quella breve sosta, riprese a camminare e, come per una magia, le grinze disegnate sul suo volto cominciarono progressivamente ad ammorbidirsi fino a sparire quasi del tutto. 

    Thierry pensò che nessun uomo avrebbe potuto farcela senza il conforto del Signore, che sempre era utile, ma in quei casi era indispensabile. E ragionò pure sul fatto che, in realtà, ogni persona avrebbe dovuto farsi prete o frate, proprio per avere un contatto più diretto, quotidiano, con chi tutto governava. A eccezione delle donne, ovviamente.

    Nella sacca c’erano un po’ da mangiare e qualche indumento per vestirsi, come al solito. Ma non era roba per lui.

    Thierry era felice di essersi assunto la responsabilità di questa incombenza una volta alla settimana, perché subiva il fascino totale della Santità. La Santità stava là, statica, immortale, in attesa: non poteva muoversi e raccordarsi col resto del mondo. Era il mondo che doveva giungere al suo cospetto, prostrandosi e attendendo dei segnali.

    Il monaco guardò in alto e pensò che, se faceva così freddo al monastero, figurarsi lassù, ancora più in alto, dove solo un uomo che si copriva della veste calda del sacro poteva resistere. La settimana precedente, quando Thierry era arrivato fin lassù, la Santità non c’era, non stava presso il suo rifugio. Era andato ancora più in alto, dove nessuno potrebbe arrivare, se non fosse protetto dal Signore.

    Il monaco Thierry dovette aspettare qualche ora prima che la Santità tornasse dal suo peregrinare di ricerca fra i monti. Thierry si ricordava bene che, quando i due si erano incontrati la settimana prima, davanti a quella specie di antro profondo che era la dimora della Santità, quest’ultimo fece una cosa che il monaco non si sarebbe mai aspettato.

    «Siediti e lasciati massaggiare la schiena» gli impose la Santità.

    Thierry si era accucciato a terra e, senza chiedere nulla, soggiogato com’era, si era lasciato massaggiare la schiena da quelle mani tiepide e al contempo callose, ruvide.

    «È un buon rimedio contro il freddo, poi starai meglio» aveva soggiunto la Santità.

    E come al solito, come sempre, quell’uomo dall’aspetto di una fiera senza gli artigli aveva ragione.

    Thierry aveva provato immediato giovamento, e in tutto il corpo, non solamente sulla schiena, sentì calore, come se qualcuno avesse acceso lì vicino un fuoco. Questo non era normale e poteva provenire solo da chi era a contatto diretto e quotidiano col soprannaturale.

    La Santità emanava un odore forte anche se non propriamente sgradevole, un odore che a Thierry ricordava qualcosa che non riusciva a identificare bene. 

    Poi, come d’incanto, la rugosità fastidiosa delle mani divenne piacevolezza al tatto. Il monaco si rese conto che la Santità aveva spalmato sulle proprie mani un unguento, un olio, o chissà cos’altro...

    «Santità» esordì il monaco. «Ritenete sufficienti le provviste e questi pochi panni che vi ho portato per mettervi addosso? Avete qualche richiesta da fare? Volete che torni con altro?»

    «È troppo, grazie» rispose la Santità continuando nel suo massaggio. «C’è acqua quassù, tu mi porti il cibo, ho diverse cose da indossare, e soprattutto ho imparato a respirare.»

    «A respirare?»

    «Sì, a respirare.»

    La Santità attese un po’ e poi continuò:

    «La vita è respiro, e la vita non scorre da sola, bisogna imparare a respirarla. Il respiro scorre negli uomini, ma non solo in loro. È un soffio vitale che passa attraverso le cose, tutte le cose: sappi che non di uomini è fatto quest’universo. Se un uomo coglie il respiro, capisce che non serve sapere che è un uomo. L’uomo è cosa e la cosa è uomo.»

    A Thierry quelle parole parevano contorte e contraddittorie. Le cose non potevano respirare, e solo gli uomini potevano semmai cogliere il respiro, quali esseri senzienti. In una naturale gerarchia, il primato dell’uomo era innegabile. Ma Thierry non avrebbe mai potuto mettersi a contestare il Verbo che promanava dalla Santità. 

    «Voi pensate, Santità, che terminerà presto questo freddo terribile?»

    «Non so, è molto strano, è come se qualcuno avesse deciso di capovolgere il mondo» sentenziò la Santità con tono più grave del solito.

    Per un attimo Thierry si voltò e osservò i suoi occhi accesi di carbone. Mentre la Santità gli massaggiava i piedi, Thierry notò che aveva la testa reclina da un lato, e fissava a terra con una tale intensità che avrebbe potuto ferirla. Il corpo del monaco, nel frattempo, aveva ripreso vita, era esposto. Non faceva più freddo e lui si sentiva bene, tanto bene che cominciò a non pensare più e lasciò che la morbidezza avesse il sopravvento.

    Poi la Santità lo costrinse a pulire la sua umile dimora. E gli chiese di portargli, la volta successiva, meno roba da mangiare, perché non c’era bisogno di tutte quelle provviste. Gli ingiunse di uscire a recitare le preghiere e lo diffidò quindi dal rientrare lì.

    Dire che Thierry fosse costernato da tutto ciò che quell’uomo stava facendo e da quello che voleva è poco. Ma era talmente soggiogato da quella presenza indispensabile che, ne era convinto, se lui gli avesse chiesto di fustigarsi, l’avrebbe fatto. 

    Uscì anche lui.

    «Hai recitato le preghiere? A chi?»

    «Al Signore, e qualcuna alla Madonna» rispose Thierry quasi terrorizzato.

    «No, non è vero. Le hai recitate a te stesso. Ed è meglio che, a questo punto, tu non le reciti per niente. Tu sei un egoista. Come lo sono io, d’altro canto; come lo siamo tutti, anche se non vogliamo ammetterlo. Quando il nostro egoismo diventa insopportabile anche per noi stessi, proviamo a recitare una preghiera: allora raggiungiamo il massimo dell’utilità per noi. Tu... tu prima mi chiedevi se questo grande freddo finirà. Ora vedo, ma stai lontano dal mio corpo. Stai lontano!» urlò con arroganza.

    Avvolto in quella strana coperta che odorava di animale, si avvicinò a un albero rinsecchito che reclamava un suo ruolo nel deserto con poca erba e tanta bruma. Era quasi impossibile restare fermi là fuori, con quel gelo che copriva le labbra fino a spaccarle. Il mondo pareva senza sbocchi, senza uscite, quasi che ogni cosa vivesse un suo momento di colpa: senza sole, contratta su se stessa, quella parte del cosmo era immobile nella sua perfezione. L’estate dormiva.

    Fu allora che Thierry si rese conto, per la prima volta, del senso dell’esistenza. Quando la Santità si avvicinò a quello che rimaneva dell’albero, a quel tronco secco ancora più inerte del resto, percepì in esso un primo movimento di vento, un alito di vita sottilissimo ma inequivocabilmente esistente. Mentre l’eremita, accanto all’estremo frammento, ultimo, della natura, perdeva vita e forse anche senso.

    Thierry voleva rientrare dentro la miserrima abitazione, ma non poteva farlo: avrebbe disubbidito al comando. Stava impazzendo, moriva dal freddo, poteva svenire da un momento all’altro. Le mani e i piedi stavano perdendo sensibilità.

    No, non poteva farcela e rientrò di corsa dentro il tugurio. Trovò un’altra coperta e se ne avvolse battendo i denti e cercando di scaldarsi le mani con l’alito caldo. Aveva disubbidito all’ordine di stare fuori, ma, in fondo, quello era un pazzo, una bestia, un animale. Il monaco pensò che la Santità poteva essere santa quanto voleva, ma non aveva il diritto di uccidere un uomo. Se lui era insensibile al freddo, Thierry, come ogni altro cristiano, non lo era. Non era un disonore essere umani.

    Il monaco trovò legna da ardere e riuscì ad accendere un poco di questa in un braciere. Lì accanto si addormentò per un certo tempo. Quando si svegliò, uscì di nuovo e quello che vide gli fece pensare che stesse ancora dormendo, che fosse all’interno di un sogno.

    La Santità, in piedi, perfettamente immobile, stava col capo leggermente rivolto verso l’alto, e con la mano destra si cingeva la fronte, quasi avesse male alla testa. Dinnanzi a lui, inspiegabilmente e molto lentamente, la bruma andava sciogliendosi, e con essa la caligine. Un sospiro d’aria buona creava un corridoio, un canale che giungeva fino a far intravedere un alto monte in lontananza.

    Il monaco venne colto da un brivido, che questa volta non era più attribuibile al freddo. La Santità stava agendo da santo. Thierry, maledettamente terrorizzato e sottomesso, fece quello che era solito fare in questi casi: cominciò a pregare. Ma qualcosa gli stava suggerendo che non stava pregando Dio; le sue richieste, le sue invocazioni, il suo abbandono intellettuale erano rivolti molto più vicino, a pochi metri da lui.

    Il vento aveva aperto uno spazio come di pulizia nella natura e contemporaneamente nella sua mente. La Santità si levò la mano dalla fronte e alzò il capo verso quel paesaggio ormai mondo da impurità. Quello che Thierry aveva visto non era solo un miracolo, non era la potenza dell’uomo che cercava di governare la natura, e forse non era nemmeno un fenomeno inspiegabile, come lo sono i miracoli; era solo la natura che muoveva se stessa attraverso un uomo, che era la natura medesima.

    In quel senso, che Thierry afferrò per un attimo prima che l’impressione stessa sparisse, non esisteva magia o miracolo o evento soprannaturale di sorta. Era un tutt’uno. Denso di naturalità.

    Rimaneva lo sgomento di rivedere il Sole aprirsi, toccare il mondo coi suoi raggi benefici in un momento di purificazione difficilmente spiegabile. Il monaco era confuso, come fosse avvolto da un corpo etereo che gli toccava la pelle, entrava al suo interno e dilatava, così come il calore dei raggi di sole. E quella sensazione di pienezza non gli dava solo un senso di benessere e di tranquillità, bensì un’emozione di onnipotenza. Lui, piccolo, soggiogato, mortificato, illuso, spesso devoto fino all’inverosimile, questa volta si sentiva pieno di sé, gonfio di qualcosa che non sapeva definire, ma che assomigliava molto all’orgoglio.

    Quando la Santità ebbe assolto al proprio compito, Thierry si svegliò da quel sogno che non era un sogno, e mosse qualche passo indietro, perplesso come non mai. Era successo che per la prima volta aveva assistito a un miracolo, ma non era sicuro che lo avesse provocato la Santità, o se fosse stata la natura stessa a rivelarsi: lei che non si rivelava da tanto tempo, che era nascosta nel freddo e nella polvere, si era aperta ed era semplicemente bella. 

    Thierry fece ancora qualche passo indietro, mentre la Santità gli si avvicinava.

    Questi parlò:

    «Non so. Da qualche parte il mondo ha subito un’ingiuria, la mano di una bestia ha voluto infierire. Questo freddo e il Sole che non c’è non sono altro che gli effetti della bestia. Tuttavia, non so per quanto tempo questa mano orribile calerà ancora sulle nostre teste di uomini. È una frattura, un evento grande, come se si fosse spezzato l’equilibrio. Torneranno il cielo, e il sole, e di notte la Luna e soprattutto le stelle, che da molto tempo non si vedono. Ma non posso dire fra quanto tempo.»

    Il monaco guardò la pelle della Santità bruciata dal freddo, osservò le sue mani invecchiate dal gelo, più che dall’età. Era una scorza che lo proteggeva, come la pelliccia di un animale, dalla neve. 

    «Ora vai e torna la prossima settimana, come di consueto» sussurrò con voce leggermente roca e brusca quell’uomo un po’ santo, un po’ animale, un po’ corpo fatto di nuvole e grinze.

    E Thierry se ne andò, con la forza di un’impressione che superava il ricordo stesso di quello che aveva visto. In lui, più che le immagini, rimaneva la robustezza di quel pensiero nudo che la Santità esprimeva in maniera così fantasticamente naturale. Sì, aveva assistito forse a un miracolo, ma Thierry non immaginava che i miracoli fossero così naturali. E soprattutto, ripensandoci, si confermava l’impressione che questo non provenisse da Dio o da un suo emissario, bensì da qualcosa che era nell’aria, caliginosa o pura che fosse. Ecco: il miracolo, col suo portato di severa bellezza, era l’aria.

    L’aria ora soffiava alla terra restituendole la sua primigenia bellezza. Gli occhi potevano vedere anche lontano, lontanissimo. In quell’estate velata del 1258.

    Thierry se ne tornava, ma non ci mise molto a dimenticare quell’episodio strano. I pensieri tornarono al suo Dio, poi si indirizzarono molto più concretamente verso la fame. Era molto tempo che non mangiava. Aveva nutrito la Santità, quell’essere burbero e difficilmente definibile, ma aveva pensato poco a se stesso.

    L’attendeva il suo convento, che già vedeva a mezzo della costa del monte riflettere i raggi di sole, nel

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