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Il Mago egiziano
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E-book285 pagine3 ore

Il Mago egiziano

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Info su questo ebook

Vincere la sfida del tempo, rendere incorruttibile ciò che è destinato al decadimento. Questa è la sfida che ossessiona Girolamo Segato, egittologo e anatomista, che consacra la propria vita a studi spregiudicati tra medicina e alchimia, alla ricerca del segreto oscuro della pietrificazione. Per mezzo di essa, qualunque elemento biologico trascenderebbe a uno stato imperituro, immutabile, splendente.
Siamo in una delle epoche più gloriose dell’archeologia, quell’Ottocento che dischiude all’Occidente i mille arcani delle civiltà antiche. Moderno uomo universale, Girolamo esplora le vestigia dell’antico Egitto, nero di enigmi e dorato di magia, alla caccia di quei grandi saperi perduti con cui i sacerdoti consegnavano le salme dei faraoni al corso delle ere.
Attorno a lui altri uomini coraggiosi, viaggiatori, mercanti, diplomatici, che animano un mondo pieno del gusto sfrontato della vera avventura. E poi l’amico Pellegrino, il solo a conoscere da vicino il desiderio di Girolamo, e l’amata Isabella.
Ma certe ricerche non possono passare inosservate a coloro che in nome di dio da sempre precludono agli uomini la conoscenza più profonda della natura.
L’organizzazione chiamata Ecclesia è grande, potente, tanto invisibile quanto spietata, ha occhi ovunque e zanne fameliche. Vive nel segreto, e terribili segreti nasconde. Non può permettere che la scienza insidi il mistero definitivo della morte.
Romanzo appassionante, dallo stile prezioso e materico, costruito attorno a una figura quanto mai intrigante, sospesa tra realtà storica e leggenda personale.
LinguaItaliano
Data di uscita10 giu 2021
ISBN9788832928952
Il Mago egiziano

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    Anteprima del libro

    Il Mago egiziano - Antonella Dello Stritto

    19

    1

    Si feceris volare

    terram super

    caput tuum eius

    pennis aquas

    torrentum

    convertes

    in petram.

    (iscrizione sulla Porta Magica di piazza Vittoria a Roma)

    Nel buio labirinto della mente umana, tra i suoi insondabili misteri, vi è quello più strano per cui, nel richiamare un’immagine o un ricordo, ci si ritrova con le punte dei piedi sul ciglio dell’abisso.

    Il corpo oscilla, simile a una vela maestra, l’intelletto si contrae dolorosamente, ma il ricordo si affievolisce, cessa di respirare e muore.

    In tale strenuo tentativo si trovò lo spirito di Pellegrino, uomo avvezzo all’analisi e padrone delle scienze esatte.

    Fissò di nuovo lo sguardo sull’espressione disarticolata e vitrea dell’amico, vi concentrò ogni fibra del proprio essere, cercando di afferrare la coda sfilacciata di un ricordo.

    Uno solo sarebbe stato sufficiente. Uno soltanto, per non trovarsi più all’interno di quella stanza fredda, per recuperare il calore della vita.

    Molti anni addietro aveva giurato come Ippocrate, Pellegrino, e da quell’istante era divenuto un uomo nuovo.

    Nel corso del tempo aveva ritrovato quell’espressione infinite volte, triste analogia per ricordare a ogni essere vivente lo stesso luogo di provenienza e di ritorno.

    Non per questo si sarebbe detto meno pronto o meno capace di definire quel sentimento tanto profondamente scollegato dalla volontà.

    Talora Pellegrino si era illuso di averlo finalmente scovato, come fosse un segreto ancestrale, chiuso a bozzolo nelle stranezze macabre della natura: nel guscio vuoto e abbandonato dalla crisalide, nel volo crudele e caparbio di una falena verso la luce, nel precipitare delle meteore, negli occhi assenti delle persone molto vecchie.

    Il volto della morte che non è dio, ma viene da dio.

    Forse, anche solo per un istante, era tornato fanciullo, e così riuscì a guardare, con infantile accanimento, il corpo senza vita dell’amico.

    Si vociferava da qualche tempo che egli fosse ormai schiavo dell’oppio, che vedesse macabri drappi muoversi accanto a sé e funeree divinità egizie ovunque. Si diceva anche che in sua compagnia fosse necessario disporsi all’imprevedibile, poiché segni certi della follia erano ormai impressi su quel volto.

    Pellegrino non aveva mai creduto a quelle menti semplici: egli formulava da sempre teorie anticonvenzionali, in grado di liberarlo da ogni catena.

    Quella stanza, sempre più fredda e buia, guarniva l’ala destra di una modesta casa di campagna, più simile a un vecchio cottage nordico, in verità, circondata com’era da un robusto muretto di cinta in pietra viva e plumbea.

    Sopra la grande finestra, laddove i drappeggi impolveravano le massicce travi, si allungava un riflesso sinistro, proveniente da chissà quale vallata lunare, che rendeva tutto surreale: il soffitto, per esempio, appariva più alto e deforme. La fiamma nel camino languiva.

    Rimaneva nell’aria, satura di cattivi presagi, il cigolio arrugginito di una lampada a olio, in tutto simile a un grottesco turibolo, che calava dalla trave centrale tramite una lunga catena. Dalle mensole e dal grosso tavolo in noce, le statue delle divinità egizie, padroni dell’Oltretomba, guardavano mute.

    Pellegrino sentì il fiato smorzarglisi in gola come la fiammella di una candela abbandonata al vento gelido di febbraio; inghiottì a forza il proprio spirito che pareva volersene volare via, passando dalla gola e in mezzo ai denti.

    Si inginocchiò accanto all’amico, come se ancora avesse bisogno di certezze, di constatazioni tangibili, e lo fissò in attesa di qualcosa.

    Ma quel corpo giaceva immobile: la bocca spalancata in un grido muto, gli occhi inespressivi puntati verso la volta cupa del soffitto, le mani ormai livide, abbandonate sotto un sudario di viscido, freddo terrore.

    Girolamo era davvero morto.

    2

    Qualche ora prima soltanto, Girolamo Segato si affrettava a raggiungere la propria dimora, attraversando le strade buie e umide di Firenze, lasciandosi alle spalle le botteghe chiuse degli orafi e dei conciatori di pelli, imboccando il viottolo che conduceva dritto alla prima campagna, laddove ormai si accalcavano nobili fiorentini decaduti e gentiluomini inglesi.

    Di tanto in tanto, un fruscio lo aveva fatto sobbalzare, qualche verso di oscura provenienza simile a un fischio tremulo ne aveva rattrappito lo spirito e lo stomaco. Poi, improvvisamente, il cielo aveva aperto le cateratte; in poco tempo la stradina era diventata fangosa, mentre boati rauchi rotolavano come vertigini da dietro le colline.

    Girolamo si era stretto il cappotto e aveva accelerato il passo, sbirciando furtivamente il cielo quando balenava luci improvvise e livide che accecavano le forme della natura: rami secchi come mani ossute pronte a ghermire, rovi come rostri di falco, e pietre come infiniti, instancabili occhi malvagi.

    Egli non poteva nascondere più, neppure a se stesso, il baratro di terrore che gli si era spalancato dinanzi nei giorni passati; ormai tutti in città sapevano, ed egli non si era mai sentito tanto emarginato dalla gente.

    Si era guardato spesso alle spalle, sicuro di esser seguito, o quanto meno osservato da non molto lontano; tuttavia non aveva scorto che ombre in apparente rapido movimento, che potevano appartenere a qualsiasi corpo animato o inanimato.

    In quei giorni anche la campagna gli era parsa mutare in un’unica, grandiosa entità minacciosa, incarnazione sinistra dello spirito arcaico e sospettoso dei fiorentini.

    Ricordava di aver letto da qualche parte che non esisteva nulla di più vago delle impressioni attraverso cui si identificavano le persone.

    Con il tempo, però, aveva imparato a conoscere i propri ospiti, discendenti diretti di un popolo tanto strabiliante quanto enigmatico: gli Etruschi, la cui scrittura giaceva ancora muta, chiusa a riccio in segni impenetrabili.

    I fiorentini apparivano oltremisura ingegnosi in ogni loro manifestazione; svolgevano alcune mansioni meglio di chiunque altro, erano abili oratori e spesso davano l’impressione di saper dominare gli eventi.

    Girolamo sapeva anche che poteva essere molto pericoloso confondere l’ingegno e la vivacità intellettuale con la capacità di analisi e discernimento.

    Quel popolo era facilmente influenzabile, soprattutto se le nebbie di dubbi e sospetti prendevano dimora presso la Chiesa.

    Eppure, pensava di tanto in tanto, anche il papa era nato a Belluno. Un suo concittadino dunque, il che voleva dire aver respirato la stessa aria, aver calpestato il medesimo terreno e aver rabbrividito dinanzi agli stessi spiriti.

    La commistione fra scienza e sovrannaturale non era però contemplata da quell’uomo illuminato, ormai vecchio e con ogni probabilità dimentico delle proprie origini e dei propri esordi presso la comunità camaldolese. Aveva scelto all’epoca il nome di fra Mauro, benedetto dall’ombra enorme e potente della propria famiglia, i Cappellari.

    Ma fra Mauro era lo stesso Gregorio XVI che aveva indicato la libertà di coscienza come un delirio e una farneticazione?

    Un nuovo scricchiolio alle sue spalle lo strappò di forza dal luogo oscuro dei pensieri pericolosi, presso i quali era più salutare non soffermarsi.

    Era un labirinto irto di insidie e trappole, quello. A ogni angolo potevano nascondersi emissari, sicari, cospiratori, torturatori o feroci assassini, e vi erano mille modi atroci con i quali dare la morte a un individuo scomodo come lui, dipendeva unicamente dalla fantasia perversa dei suoi inseguitori.

    Dietro di sé Girolamo non riusciva a scorgere nulla, e per qualche istante, procedendo verso casa, si convinse che la suggestione umana aveva davvero un potere sconfinato e che il terrore cieco poteva disegnare sagome di demoni laddove vi erano soltanto arbusti intricati e ombre sinistre.

    Manca poco, si disse, ancora un breve sentiero e potrò scaldarmi dinanzi al fuoco.

    Dinanzi al focolare e a un buon bicchiere di vino sarebbe riuscito a mettere ordine fra i propri pensieri, e quegli oscuri presentimenti, irrazionali forse, ma chiarissimi.

    Aveva davvero bisogno di rileggere con calma le ultime due lettere dell’amico Luigi: ogni singola parola. Aveva bisogno di scandirle, magari a voce alta, per assicurarsi che fossero reali; di pensare di nuovo alle spiegazioni e ai consigli lì contenuti, e di sentirsi al sicuro, protetto dall’onestà e dalla sincerità di qualcuno.

    Imboccò il viottolo di destra, costeggiato da radi ciuffi di lentisco ed erica; la pioggia fitta gli impediva di vedere però gli oggetti più lontani.

    Dio del cielo, sussurrò, se mi fai giungere sano e salvo a casa, non criticherò più l’operato di santa romana Chiesa, lo prometto!

    Ma sapeva che il suono di quelle preghiere, intese come scambio vantaggioso per entrambi, non giungeva mai sino al cielo.

    La coltre di nubi sul suo capo scoperto e indifeso diveniva più densa e plumbea, mentre lampi e bubbolii metallici squarciavano il cielo.

    Rabbrividì. Poi, spinto da un istinto primordiale e tenace, prese a correre, facendosi largo tra le pozze d’acqua fangosa, i ciottoli e le radici nodose che emergevano, simili a membra scheletrite, dal suolo.

    Quando cadde rovinosamente ai piedi del grosso castagno, pensò che dita gelide provenienti dall’oltretomba lo avessero afferrato per le caviglie per spingerlo a faccia in giù, tra il muschio viscido e le pietre gelide. Il regno dei vegetali, misterioso e crudele, doveva inghiottirlo quale pasto sacrificale e placare così la propria ira.

    Rimase per qualche tempo stordito dall’impatto così improvviso; poi la fronte prese a pulsargli con forza. Aprì gli occhi e vide, ingigantiti, un rivolo d’acqua scivolargli sotto la guancia destra, per scendere poi pigramente giù, tinto di un rosso trasparente.

    Rialzandosi piano, si toccò la fronte, scoprendo un’ampia ferita dai margini frastagliati, calda e sanguinante: più un inquietante antefatto che una tragica conclusione di quella giornata iniziata a rovescio.

    Può un gatto nero attraversare la tua strada e sigillare con noncuranza l’accavallarsi delle ore a seguire?

    Poiché era questo che lo aveva colpito alle luci dell’alba. Un messaggero dei regni oscuri, dagli occhi guizzanti e assorti nello stesso tempo, un marchio di fuoco indelebile, come la voce del popolo, che poi come tutti dicono, è la voce di dio.

    Sferzato dalla pioggia e squassato dal frastuono del temporale, Girolamo rivedeva gli occhi di quel gatto restringersi e dilatarsi come quando lo avevano fissato per un unico istante quella mattina, come se sussurrassero abbiamo scelto te!

    Spinse lo sguardo di nuovo avanti. La villa non era poi così facilmente raggiungibile, tutt’altro. Occorrevano informazioni dettagliate, e un’accurata osservazione del luogo per poterla trovare.

    Questo pensiero lo tenne per un po’ al riparo di una sicurezza confortevole che credeva ormai smarrita.

    Poteva intravedere in lontananza la cancellata dalle cuspidi arrugginite e coperte dai convolvoli selvatici, e forse anche la targa dalla tinta sbiadita: Villa Ombra.

    Il viottolo cespuglioso che si snodava verso destra conduceva al fondo e quindi, proseguendo nella medesima direzione, alla vigna in parte abbandonata all’incuria. Gli arbusti portavano i segni di piogge recenti; lo spazio retrostante la villa, fiancheggiato da cipressi, era soffocato da rovi di more selvatiche, ginepri e un fitto boschetto di alloro.

    Girolamo riuscì a raggiungere il capanno degli attrezzi, utilizzato dal giardiniere ormai in maniera solo sporadica. Aggirò il piccolo orto, sorreggendosi alla bassa staccionata che segnava il confine con un piccolo rigagnolo d’acqua.

    Non si sentiva in grado di formulare pensieri coerenti, intirizzito nel corpo e nella mente. Scartò così l’idea istintiva che lo spingeva a rifugiarsi nel capanno per attendere la fine del temporale. D’altra parte la porta era chiusa da un poderoso catenaccio che avrebbe richiesto lo sforzo di trovare una via alternativa.

    Si sentiva anche un po’ stupido, così mal posizionato, in una situazione in cui non poteva di certo partire alla ricerca di qualcosa che potesse essergli di conforto.

    Sarebbe entrato in casa e lì finalmente avrebbe potuto abbandonarsi al riparo e alla cura del proprio corpo provato: si sarebbe riscaldato dinanzi al fuoco, mangiando formaggio e olive, e avrebbe allentato le maglie della rete che imprigionava la sua mente.

    Cosa aveva scritto Luigi?

    Il cardinal Bernetti non ha mostrato affatto alcun segno di benevolenza. La lettera è caduta nel vuoto.

    Le parole dell’amico erano scolpite nella sua mente e ora, come sempre nei momenti meno opportuni, trapelavano come effluvi nauseanti da un sudario di morte. Non vi era modo di scacciarle.

    Il cardinale segretario di stato guardava con sospetto e diffidenza alle novità, più per connaturata propensione che per reale convinzione; pertanto non aveva mai risposto di persona, né a lui, né all’amico Luigi.

    Lo aveva fatto però per interposta persona, ovvero tramite il cardinale Fabio Asquini, e ciò confermava ancor più una ferrea presa di posizione ufficiale e definitiva nei confronti di una scoperta giudicata pericolosa per le deboli menti dei fedeli, pronte a bere ogni sciocchezza.

    Non vi era spazio per nessuna speranza. Il ravvedimento non era contemplato.

    Girolamo appoggiò la mano destra sul portone reso lucido dalla pioggia battente; chiuse gli occhi e vi adagiò anche la fronte.

    Qual era il senso della ricerca? Quale il senso del progresso? E quale il valore di una vita a essi sacrificata?

    La conoscenza spaventava ancora, come nel Medioevo più oscuro e superstizioso, ed era costretta a tramare in bassifondi umidi e maleodoranti, a pulsare nascosta in vene cave sotterranee, ramificate, bitorzolute, deliranti, come ai tempi delle epidemie inguaribili.

    E i portatori della conoscenza erano forse i ratti malvagi e famelici, vettori che zampettavano nottetempo, sinistri ambasciatori di morte e disperazione?

    Come si era ridotto a vivere il professor Girolamo Segato? A quale compromesso si era piegato?

    Era stato irrimediabilmente contaminato dalla pericolosa esperienza del trascendente e, ciò che ancor più lo rendeva indegno agli occhi della Chiesa, dall’ostinazione, dalla perseveranza cieca, figlia del mancato ravvedimento.

    Si era scrollato di dosso, senza ripensamenti, i pregiudizi, e i condizionamenti dettati dal tempo e dalle leggi naturali; era entrato in strettissimo dialogo con ciò che è oscuro ed eterno, aveva intravisto gli abissi dell’infinito, varcando ogni limite imposto alla mente umana.

    Tuttavia per lui, chiuso ora nel buio corridoio di Villa Ombra, lontano da ogni sorveglianza, lontano anche dalla protezione discreta della servitù che da tempo ormai non poteva più mantenere, un’esperienza simile meritava anche il rischio della propria vita, lo smarrimento dell’anima stessa, se mai ve ne fosse stato bisogno.

    Non aveva seguito il consiglio di Luigi e non aveva neppure accettato il pagamento di una carrozza che lo riportasse a Belluno da parte del dottor Cappelli.

    Luigi e Pellegrino non avevano capito: tentavano ancora, con tutte le forze, di allontanarlo dal baratro. Ma la sua condanna era già stata scritta.

    All’interno del salone, accanto al vecchio camino in marmo rosa, l’istinto di Girolamo riusciva ancora a percepire qualcosa che la mente non poteva identificare.

    Ripensò al brusco cambiamento degli eventi, al tempo degli studi presso l’università del Granducato e anzi, ancora più indietro, a quelle curiosità mosse dall’ardore della giovinezza, quando liberamente si aggirava, avido di sapere, nell’archivio dei frati presso il convento di Vedana, di cui suo padre amministrava i beni.

    I certosini avevano diligentemente catalogato laggiù opere di vario genere, spesso dal contenuto esoterico. Vi erano testi di alchimia e filosofia, di medicina e storia antica; vi erano inoltre laboratori gorgoglianti e fumanti che i monaci avevano attrezzato meticolosamente nel periodo in cui gestivano le miniere d’argento nella Valle Agordina.

    Anni addietro, una devastante alluvione aveva colpito quei luoghi; l’avevano chiamata la boa e, nonostante i morti e la distruzione degli edifici, i superstiti avevano saputo ricominciare a vivere, a costruire e ristrutturare, con una forza pacata e serena che Girolamo aveva sempre invidiato.

    Conosceva ogni angolo di quel posto: la valle dei torrenti Missiaga e Bordina, il monte Talvena, la catena di San Sebastiano e tutti i colli.

    I suoi ospiti poi lo avevano affascinato con le loro misteriose promesse che, a quanto affermavano, avrebbero squarciato i veli del buio Medioevo e illuminato rivelazioni cosmiche.

    Lo avevano conquistato anche con i racconti fatti alla luce del camino, durante le sere invernali, popolati di antichi fantasmi, di demoni sconfitti da san Michele, di streghe e di indovini capaci di prevedere il futuro.

    Si adagiò sulla poltrona, accanto al camino che languiva, sollevò lo sguardo verso le pareti e poi lo lasciò scorrere lungo le travi del soffitto. Sospirò e riuscì a recuperare il controllo dei propri muscoli e il flusso ritmico del proprio respiro.

    Anche Isabella lo aveva abbandonato.

    Si era portata via la collana che credeva tessuta di preziosi rubini.

    Rubini? Girolamo sorrise.

    Ma quale differenza poteva mai esistere tra il colore di un rubino e quello del proprio sangue?

    Le donne chiedono il sangue.

    3

    Sopra il chiostro del convento di Vedana soffiava spesso una brezza dolce, che trasportava l’eco delle litanie dei frati, i saluti alla madonna cadenzati e ipnotici.

    Laggiù il giovane Girolamo, lontano dagli sguardi irreprensibili e accorti dei suoi sorveglianti, chiudeva spesso gli occhi, con il De architectura di Vitruvio tra le mani, sicché, per qualche istante, fantasmi di architravi, piattabande, conci e centine prendevano a fluttuare confusamente, poi i barbacani e altri contrafforti si allungavano come ombre al crepuscolo, sullo sfondo di un cielo insanguinato.

    Ed eccolo all’improvviso, il vecchio sogno ricorrente: si ritrovava a camminare, come smarrito e privo di memoria, su di un alto dirupo battuto da venti algidi, taglienti come lame; a una ventina di metri, alla sua destra, spiccava la linea di demarcazione della scogliera, rifinita da basse fronde deformi, protese sul baratro vertiginoso del mare in tempesta.

    Il sentiero che percorreva si inerpicava verso nord, serpeggiando tra rocce plumbee e muscose. Girolamo superava abbastanza agevolmente quegli ostacoli, mentre osservava un gregge di pecore pascolare in lontananza.

    Nessuna presenza umana.

    Mentre avanzava poi verso la cima, un velo di tenebra si adagiava lentamente sul paesaggio, annunciando l’arrivo della notte; tutta la natura rimaneva in sospeso, da un campo all’altro le rigide membra del crepuscolo distendevano i propri artigli di ghiaccio. Soltanto allora veniva colto dalla soffocante consapevolezza di essere spiato da qualcuno che lo attendeva appiattito nell’ombra più nera, come un enorme rettile primordiale.

    Giunto in cima alla salita, con il fiato corto e il cuore che balzava nel petto, si trovava nel mezzo di un bosco fitto, ma scabro e contorto, afflitto da una malattia secolare. Via via la vegetazione diveniva più bassa e meno intricata, lasciando intravedere una piccola radura dalla forma irregolare, al cui centro si ergevano le rovine di un’antica cattedrale.

    Alla sua sinistra si apriva un’area di sepoltura abbandonata all’incuria, dove lapidi e croci divelte giacevano soffocate da muschi melmosi.

    Lì la presenza in attesa diveniva più opprimente; così egli si voltava verso il bosco di nuovo, iniziando una folle corsa verso la direzione opposta. Al suo passaggio i rami, già secchi e privi di vita, mutavano in pietra, così gli arbusti, gli insetti, le onde arcuate del mare.

    A quel punto il sogno terminava, lasciando dietro di sé una scia fuligginosa di inquietudine, entro la quale il suo corpo continuava ancora per ore ad agitarsi, restituendogli l’illusione che sì, quella presenza era reale e pericolosa.

    Essendo un ragazzo dalla sensibilità spiccata, Girolamo già intuiva a tratti il profondo significato del sogno, come illuminato da una capacità potentissima della mente, senza però desiderare davvero che essa sostasse troppo a lungo sul ciglio di quel pozzo nero.

    Le superstizioni popolari, all’epoca, erano ancora ben salde e radicate in lui, ed era parimenti convinto che solamente la ragione potesse ricondurlo alla realtà, il giorno seguente.

    Ma lasciava sempre quella presenza in caccia, addormentata nel suo angolo di mondo.

    4

    La luna era ormai alta sulla linea morbida e ondulata dei colli. Era in effetti una notte particolarmente fredda, sebbene la neve andasse già dissolvendosi, lasciando intravedere lembi scuri di terra fangosa e luccicante.

    Pellegrino ascoltava il fruscio intenso dei rami che si dondolavano pigramente contro il bianco del disco lunare, ora oscurando la stanza, ora illuminandola, scoprendone il macabro contenuto. In lontananza borbottii cupi di tuoni franavano dal cielo lungo le valli.

    Il suo amico restava immobile laddove pareva essere stato colpito, il volto rivolto al plenilunio, come pronto a coglierne tutta l’algida bellezza.

    Quel volto ormai gonfio gli parve a tratti brillare, come risvegliato da

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