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L'orso e la lupa
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E-book372 pagine5 ore

L'orso e la lupa

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Info su questo ebook

All’alba dell’era cristiana e a pochi anni dal tramonto della Repubblica, Roma è oramai divenuta l’incontrastabile padrona del mondo. Il primo Imperatore della nuova era, il divino Caio Giulio Cesare Ottaviano, l’Augusto, è riuscito ad eliminare tutte le minacce interne e a consolidare i confini del grande Impero limitando le guerre a quelle zone ove alcuni popoli riottosi non hanno ancora piegato la testa di fronte alla superpotenza romana. La pax romana ha generato ordine e benessere e molti popoli stanziati oltre i “Limes” agognano questo nuovo mondo ed intrattengono rapporti commerciali e militari sempre più stretti con i romani. Fulvus, vive la sua gioventù nella tribù degli “Orsi Bruni” del popolo degli Juti e sogna un futuro avventuroso, con la speranza di vivere come un guerriero nordico e di emulare le gesta di suo padre, il grande Rudgar, capo carismatico della tribù degli Orsi Bruni. Sogna di brandire la grande ascia del padre e di poter combattere con onore per difendere la sua gente da uomini malvagi o da creature mitologiche in quei paesaggi quasi magici immersi nelle immense foreste di conifere ed avvolti dalle nebbie. Il giovane Juto non immagina nemmeno lontanamente quali battaglie dovrà combattere e quanto diverso sarà il mondo che lo adotterà come un figlio e che lo acclamerà come un eroe. Demetrio, giovane greco, non sogna imprese eroiche ma una vita tranquilla come quella che sta vivendo. Il suo mondo è semplice, vive nell’incantevole isola di Danousa e, unitamente alla sua famiglia, fa il pescatore. Un’improvvisa tempesta cancella, in un istante, tutto ciò che conosce e lo proietta in un altro mondo, duro e angosciante. I sogni svaniscono di colpo e per anni, perde anche ogni speranza, poi tutto cambia. I due giovani, accomunati da una sorte avversa, per uno strano gioco del destino giungono in Etruria ed iniziano una nuova vita che permetterà loro di costruire un futuro diverso da quello che avevano immaginato. “La vita si impara vivendo” è alla base degli insegnamenti del vecchio saggio di Alessandria ed è proprio questo che i due ragazzi dovranno affrontare. Cresceranno nel corpo e nello spirito e verranno forgiati dagli insegnamenti di due attempati centurioni che cercheranno, in tutti i modi, di trasmettere loro, tutta la loro esperienza militare. Il passato non è cancellato e a volte riaffiora nella mente dei giovani come un lampo che illumina ciò che sembrava nascosto da una coltre nebbiosa. Il ricordo fa male e a volte fa anche paura ma le proprie origini non vanno cancellate e nemmeno combattute e questa è forse la prova più ardua.
LinguaItaliano
Data di uscita1 apr 2018
ISBN9788827586785
L'orso e la lupa

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    Anteprima del libro

    L'orso e la lupa - Cesare Fantazzini

    ispiratrice."

    PARTE PRIMA

    759 Ab Urbe Condita (6 D.C.). Sirmium – Illirico (Sremska Mitrovica - Serbia) valle del fiume Drava

    Un pallido sole si affacciava sulla piana desolata, diffondendo una rosacea luce opaca, resa ancora più sinistra dai numerosi focolai che disseminavano il brullo terreno sino all’orizzonte. Il terreno era ricoperto da corpi orrendamente mutilati e martoriati, resi irriconoscibili dalle grottesche posizioni assunte nell’atto dell’ultimo rabbioso respiro. In questo macello di uomini e animali, si confondevano le armi e le insegne che il giorno precedente venivano brandite, con orgoglio e sfida dai contendenti di un’interminabile guerra che metteva sul campo uomini trasformati in bestie fameliche e bestie trasformate in chimere assassine.

    Spuntavano, come rachitici ed antichi arbusti bruciacchiati, gli stendardi che, stanchi delle infinite sfide, erano ormai incapaci di svolgere il loro antico compito, sventolando pigramente, straziati e bruciati, accanto ai corpi di chi li reggeva. Il silenzio era surreale, come se un manto lattiginoso avesse coperto le orecchie dei pochi sopravvissuti, in sostituzione del frastuono diabolico che, per interminabile tempo, aveva accompagnato l’orrendo ed inevitabile massacro, determinato dall’unica legge che vige in battaglia: "Uccidi per non essere ucciso". Si udivano solo, come provenire dal mondo dell’Ade, gli ultimi soffocati lamenti dei guerrieri che chiedevano, pietosamente, a Charon di fare alla svelta il suo lavoro, permettendo loro di raggiungere i compagni già in attesa nei Campi Elisi.

    Un uomo, immobile come una statua, era al centro del campo di battaglia, la testa leggermente piegata in avanti, come se stesse cercando di mettere a fuoco un punto indefinito che si trovava oltre il limite del terreno. Con un lento gesto della mano sinistra si tolse l’elmo crestato e, nello stesso momento, una lunga treccia di capelli biondo ramati, liberata dal peso del ferro, gli ricadde lungo la schiena. Il braccio destro era allungato lungo il corpo e la mano stremata impugnava una lunga daga che sembrava penzolare, anch’essa sfinita, dall’arto del soldato. Nella sua mente scorrevano immagini indecifrabili che si accavallavano in un susseguirsi di emozioni contrastanti che rendevano vani i tentativi che la mente compiva per tornare alla realtà. L’unica certezza erano i dubbi tremendi che come un enorme macigno, schiacciavano l’uomo che li generava:

    "È questa la gloria di Roma? Un ammasso informe ed infinito di carne e ferro, il tutto imprigionato in un viscido fango, reso tale dal sangue e dalle viscere versati da chi non poteva far altro?"

    Rimaneva forte, pungente e nauseante l’odore acre e dolciastro di ciò che era rimasto a terra ed in parte incollato ai corpi di chi aveva la fortuna o la sfortuna di poter raccontare le gesta di quegli uomini, morti per vivere e vissuti per morire. Alcuni degli uomini sopravvissuti allo sterminio, vedendo il loro comandante con lo sguardo perso, come in preda ad una visione distorta della realtà, cercarono di risvegliarlo dal torpore che annebbiava la sua mente, alzando le armi imbrattate di sangue al cielo, gridando il suo nome con un ultimo ruggito che riecheggiò nella piana:

    "….. Fulvus Invictus, Fulvus Invictus!"

    734 Ab Urbe Condita (19 A.C.) - 25 anni prima. Territori a Nord delle genti germaniche (Jutland del sud)

    La donna, dai lunghissimi capelli mossi, color del fuoco, portava in grembo il figlio che appena un mese prima era nato, in una gelida notte nevosa, nella casa degli Torsen, un’antica famiglia guerriera che aveva dato i natali ai capi di uno dei più importanti clan della gente degli Juti. Come voleva la tradizione e le rigide regole della religione tribale, il bimbo, ancor prima di emettere il primo lamento, era stato strappato dalle braccia della giovane madre ed alzato al cielo, sferzato dal gelido vento invernale, dal gigantesco padre, per temprare le membra della sua progenie guerriera. Allungando le possenti braccia al cielo, l’uomo cercava di avvicinare il più possibile, il nuovo arrivato al Walhalla di Odino come per far conoscere al Dio guerriero il figlio della sua stessa stirpe ululando:

    "Questo è mio figlio, questo è mio figlio!"

    Era il primo figlio avuto da Bleda e Rudgar e l’orgoglio e l’euforia del padre avevano invaso in breve tempo tutto il clan. Occorreva festeggiare l’erede maschio, bevendo birra sino a scoppiare e sacrificando la scrofa migliore alla benevolenza degli Dèi. La festa si prolungò per tutta la notte e dopo ore di canti e balli propiziatori, esaurite le energie gioviali, di colpo calò il silenzio, interrotto qua e là dal ringhio dei cani, unici guardiani svegli del villaggio che si contendevano i resti del sontuoso banchetto.

    Le asce, le lance, le spade e gli scudi dei guerrieri più importanti del clan, erano state bagnate nel sangue della bestia sacrificata, per ricordare la vocazione che un popolo di guerrieri non deve mai dimenticare: "Nel sangue si nasce, si vive e si muore".

    Ora tutte le armi erano disordinatamente appoggiate ai ceppi ormai spenti, resti dei grossi focolari accesi per illuminare e riscaldare la lunga notte. Solo poche persone non avevano partecipato attivamente alla festa. Bleda con in grembo il piccolo appena nato, aveva potuto godere di quei pochi momenti di intimità col figlio, momenti che difficilmente si sarebbero ripetuti, mentre i maschi del campo si battevano per gli ultimi boccali di birra.

    Il piccolo, tra le calde braccia della giovane Bleda, risvegliava quel desiderio di tenerezza che lega una madre al figlio, desiderio che nel clan non era ammesso in quanto simbolo di debolezza ma ora, Bleda era sola e poteva godersi questo momento, sapendo che non ne avrebbe avuti molti altri.

    "Piccolo essere…, un giorno diventerai il guerriero più forte della tua tribù, sarai conteso da molti, nel bene e nel male, e vivrai i tuoi giorni di gloria lontano da me, ma ora, in questo momento, sei solo mio."

    747 Ab Urbe Condita – (6 A.C.) - 13 anni dopo. Territori dei popoli germanici (Jutland del sud)

    Era giunto il momento, per i giovani del villaggio, di seguire gli uomini più valorosi, nella più pericolosa battuta di caccia nel territorio della tribù, per procurarsi le scorte di cibo per l’imminente stagioneinvernale. Anche se la terra degli Juti era vasta, occorreva fare attenzione a non sconfinare nelle terre di altri popoli confinanti creando i presupposti di guerre fratricide tra le genti del nord. Il compito dei più giovani era quello di spingere l’enorme bestia, l’orso, simbolo impresso sugli enormi scudi rotondi dei guerrieri della tribù, verso i cacciatori più anziani che nel frattempo avevano posizionato le grandi trappole, proprio dove la bestia doveva cadere. Fulvus era cresciuto parecchio, aveva raggiunto quasi le dimensioni del padre Rudgar e lo sguardo dolce e sincero della madre Bleda. Gli occhi nocciola erano svegli e curiosi e non tradivano le emozioni che il giovane Torsen provava, creando in alcune occasioni, il risentimento del padre che gli ricordava che un capo guerriero non deve mai mostrare al nemico ed ai suoi uomini le sue emozioni, soprattutto se negative:

    "Fulvus, ricorda; se dimostri di aver paura, i tuoi avversari diventeranno più forti ed i tuoi uomini avranno più paura di te. Mostra solo coraggio e sicurezza e anche una situazione negativa potrebbe volgere a tuo favore."

    I capelli lisci color ambra gli ricadevano lungo la schiena sino alle reni. In alcune occasioni, come quando doveva sottostare ai duri allenamenti al combattimento, sia con armi che a mani nude, era solito legarsi i lunghi capelli in una coda dietro la nuca o in due trecce che gli scendevano ai lati del viso. Quest’ultimo non aveva ancora sviluppato i caratteri duri e spigolosi degli adulti ma una leggera peluria bionda si confondeva col pallido colore della pelle non ancora segnata dai segni del tempo. Fulvus e gli altri giovani erano armati di coltelli, poco più lunghi delle loro mani e protetti esclusivamente da un piccolo scudo di legno che avrebbe dovuto proteggerli da un imminente attacco della bestia. Il loro compito era fare più rumore possibile, urlando a squarciagola e picchiando ripetutamente col fondo del manico del coltello sull’umbone rotondo dello scudo. Gli anziani non smettevano di incitarli.

    "Muovetevi femminucce, mostrate di essere uomini, questo è il vostro giorno e forse domani sarete pronti a diventare guerrieri, ... forza!"

    Probabilmente, i giovani guerrieri, non avrebbero dovuto combattere contro nessuno ma la paura era tanta e si confondeva con l’eccitazione per la prova imminente. Del resto molti giovani, prima di loro, erano stati feriti, anche gravemente, dagli artigli affilati della bestia. Anche Rudgar portava con orgoglio, sul viso, una cicatrice che come una saetta, gli divideva la guancia sinistra in due, dalla base dell’occhio sino al mento. Più volte Fulvus aveva visto le sue numerose ferite rimarginate che raccontavano le sue numerose battaglie ma quella che lo rendeva più fiero, era la "Saetta dell’orso" e non si stancava di dirglielo.

    "Vedi figlio, ho combattuto molto per proteggere la mia gente e la mia famiglia e anche se sono un guerriero, come tutti gli uomini della mia gente, odio la guerra ed il sangue versato per i capricci degli uomini. A volte è necessario doversi difendere da ingiuste aggressioni e l’unico modo per sopravvivere è, purtroppo, togliere la vita a chi cerca di negare la tua esistenza. Per questo motivo, non sono certo orgoglioso delle numerose cicatrici che porto sul corpo, ne avrei fatto certamente a meno se avessi potuto vivere in pace senza dover combattere. Ogni cicatrice corrisponde ad un uomo che ho ucciso in battaglia e molti altri sono morti per mano mia, senza aver avuto il tempo di trafiggere la mia carne. Noi siamo guerrieri non per scelta ma per necessità, in un mondo dove l’unica legge che vale è la violenza, o reagisci o vieni annientato. Ma questa, la Saetta dell’orso, è un’altra cosa. L’orso, il simbolo del nostro clan, merita rispetto, non uccide per divertimento o per futili motivi, come noi difende il suo territorio e i suoi piccoli e combatte sino alla morte per non essere sopraffatto".

    Il ragazzo non capiva:

    "Ma allora perché noi lo uccidiamo?"

    Rudgar non era sorpreso di tale domanda, anche lui, a suo tempo, aveva rivolto le stesse richieste e perplessità a suo padre.

    "L’orso per noi è un animale sacro e come tale è immortale. In realtà non lo uccidiamo veramente. Noi lo sacrifichiamo agli Dèi e così facendo, permettiamo al suo spirito di uscire dal corpo dell’animale per liberarsi nella foresta. In questo modo la sua forza ed il suo coraggio si insinuano nei cuori degli uomini del clan, rendendoli più forti. Poi ci cibiamo delle sue carni permettendo al vigore dei suoi muscoli di rinvigorire anche i nostri. Utilizziamo infine la sua pelliccia per riscaldarci nei mesi freddi. In fondo noi stessi diventiamo un po’ l’orso che abbiamo sacrificato."

    Rudgar aveva forse ragione, il figlio l’aveva visto alcuni anni prima partire al comando dei suoi uomini, armato di ascia, spada e scudo rotondo. Ricordava che il suo corpo possente era completamente ricoperto dalla pelliccia di un orso. Anche la testa era ricoperta dalla pelliccia della bestia e soltanto gli occhi permettevano di riconoscere, a fatica, l’uomo che la indossava. Sembrava una belva armata di ferro e certamente incuteva terrore negli uomini che lo avrebbero dovuto affrontare in battaglia.

    Era il capo incontrastato del clan degli "Orsi Bruni". Giunti al margine dell’immensa foresta gli uomini, armati di lance le reti, iniziarono a percorrerla allargandosi sulla destra, per poi convergere al centro, mentre i giovani dovevano fare l’opposto, e così iniziarono a fare: erano una trentina, tutti di circa 13 anni e tutti figli degli uomini più importanti del clan. Fulvus, essendo il figlio del capo, aveva il compito arduo di guidare i suoi compagni lungo i tortuosi sentieri del bosco, visti solo in poche occasioni e contrassegnati da indistinguibili graffi nascosti su alcune secolari piante. Il giovane aveva paura, non tanto per la sua sorte, quanto per quella dei suoi compagni che confidavano nelle sue scelte: in fondo Fulvus era il figlio di Rudgar e non poteva certo fallire. Il capo gli aveva più volte detto come comportarsi ma ora si sentiva solo e quasi incapace di muoversi.

    "Non pensare Fulvus, pensa all’orso, entra nella sua testa, nel suo cuore, nella sua pelle, e saprai cosa fare, risveglia l’animale che c’è in te, fidati del tuo istinto, muoviti!".

    Rudgar aveva più volte detto al figlio che per vincere un avversario occorreva conoscerlo bene, non solo per capire come avrebbe agito ma per comprendere le sue paure.

    "Tutti hanno paura Fulvus, anche i tuoi avversari, l’importante è non far capire loro che anche tu hai paura. Trasforma la paura in energia, in rabbia, come la fame in voracità, la paura è solo una sensazione, non può uccidere se la consideri tale, ma lo farà se le darai la forza di diventare qualcos’altro, un mostro informe e incolore che ti mangia l’anima e ti toglie il respiro, muoviti Fulvus, ruggisci!"

    I ragazzi entrarono nel sentiero buio, dove i raggi del sole faticavano a raggiungere il terreno. Il rumore che facevano non gli permetteva di comprendere se nelle vicinanze ci fosse l’orso o qualche altro animale ed ecco allora che muovendosi e ripensando agli insegnamenti del padre, incominciava ad intravedere le tracce che gli servivano e che fino a poco tempo prima, risultavano nascoste nell’oscurità. Grosse impronte nel terreno umido erano inconfondibilmente dell’orso in fuga, come i rami rotti dal suo passaggio ed i resti di pelliccia bruna impigliata sulle cortecce urtate dall’animale.

    "Muovetevi, siamo sul sentiero giusto, la bestia è in trappola, forza, battete gli scudi, sta scappando".

    Fulvus correva all’impazzata e la foresta diventava sua, sentiva i rami e le foglie che gli sbattevano contro il corpo e la faccia ma, come d’incanto, riusciva ad evitare che gli urti lo potessero ferire, perché i suoi movimenti erano stranamente agili e gli ostacoli scivolavano intorno a lui. Si infilava tra gli alberi come se fosse anch’esso uno strano animale capace di incunearsi in ogni pertugio che il bosco cercava di nascondere. Saltava dai dirupi ammortizzando la caduta, rotolando e rialzandosi correndo, riusciva ad arrampicarsi su ogni pendio aggrappandosi ad ogni appiglio come se, al posto delle mani e dei piedi, avesse artigli pronti ad essere utilizzati ad ogni evenienza. Il ragazzo non perdeva tempo e cercava di trasmettere la sua energia ai suoi compagni:

    "Muovetevi, sento che la bestia è vicina, correte!...ma...dove siete?...Dove sono?"

    Di colpo si rese conto di aver agito da solo, preso dall’eccitazione che l’aveva spinto troppo in là. Era solo e nel più completo silenzio, in un ambiente che di colpo ricadde, come per stregoneria, nell’oscurità più completa. Non sentiva nemmeno il rumore degli scudi battuti e le urla che i suoi compagni stavano sicuramente ancora facendo.

    "Dove siete finiti? E dove sono finite le mie armi?"

    Troppo preso dal suo inseguimento, aveva dimenticato l’insegnamento più importante di suo padre.

    "Fulvus, ricordati che in battaglia non devi isolarti, osserva i tuoi nemici ma ancor di più osserva i tuoi compagni e, cosa ancora più importante, non abbandonare mai le tue armi: vivi con esse o muori con esse, sei un guerriero, nel Walhalla sarai accettato solo se ti presenterai con la tua arma in pugno!"

    Il panico cominciò a pervadere la sua mente:

    "Come è possibile che mi sia isolato così tanto? Sono solo e senza armi e i miei compagni mi staranno cercando. Avranno certamente bisogno di me come io di loro."

    Il ragazzo non si rendeva neanche conto di quanto tempo fosse passato, il fitto intreccio dei rami non gli permetteva di capire se fosse ancora giorno o la notte avesse preso il sopravvento. Aveva perso completamente l’orientamento e tutto ciò che poco prima gli sembrava scontato ora diventava insormontabile.

    "Mantieni la calma, rilassati, la paura è solo una sensazione, non può vincerti!"

    Riecco che riaffioravano i racconti di suo padre, di ciò che avvenne ai confini delle terre del clan molti anni prima della nascita di Fulvus e che suo padre gli raccontò in alcune occasioni quando il ragazzo non era in grado di comprenderne a pieno i motivi.

    "Vedi Fulvus, un uomo non può capire che cos’è la paura finché non gli si para davanti come un muro ciclopico. Anni fa, accompagnavo mio padre nella guerra che la nostra gente ha dovuto combattere contro fratelli germani che abitavano le terre ad est dei nostri confini. Adoravano gli stessi Dèi, parlavano una lingua simile alla nostra ma credevano di poterci annientare solo per occupare i nostri territori e impadronirsi delle nostre donne.

    Partimmo all’alba di una mattina qualunque, nebbiosa e fredda. Io, che avevo poco più della tua età, cavalcavo uno splendido stallone nero a fianco dell’enorme stallone grigio montato dal capo, tuo nonno. Lui era un uomo alto e magro, ma dagli occhi sprigionava una forza che impressionava chiunque. Era impossibile fissarlo negli occhi senza abbassare lo sguardo dopo pochi istanti. Ormai non era più giovane ma le sue braccia venose erano dure come i rami irsuti che sorreggono le nostre capanne. Quella mattina eravamo in tutto circa trecento uomini e tutti seguivamo orgogliosi lo stendardo dell’orso che cavalcava con noi. Giunti nelle vicinanze del fiume l’imprevisto si materializzò.

    Dal bosco che avevamo appena attraversato, un ruggito spaventoso colpì come un maglio le nostre orecchie, seguito da un sibilo sinistro che anticipò di qualche istante l’orrenda realtà che ci avrebbe colpito a momenti. Una pioggia di dardi, uscita come d’incanto dalla vegetazione, stava ricadendo sulle nostre schiene mentre eravamo in procinto di attraversare il corso d’acqua. Eravamo rimasti inchiodati tra i nostri nemici che ci avevano sorpreso alle spalle ed il fiume, che non ci permetteva di avanzare velocemente nella sua direzione. Nemmeno il tempo di girarci ed i primi uomini delle retrovie venivano orrendamente colpiti e trapassati nei corpi che non avevano avuto il tempo di proteggere. Mio padre urlò ferocemente i primi ordinativi: Scendete da cavallo e giratevi, per gli Dèi! Alzate gli scudi, alzate gli scudi! e ancora: Rudgar, stammi vicino, fatti scudo col cavallo e stammi vicino, per gli Dèi, ci hanno tradito!

    Mio padre ed io ci ritrovammo di colpo nelle retrovie mentre gli uomini del clan cominciavano a cadere come foglie al vento. Dopo il primo lancio, durato giusto il tempo di comprendere ciò che stava accadendo, arrivò la seconda pioggia infernale. Molti di noi, nel frattempo, avevano alzato gli scudi sopra le teste e la maggior parte dei dardi rimase imprigionata nei nostri legni. Ed ecco che, giusto il tempo di verificare che la nostra carne fosse ancora integra, come un’onda di mare in tempesta, i nemici, superiori almeno tre volte di numero, ci si scagliarono contro, roteando le immense asce sopra la testa ed urlando a squarciagola come lupi affamati in cerca di prede. Quello che avvenne dopo è indescrivibile, un massacro rabbioso e senza regole che annientò quasi completamente il nostro gruppo, uomini e animali.

    Ciò che mi è rimasto impresso nella mente di quel tremendo macello, è la sensazione di paura e di isolamento che ho provato per la prima volta nella mia vita, paura avuta per la sorpresa dell’attacco e per l’impossibilità di reagire adeguatamente, che mi faceva sentire come un animale in catene, pronto ad essere sacrificato agli Dèi. Isolamento e solitudine immediatamente dopo quando, pur immerso nel pieno del combattimento, mi sembrava che il mio spirito fosse stato proiettato al di fuori del mio corpo, non provavo più sensazioni, né paura, né fatica. Mi muovevo e combattevo istintivamente come non avevo mai fatto e mi rendevo conto, per la prima volta, che i duri allenamenti al combattimento effettuati negli anni precedenti, davano i loro frutti proprio nel momento di maggior pericolo. Combattevo come un guerriero ed ero pronto a morire come un guerriero, con le armi in pugno, sino alla fine senza provare emozioni. Ma era un’illusione, di colpo rientrai nel mi corpo e mi resi conto del dramma che si era consumato.

    Ero vivo ma ero uno dei pochi. Tuo nonno era morto e giaceva accanto al cadavere del suo cavallo, trafitto come lui, da numerose lame. Gli occhi ancora aperti manifestavano ancora la rabbia impressa sul suo volto, per non aver saputo fronteggiare il pericolo imprevisto. Mi ritrovavo con la schiena ai margini del fiume e di fronte a me vedevo avanzare ancora i nemici che, dopo averci abbattuto con impeto, camminavano tranquillamente sui corpi dei nostri feriti, finendo, ora con diabolica precisione, chi era sopravvissuto all’urto iniziale.

    Ed ecco che la paura mi riavvolse come una coperta impregnata d’acqua che appesantisce il corpo di chi la indossa, impedendogli di muoversi liberamente. Venni destato dalla vista del nostro stendardo che stranamente era rimasto ancora in piedi, retto nella morsa del guerriero che lo brandiva e che, anche nella morte, continuava a trattenere come per dimostrare l’immortalità della bestia dipinta sulla tela. Non avendo possibilità di difesa ed essendo ormai praticamente solo, strappai l’insegna dalle mani del compagno e mi gettai di colpo nel fiume, facendomi trascinare dalla corrente, il più possibile lontano dal luogo e dal tempo del massacro. Rimasi sott’acqua per un tempo che sembrò interminabile mentre le frecce degli avversari mi passavano vicino senza tuttavia colpirmi, l’orso mi stava proteggendo. Riemersi molto più a valle ed ero solo, col mio stendardo.

    Quello è stato il momento in cui ho avuto più paura, non tanto per la mia sorte ma per come avrei raccontato alla gente del villaggio, uomini e donne in attesa del nostro trionfo, la disfatta completa. La paura mi attanagliò la gola quando mi resi conto che in quel momento ero diventato io il capo degli Orsi bruni, non per meriti, non per imprese eroiche, ma per la sorte che mi vedeva come l’unico superstite di una missione fallita che aveva ucciso tutti gli uomini che l’avevano intrapresa, compreso mio padre. A quel punto mi resi conto di essere improvvisamente invecchiato, non ero più un ragazzo che ascoltava i racconti degli anziani, fantasticando le gesta di antichi eroi. Ero diventato uomo dopo aver assaporato l’acre sapore della battaglia, dove la realtà supera l’immaginazione nel macabro gioco che cancella tutto ciò che ci può essere di eroico nei comportamenti di un uomo.

    La visione del mondo era di colpo cambiata ed ero cambiato anche io. Non ero morto in battaglia ed avevo capito che la paura non la puoi eliminare o sconfiggere, la puoi solo dominare e controllare, devi convivere con essa. Fulvus, devi sapere che le vicende che seguirono, permisero alla nostra gente di vendicare i compagni massacrati ed impossessarci noi stessi dei territori dei nemici, ma la paura che ho provato me la porto ancora dentro, non la dimentico e mi è servita per continuare a vivere e a far vivere il mio popolo."

    Fulvus ricordava che il padre era rimasto in vita anche se forse avrebbe preferito morire con i suoi compagni ma era stato successivamente capace di rinvigorire nello spirito il suo popolo, al punto da sconfiggere definitivamente i suoi nemici.

    "Sarò io in grado di uscire da tale situazione, certamente molto meno drammatica della sua?"

    Cercando di attingere a tutte le sue risorse, soprattutto mentali, riuscì, con fatica, a calmarsi. Faceva respiri sempre più profondi e sempre più lenti e sentiva che anche i battiti del suo cuore, in poco tempo, si allineavano al ritmo del suo respiro. Ora era più lucido e cominciava ad allontanare l’ansia che sino a pochi istanti prima gli paralizzava i sensi.

    "In fondo non sono in mezzo ad un campo da battaglia ma mi trovo nella foresta che in tante occasioni e per motivi diversi ho attraversato. Sento il fruscio delle foglie, l’odore del muschio ed il freddo della rugiada che si è posata sul mio corpo. Ho freddo ma non è una cosa insopportabile, il mio corpo è stato più volte temprato dalle gelide temperature che per la maggior parte dell’anno attanagliano la mia terra".

    Era giunta l’ora di reagire ed il ragazzo cercava in tutti i modi di farsi forza:

    "Forza, in marcia Fulvus!"

    Di colpo si rese conto che era passato più tempo di quello che immaginava. Il sole stava tramontando stando alla poca luce rossastra che si intravedeva tra le fronde degli alberi. Percepì, in lontananza, il ritmo cadenzato dei battitori, suoi compagni, che si allontanava sempre più:

    "Forse stanno rientrando al campo con la bestia o stanno ancora continuando la caccia. Non posso urlare per richiamare la loro attenzione, potrei mandare a monte le ore di caccia ininterrotta e adirare gli adulti e gli Dèi per la mia debolezza. Devo cavarmela da solo e ritrovare al più presto la via per il villaggio."

    Il giovane si arrampicò sulle cime degli alberi più alti per cercare di orientarsi ma si rese conto che diventava sempre più difficile capire la sua posizione; il sole era ormai dietro la linea dell’orizzonte e la poca luce violacea che ancora si diffondeva nel cielo, presto avrebbe lasciato spazio al buio più completo.

    "Devo cercare di costruirmi al più presto un giaciglio per la notte altrimenti morirò certamente di freddo. È certo che mio padre, almeno per il primo giorno, non mi verrà a cercare per non farmi sentire un perdente. Mi darà pertanto la possibilità di riscattarmi, spero di non deluderlo."

    Mille pensieri ed insegnamenti si accavallavano nella mente del ragazzo che cercava in tutti i modi di uscire dalla situazione pericolosa ed imbarazzante che si era creato con le sue mani.

    "Per il momento è inutile incamminarsi più all’interno nella foresta, non ne avrebbe senso, devo attendere l’alba per cercare la via."

    Dopo aver trovato un piccolo anfratto tra la fitta vegetazione, si infilò dentro e si ricoprì con le foglie secche recuperate a terra. Era sfinito nella membra e ancor più nello spirito e pregò gli Dèi per un domani migliore e, senza rendersene conto, cadde in un sonno profondo. Non percepì quanto avesse dormito ma era ancora notte fonda che venne risvegliato da voci lontane. Erano uomini e si stavano avvicinando. Un brivido gli corse lungo la schiena: stranamente erano venuti a cercarlo ancor prima che passasse la prima notte. Si avvicinavano sempre più, sentiva anche l’abbaiare dei cani che sicuramente stavano seguendo le sue tracce e coi loro ululati confondevano le voci degli uomini. Ma Fulvus era disorientato.

    "Non riesco a comprendere cosa si stiano dicendo. Perché non urlano il mio nome? Non capisco."

    Il ragazzo uscì dal suo giaciglio e si diresse a perdifiato verso le voci. Intravide tra gli alberi le luci tremolanti delle numerose torce che si muovevano nel buio. Sembravano fantasmi che fluttuavano nella notte come se galleggiassero a mezz’aria sospinti da una leggera brezza marina. Ed ecco che intravide le ombre degli uomini che certamente lo stavano cercando.

    "Sono salvo. Ancora pochi passi e certamente mi vedranno anche loro".

    Urlò il nome di suo padre per farsi riconoscere ma, stranamente, non ottenne risposta. Vide il volto degli uomini più vicini ma non li riconobbe e pensò che le energie lo avessero abbandonato e che la stanchezza gli stesse giocando strani scherzi.

    "Forse sono troppo stanco e la vista mi tradisce".

    Fulvus uscì allo scoperto con le braccia tese in avanti come per aggrapparsi con tutte le forze ai suoi salvatori, ma c’era qualcosa che non lo convinceva. All’improvviso venne colpito allo stomaco dal retro di una lancia, le gambe non riuscirono a sorreggerlo e cadde in ginocchio. Il colpo ricevuto gli tolse il respiro e non riuscì neppure ad emettere un lamento.

    Cercò di parlare ma la voce non uscì, come se fosse rimasta intrappolata alla base dei suoi polmoni che, infuocati, cercavano disperatamente di incamerare l’aria strappatagli con forza dall’enorme guerriero che lo guardava negli occhi, digrignando i denti in un sorriso maligno. La vista gli si annebbiò, le luci delle torce si confusero con i visi degli uomini più vicini. Sentì qualcuno che rideva e altri che parlavano in un idioma simile al suo. Il giovane lottò più con la mente che col corpo, per cercare di capire cosa stesse succedendo, poi una pesante rete lo avvolse ed un altro colpo tremendo ai reni lo rimandò nel mondo dei sogni.

    747 Ab Urbe Condita (6 A.C.) - Etruria, provincia romana

    Il giovane Demetrio aveva quasi quattordici anni e lavorava da più di tre anni, ininterrottamente, nelle miniere estrattive disseminate lungo il territorio che dall’antica lucumonia etrusca Velathri, costeggiava il mare in direzione sud, sino all’isola d’Elba sulla quale era presente una delle più importanti miniere di ferro dell’intera Etruria.

    Era uno schiavo ed apparteneva al padrone delle miniere delle colline metallifere, Septimo Clauco Cicero, un uomo rude ed arrogante che si era enormemente arricchito facendo lavorare nelle sue proprietà schiavi provenienti da ogni angolo del mondo conosciuto, mantenuti in vita in condizioni disumane solo per essere utilizzati come muli nelle profondità delle montagne, scavate spesso a mani nude per estrarre il prezioso minerale da rivendere nei territori dell’impero ed oltre.

    Durante uno dei suoi viaggi commerciali nel mare della Grecia, Septimo Clauco Cicero, non lontano dalle spiagge della piccola isola di Donousa, nell’arcipelago delle Cicladi, aveva salvato il ragazzo che non aveva ancora compiuto i nove anni, ed era naufragato tre giorni prima del suo ritrovamento unitamente alla sua famiglia di pescatori. Il piccolo Demetrio era rimasto aggrappato, con tutte le forze, al grosso tronco di cedro per tutto quel tempo, mostrando una tenacia ed un attaccamento alla vita non comuni, vista la sua giovane età. Era l’unico superstite e la forte emozione aveva cancellato dalla sua mente tutto il suo passato, ricordava solo il suo nome ed il fatto che tutti i suoi legami affettivi erano finiti in fondo al mare assieme a tutti i suoi parenti, durante la tremenda tempesta che aveva colpito, pochi giorni prima, l’imbarcazione di suo padre. Septimo Clauco Cicero non aveva pertanto perso l’occasione di recuperare il ragazzo per accrescere il suo esercito di schiavi scavatori.

    Anche se Demetrio

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