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Non è la prima volta
Non è la prima volta
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E-book183 pagine2 ore

Non è la prima volta

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Info su questo ebook

La piccola Marisa è la maggiore di quattro sorelle e lotta per trovare il un posto all'interno della sua grande famiglia. Diventata adulta, con un matrimonio alle spalle, conduce la sua esistenza di madre e piccola imprenditrice in apparente serenità. Il sopraggiungere di un disagio interiore, inizialmente latente poi sempre più pressante, la induce a fare i conti con se stessa. Con l'aiuto di Saverio, il suo psicoterapeuta, e il supporto della socia e amica Donata, Marisa intraprenderà un viaggio all'interno di se stessa. Proprio come un detective seguirà le tracce e analizzerà gli indizi che la condurranno alla scoperta di una terribile verità. Durante il doloroso cammino, Marisa troverà risposte a tante delle sue domande e soprattutto si riconcilierà col suo passato. Il presente intanto sta per metterla di fronte a una nuova sfida.
LinguaItaliano
Data di uscita28 set 2023
ISBN9791221482768
Non è la prima volta

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    Anteprima del libro

    Non è la prima volta - Imma Mulleri

    Marisa

    Per tutta la mia vita da adulta avevo cercato di dare un nome alla sensazione di disagio e solitudine che di tanto in tanto mi attanagliava cogliendomi alla sprovvista.

    La chiamavo il mio pozzo buio.

    Vi scivolavo senza avvisaglie. Un attimo prima procedevo nella vita con serenità e, immediatamente dopo, qualcosa mi trascinava giù, nella più infinita delle profondità. Restavo rannicchiata nel mio buio denso e appiccicoso in attesa di tornare in superficie.

    Saverio lo avevo conosciuto in bottega. Era uno dei miei clienti preferiti. A presentarmelo era stata la mia socia, Donata. Era un giovane uomo, intorno ai quarant’anni. Alto, atletico, bello e psicoterapeuta. Avevo da poco superato i cinquanta e già da qualche tempo sentivo l’esigenza di conoscermi meglio. Feci ricorso a tutto il mio coraggio e una sera, mentre stava per lasciare il locale, gli chiesi di fissarmi un appuntamento in studio.

    Durante le prime sedute avevo parlato a ruota libera. Avevo raccontato così tanti episodi della mia vita che ormai, pensavo, avrebbe dovuto cominciare a farsi un’idea di chi avesse di fronte. Non fosse altro che quelle sedute settimanali avevano un costo e il mio budget ne risentiva. Ne valeva la pena però.

    Non che non mi fossi mai confidata con altri, le amiche più care s’intende, quelle con cui avevo più confidenza, ma ero sempre stata cauta e anche un po’ strategica. Avevo suddiviso la vita in frammenti e li avevo distribuiti con generosità a orecchie che potessero intendere. Di figli discutevo con Carla che ne aveva tre; per le beghe lavorative non c’era nessuno con cui potessi intendermi meglio che con Valentina; il sesso invece era riservato a Donata, e che risate ci facevamo!

    Cercavo insomma il buon intenditore in base agli interessi e alla propensione del mio interlocutore e qualche volta baravo anche un po’, per apparire migliore di quanto non fossi.

    Per Saverio, però, ascoltare era una professione, bastava pagare il biglietto e salire sulla giostra. Con lui tenevo costantemente a freno la tentazione di edulcorare la realtà. Ero determinata a essere sincera.

    Marisa

    Per quel sabato, l’incontro era terminato.

    Guardai l’orologio, era ancora troppo presto per recarmi in bottega. Attraversai la strada e raggiunsi il giardino pubblico a pochi metri di distanza. Cercai una panchina al sole e mi sedetti, cercando di tenermi lontana dalle chiazze di guano che i piccioni avevano spiaccicato sul cemento poroso.

    Il giardino al centro della piazza era deturpato dall’incuria. Lattine di bevande accartocciate, bottiglie di birra vuote e contenitori di cibo usa e getta spiccavano tra i ciuffi d’erba al posto dei fiori. Qua e là, quando non erano stati divelti, i cestini per la raccolta dei rifiuti straripavano di immondizia. Tra le fughe dei mattoni che delineavano le zone calpestabili si incastravano a decine i mozziconi di sigarette, e lo zefiro, che soffiava da ponente, creava mulinelli in cui ruotavano più cartacce che foglie secche.

    Per guardare la bellezza dritta negli occhi bastava però sollevare di poco la testa.

    Solo allora era possibile ammirare lo spettacolo delle palme che si stagliavano alte nel cielo terso e luminoso, attorniate da robinie frondose che dispensavano un’ombra fitta e ristoratrice. Più avanti, quasi al confine con la strada, dimorava da tempo immemore un enorme ficus tenuto in equilibrio dal tronco e dalle imponenti radici aeree che ricordavano le colonne di pietra di Crowley Lake. Durante la stagione estiva i vecchietti vi si recavano con le sedioline sotto il braccio, per una partita a carte o anche solo per ingannare il tempo rievocando i ricordi del passato.

    Decisi di rimanere col naso all’insù per continuare a godere dello spettacolo della natura. Gli allegri fiorellini gialli della bignonia avevano ridisegnato il perimetro dell’antica chiesa ridotta in rovine. I suoi rami si allungavano, come braccia supplicanti, in direzione del campanile dove le lancette del vecchio orologio si erano addormentate in un lungo sonno e, come la principessa Aurora, aspettavano il bacio del vero amore. Le rondini cinguettavano allegramente, spostandosi velocissime in piccoli stormi che un attimo prima erano proprio a un palmo da me e un attimo dopo non le vedevo più.

    Mi sentivo a mio agio all’aria aperta, nei giardini curati come in quelli infestati dalle erbacce. D’altra parte avevo vissuto in campagna per più della metà della mia vita.

    Da bambina desideravo che la mia casa fosse circondata da un prato all’inglese ben curato, con siepi squadrate e aiuole fiorite tutto l’anno e una mamma sorridente ed elegante, con i lunghi capelli ramati ben acconciati e, appeso al braccio, il cestino con le cesoie. Avrebbe camminato con passo aggraziato e si sarebbe chinata per recidere i fiori formando splendidi mazzi profumati e sorridendo verso la telecamera. Proprio come mi era capitato di vedere nei film americani.

    A casa mia, invece, i pochi fiori scampati alla motozappa crescevano selvatici. Dal nonno avevamo ereditato la terra ma anche la paura della fame di una generazione sopravvissuta alla guerra. Ogni centimetro della proprietà doveva servire a produrre cibo, e i fiori non sfamavano.

    Gli innumerevoli alberi da frutta erano stati piantati in modo da lasciare ampi spazi soleggiati in cui fare crescere gli ortaggi ed erano quelli a riempire il cesto della mamma.

    Si dirigeva a passo veloce in direzione dell’orto con la veste di casa, le scarpe da campagna, i capelli legati alla bell’e meglio e un coltello da cucina. Con movimenti rapidi e sicuri staccava dalle piante, a seconda della stagione, fagiolini, pomodori, zucchine, cavolfiori e broccoletti per il fabbisogno giornaliero. Prima di rientrare in casa, si sfilava le scarpe sporche e logore e indossava le ciabatte.

    Fino ai tredici anni avevo pensato che quella fosse la normalità. Le poche famiglie che vivevano nelle vicinanze somigliavano alla mia. I panni lasciati ad asciugare nei cortili al sole erano in maggioranza di cotone bianco, facili da pulire e da smacchiare. I cani lasciati liberi di scodinzolare si chiamavano tutti Bobby o Tommy. E noi bambini passavamo indifferentemente da una casa all’altra e andavamo a scuola in gruppo percorrendo a piedi le poche centinaia di metri di distanza.

    Alla fine delle scuole medie ognuno andò per la sua strada. Non tutti avrebbero continuato a studiare e chi lo faceva doveva allontanarsi da casa. Per me scegliere gli studi classici era stato naturale.

    Nonostante il liceo distasse soltanto una decina di chilometri da casa, ogni mattina avevo la sensazione di attraversare un portale ed essere trasportata in un'altra dimensione.

    Uscivo da casa di buonora immergendomi nell’aria fredda e silenziosa del primo mattino. Raggiunta la statale, riuscivo già a scorgere in lontananza la sagoma dell’autobus, con l’autista e il nugolo di passeggeri che come me aspettavano di essere trasportati in città. Quando le temperature erano particolarmente rigide, il vapore che usciva dalla loro bocca si condensava in minuscole goccioline, formando nuvolette dove scrivevo i miei pensieri come nei fumetti.

    Il maniglione di metallo a cui mi aggrappavo per salire sull’autobus era scorticato in diversi punti ma soprattutto freddo, di un freddo viscido e sporco che restava attaccato alle mani. Prendevo posto e aspettavo che il conducente salisse, accendesse il motore e iniziasse la corsa. Sempre in bilico tra il sollievo di lasciarmi alle spalle la mia casa di campagna e l’angoscia di dovermi rinchiudere nell’aula di un edificio dove tutto mi appariva estraneo se non addirittura avverso. Ogni semaforo rosso, ogni macchina in doppia fila e perfino la lentezza dei vecchi che impiegavano secoli per salire e scendere diventavano miei alleati, prolungando il tempo che trascorrevo all’interno dell’automezzo.

    Non era raro che superassi la fermata e continuassi la corsa, promettendo a me stessa che sarebbe stata l’ultima volta. Mettevo a tacere la risoluta e gracchiante voce della mia coscienza e mi concedevo una dose omaggio di buonumore.

    Con spirito finalmente sereno, osservavo i passanti dalla mia posizione privilegiata cercando di indovinare chi fossero e cosa si accingessero a fare. La signora dai capelli castani che teneva stretta la busta piena di fogli del tutto simili a quelli che usavamo per i compiti in classe, non poteva che essere un’insegnante. L’uomo dai capelli brizzolati, il completo scuro e la valigetta di pelle, aveva tutta l’aria di essere un avvocato e, d’altronde, si dirigeva a passo spedito, in direzione del tribunale. La giovane donna con le occhiaie sul viso pallido e struccato, il cappotto liso e fuori moda, che trascinava il bambino recalcitrante, era sicuramente una casalinga. Chissà, mi domandavo, se anche loro avrebbero preferito prolungare la corsa e scommettere tutto su una nuova fermata.

    Quando raggiungevamo il centro storico mi alzavo in piedi pronta per scendere all’apertura della bussola.

    Percorrevo con passo furtivo una delle via più eleganti della città. Sentendomi un’impostora mentre calpestavo, con le suole delle mie scarpe a basso costo, i marciapiedi perfettamente spazzati e impreziositi da alberi maestosi o mi specchiavo nelle vetrine dei negozi che proponevano beni di lusso. Ero certa che la gente, affacciata ai balconi fioriti delle palazzine Liberty, capisse fin dalla prima occhiata che non ero una di loro.

    La mia meta però era vicina, e quando finalmente la raggiungevo spingevo il pomello in ottone con gioia, ignorando volutamente le impronte delle mani che insudiciavano la porta a vetri. Varcata la soglia, venivo avvolta da un familiare senso di benessere che diventava pura felicità quando mi accorgevo che il mio tavolino era libero. Mi lasciavo cadere sulla poltrona un po’ consunta e ordinavo un caffè che era, in fin dei conti, tutto quanto potessi permettermi. Appena il cameriere si allontanava con l’ordinazione, aprivo la borsa, tiravo fuori il libro e riprendevo a leggere da dove avevo lasciato.

    Di tanto in tanto sollevavo gli occhi per guardarmi intorno.

    Il tempo aveva impresso il suo sigillo a quello che era stato un locale di lusso in cui si dava appuntamento il meglio della società. La carta da parati era sbiadita e staccata in diversi punti, sulle poltrone di velluto logoro sedevano anziani personaggi che sembravano usciti da un quadro della Belle Époque. Anche i camerieri avevano abbondantemente superato i sessant’anni, e con le loro maniere affettate e i capelli cosparsi di brillantina si aggiravano tra i tavoli per accogliere con sussiego qualunque richiesta.

    Immersa nel denso fumo delle sigarette − a quel tempo si poteva ancora fumare nei locali pubblici − e cullata dal mormorio delle voci roche e sommesse, mi immergevo nel mio mondo di parole scritte e segni di punteggiatura che rendevano le frasi comprensibili molto più di quanto riuscissi a comprendere il mondo e me stessa.

    La vita color seppia dai contorni sbiaditi del bar faceva risplendere la mia gioventù.

    Al contrario la scuola, a cui ero momentaneamente sfuggita, mi mortificava rendendomi bidimensionale come nei quadri dei Fauves, di cui aveva gli stessi colori vivaci e sfacciati, lo stesso cuore pulsante, la stessa istintività e immediatezza.

    Il tonfo degli zaini sui banchi, il colore sgargiante delle felpe, i jeans attillati sopra i corpi forti e vibranti. Le risate che diventavano schiamazzi. Il suono stridulo della campanella che annunciava la ricreazione. Pezzi di corpi scomposti stipati dentro la cornice della porta mossi dall’urgenza di guadagnarsi l’uscita. E di nuovo ressa davanti alla vetrina del baretto, ingenue discussioni contro il sistema, sigarette accese, baci ostentati, baci segreti, dolori profondi camuffati di arroganza. Questo per me era la scuola, ed era troppo.

    Mi limitavo a osservare senza che nessuno si interessasse a me. Restavo in silenzio anche durante le interrogazioni e solo durante i compiti in classe mollavo gli ormeggi. Le righe viola nel foglio di computisteria imponevano ordine al caos. Un binario all’interno del quale era impossibile deragliare e al quale mi aggrappavo come un aquilone al suo filo.

    Eri una ragazza disadattata aveva concluso Saverio ascoltando i miei racconti. Affrettandosi a spiegare che non dovevo avere paura di quella parola. Significava soltanto che non mi ero adattata all’ambiente; che, essendo una ragazza aperta con un’intelligenza creativa e curiosa, potevo aver trovato problemi ad accettare le regole della scuola, la quale tendenzialmente tendeva a omologare piuttosto che valorizzare.

    «Mi scusi, ha da accendere?» La voce della giovane donna mi scosse dai miei pensieri. Annuii, frugai nella borsa e tirai fuori l’accendino, feci scaturire la fiamma e la accostai alla sigaretta della sconosciuta che ringraziò e si allontanò a passo veloce in direzione della metropolitana. Mi guardai intorno, adesso la piazza si era riempita di gente. I bambini tiranneggiavano i nonni; i cani i loro padroni. L’eccitazione di bimbi e animali strideva con la stanchezza rassegnata degli adulti. Ancora una volta mettevo a paragone la sgargiante luminosità dei primi con l’opacità dei secondi, come se crescendo non potessimo fare a meno di sbiadire, fintanto che sparire non fosse che l’estrema conseguenza.

    Un

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