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Famiglia Di Estranei
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E-book267 pagine3 ore

Famiglia Di Estranei

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Info su questo ebook

Nei primi mesi del 1939 la vita di Eva Thorne viene sconvolta.

All'alba della Seconda Guerra Mondiale per gli abitanti di Fielding la vita continua in modo semplice. Ma la paura e i sospetti gettano un'ombra sul mondo di Eva, quando la sua più cara amica sparisce nel nulla e nessuno sembra averla mai conosciuta.

Dubitando della sua stessa sanità mentale ma ansiosa di ritrovare Annie, Eva conosce due misteriosi estranei: l'anziana ed eccentrica Lola, e il dolce ma distante Gabe. Senza mostrare sorpresa per la storia di Eva, i due le aprono gli occhi su un mondo nascosto - uno in cui le persone possono essere perse e tutti i ricordi di loro cancellati. Gabe e Lola promettono di aiutare Eva nella sua ricerca, ma presto lei inizia a sospettare che le stiano nascondendo segreti importanti.

Una storia toccante, Famiglia di estranei esplora il significato di amore e appartenenza nel mezzo della paura e dell'incertezza.

LinguaItaliano
Data di uscita14 giu 2020
ISBN9781071540039
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    Anteprima del libro

    Famiglia Di Estranei - Barbara Willis

    Per Elisabeth, Meredith e Adam, che mi rallegrano e ispirano.

    Per Steve, che mi ha dato il tempo di realizzare un sogno.

    Prologo

    Ricorda di Christina Rossetti (1830-1894)

    Ricordati di me, quando me ne sarò andata via,

    Andata lontano nella terra del silenzio;

    Quando non potrai più tenermi per mano,

    e io non potrò più scegliere se andarmene o restare.

    Ricordati di me, quando non potrai più dirmi di giorno in giorno

    di quel futuro che avevi in mente:

    solo ricordati di me; lo sai,

    sarà tardi allora per consigliarti e pregare.

    E se tu dovessi dimenticarmi per un po’

    e dopo ricordare, non tormentarti:

    perché se oscurità e corruzione lasceranno

    un segno dei pensieri che un tempo avevo,

    voglio piuttosto che tu scordi e sia felice,

    che dover ricordare ed essere triste.

    Oggetti smarriti

    Mi ritrovò poco dopo, seduta su una panchina, tanto lontano dal cancello quanto ero riuscita ad andare. Con le mani unite in grembo e la mente lontano, mi accorsi della sua presenza solo quando poggiò gentilmente la sua mano sulle mie. Anche se si trattava di un contatto inaspettato con una sconosciuta, i miei istinti non mi spinsero a ritrarmi e la guardai in volto. Posso unirmi a te? mi chiese gentilmente, ma senza aspettare la mia risposta.

    Ripensandoci ora, penso mi sentissi sicura per il modo in cui mi teneva le mani tra le sue.

    Prima di quel gesto amico, mi ero sentita più spaventata di quanto avessi mai potuto immaginare possibile. Le mie mani si rilassarono sotto le sue; una piccola parte di me che sentiva sollievo dalla paura.

    Quella piccola donna, che mi teneva per mano, mi fece pensare ad un bambino che tiene la corda di un palloncino che sobbalza nel vento e rischia di volare via lontano nel cielo infinito appena lasciato andare. Un palloncino che vagherebbe tra nuvole e venti, fino a diventare troppo piccolo e non essere mai più rivisto. Mi sentivo come il palloncino e come se la realtà fosse la presa di quell’anziana signora, da cui potevo sfuggire facilmente. Non volevo che se ne andasse.

    La mia giornata era stata così surreale che l’invito per il thè di quella donna anziana sembrò quasi normale a confronto. Era iniziato come un giorno qualsiasi, senza nessun indizio di ciò che sarebbe successo.

    Lavoravo in un negozio – un posto piccolo e amichevole. Nei ventiquattro mesi in cui avevo lavorato lì, mi ero affezionata a tutti i clienti del signor Grayson e avevo imparato tutti i loro gusti e, di alcuni, le loro stranezze. Il signor Grayson e sua moglie erano molto gentili ed ero sempre stata felice in loro compagnia. Il mio lavoro era come un comodo paio di scarpe o un vecchio maglione; rassicurante e familiare. Nel tempo si era modellato su di me, e io su di lui penso, nello stesso modo in cui la città in cui vivevo sembrava aver fatto.

    Fielding è un piccolo paese tranquillo. La strada principale che corre dritta attraverso il centro come il tronco di un grande albero; i parchi, le case, le scuole e i negozi nel centro che rallegrano il paese. Una chiesa al confine, con una fattoria sulla sinistra, circondata da campi a destra, volge la sua facciata verso il paese. Fondata da duecento anni, sorge su un piccolo rialzo che ne sottolinea l’importanza, e ha le porte sempre aperte.

    Ero diventata adulta a Fielding, ma avevo passato l’infanzia tra le braccia di uno dei suoi sobborghi più piccoli, Rushton. Invece di seguire la tradizione di lasciare la casa di famiglia solo dopo il matrimonio, mi ero trasferita a Fielding da sola nel maggio del 1937, avevo trovato un lavoro e una gentile coppia che mi aveva ospitato. La mia nuova indipendenza mi calzava, come dicono, come un guanto.

    So di aver sempre dato per certa la mia vita felice, invece di realizzare quanto ero fortunata a vivere nella sicurezza e nella felicità.

    Il giorno in cui mi ritrovai seduta nel parco fu in un momento di dubbio e insicurezza per la nazione. Molti esprimevano le loro opinioni sulla possibilità e i tempi con cui il nostro Paese e i suoi uomini dovessero farsi avanti ed affrontare gli orrori della guerra. Nonostante, per fortuna, fossi troppo giovane per aver sperimentato la Grande Guerra, essendo nata nell’anno in cui era finita, le sue ripercussioni si facevano ancora sentire e le storie, la rabbia e la tristezza erano ancora presenti. Era una vecchia ferita che, anche se sembrava per buona parte guarita, rimaneva così fragile che, anche il più piccolo trauma, avrebbe potuto riaprirla e causare una nuova emorragia di ricordi.

    Avevo pregato molte volte che non venissimo gettati in quell’orrore. La voce più comune in quel periodo era che il conflitto era certo, ma che potevamo essere sicuri del fatto che sarebbe tutto finito entro Natale. Speravo fosse vero, anche se altre voci ricordavano che era già stato detto lo stesso in passato. Non conoscevo la paura paralizzante nel salutare qualcuno di amato per vederlo sparire per mesi, o anche per sempre. Nella mia innocenza, nonostante il rombo del disagio fosse udibile attraverso le nostre vite, ero sempre stata libera da preoccupazioni. Quella paura, per il momento, non mi apparteneva.

    Il sabato era il mio giorno preferito, e lo è ancora, nonostante le mie abitudini siano un po’ cambiate ora. Una volta saltavo sul pullman appena finito il lavoro e percorrevo i dieci chilometri per arrivare a Rushton e passare il pomeriggio con la mia amica più cara, Annie. Spesso andavamo in biblioteca per rifornirci e consigliarci nuove letture l’un l’altra. Non ho così tanto tempo per leggere ora e la biblioteca mi vede soltanto di tanto in tanto, come quando si incontra un vecchio amico.

    Molti dei miei sabati venivano completati con un bel pasto in famiglia da zia Kathleen. Sorrido al pensiero di zia Kathleen e zio Bob che ora mi dicono sempre che dovrei andare a trovarli più spesso, anche se vado sempre a salutarli ogni volta che passo a Rushton. Come segno di rispetto, sono cresciuta chiamando i genitori di Annie zia e zio, e lo faccio tutt’ora.

    Nonostante tutti i cambiamenti che possono avvenire, sembriamo sempre accolti e coccolati quando torniamo nelle nostre città di origine. Mentre il mio piccolo mondo sembrava caldo e sicuro, le voci di cambiamenti mondiali, la disponibilità di certi generi nei negozi o le evacuazioni e la partenza dei giovani, non sembravano nemmeno reali. Allora procedevo con la mia vita quasi senza cambiare. C’erano ovviamente occasionali conversazioni con i clienti del negozio su cosa potesse succedere nei mesi avvenire; a volte sentivo le stesse conversazioni dalla gente per strada. Ma le cose sembravano succedere ad altri, non a me, e la vita nelle nostre piccole città andava avanti indisturbata e senza cambiamenti.

    Inizio e Fine

    Il sabato di aprile in cui pensai che la vita fosse finita, per scoprire solo più tardi che era appena iniziata, salii sul pullman diretto a Rushton e sedetti nel mio solito posto, due file dietro l’autista. Dieci chilometri più tardi salutai velocemente, saltai giù e mi diressi alla biblioteca. Annie non c’era così mi avventurai all’interno per cercarla. Non avevamo mai avuto un piano preciso su dove incontrarci; a volte la trovavo fuori, altre volte dentro, tra i magnifici, lunghi corridoi di libri che ci aspettavano per rivelarci le loro storie.

    Dato che Annie non c’era ancora, vagai su e giù, prendendo a caso qualche libro per decidere se portarlo via con me. Qualcuno dice che i libri sono oggetti vivi; mi chiedo se trattengano il fiato speranzosi quando li prendiamo in mano per osservarli, per poi sospirare abbattuti, attraverso le loro pagine silenti, se riposti. Sussurrai scusa riponendo un libro e sorrisi a me stessa camminando lungo il corridoio. Avrei dovuto raccontarlo a Annie; l’avrebbe fatta ridere.

    I minuti passarono. Annie non arrivò. Passò un’ora. Annie non c’era ancora.

    Avevo raccolto qualche libro mentre mi muovevo tra gli scaffali, due per me e uno che pensavo sarebbe piaciuto a lei, ma non feci la fila per prenderli. Li lasciai su una sedia vuota alla fine di una fila di scaffali, una cosa che mi avrebbe infastidito se avessi visto qualcuno fare lo stesso, e uscii veloce. Qualcosa dentro di me suonava disturbante, fuori posto, ma non riuscivo a trovarne la fonte; si trovava appena fuori dal pensiero cosciente. Annie non era mai in ritardo; forse il mio disagio era la preoccupazione che non stesse bene.

    Arrivai a casa sua in dieci minuti, mentre di solito ce ne mettevo venti.

    Ciao! dissi ad alta voce, aprendo la porta sul retro. Zia Kathleen, zio Bob! Annie, sei a casa? Il tono del mio saluto mi risuonò nelle orecchie, una liscia copertura agli spigoli ruvidi del disagio che si acuiva mentre la preoccupazione cresceva.

    Ciao cara sorrise zio Bob, seguendomi dal giardino. Non mi aspettavo di vederti oggi. Mi baciò sulla guancia e si diresse al lavandino per lavar via la terra dalle mani. Guardai la sua nuca calva mentre stava in piedi davanti al profondo lavandino di pietra bianca, per girarsi poi verso di me una volta preso uno strofinaccio per asciugarsi le mani ruvide.

    Confesso che non pensavo di venire oggi, zio Bob, ma sto cercando Annie. Non c’era tempo per le chiacchiere felici e senza senso.

    Poi arrivò.

    Il momento in cui la mia vita cambiò.

    Scusa, cara, non la conosco. La conosce zia Kath? Zio Bob stava rovistando in un cassetto. Ah, ecco qui! Prese un gomitolo di spago e lo alzò, mostrandomi orgoglioso ciò che aveva scoperto nelle profondità caotiche del cassetto. Ho un paio di lavori da fare nell’orto oggi, quindi non mi fermo. Vuoi dire a zia Kath di mettere su il bollitore, cara? Vieni a cena.

    Poi mi baciò di nuovo e se ne andò.

    Rimasi lì immobile a guardare zio Bob attraverso la finestra della cucina mentre spariva lungo il sentiero e dalla mia vista, salutandomi con la mano senza girarsi. Pensai non mi avesse sentito bene, mentre ripetevo le sue parole nella mia testa. Dato che non c’era segno della zia, percorsi il corridoio fino all’ingresso e poi girai per prendere le strette scale. In cima mi voltai a destra e mi diressi alla camera di Annie.

    Annie? Sei lì? La porta si aprì lentamente al mio accenno di bussare. Rimasi alla porta, realizzando solo dopo qualche secondo che la mia bocca si era spalancata. Annie non c’era, ma non c’era nemmeno la sua camera. Il posto che era stato di Annie, dove avevamo passato tante ore crescendo, scherzando e sognando, era sparito.

    I muri erano spogliati dalle poche foto di Annie. Nessuno dei suoi oggetti personali era lì. Nessun vestito gettato in giro, né libri sul comodino. Nessuna spazzola sul comò o teneri orsacchiotti sulla sedia. Nessun blocchetto con frammenti di carta sporgenti o montagne di matite e penne. I mobili c’erano... ma poi niente. Attraversai la stanza verso la cassettiera per trovarla piena di federe e lenzuola. Poi il guardaroba; un vecchio cappotto della zia, il vestito che zio Bob metteva sia per matrimoni che per funerali. Mi sentivo male e, senza pensarci, mi coprii la bocca con la mano.

    Sentii dei passi dietro di me. Una voce.

    Ciao, Eva. Mi stavi cercando?

    Mi girai quando sentii la mano di mia zia sul braccio.

    Ehm, no, veramente stavo cercando Annie. Dovevamo vederci in biblioteca. La faccia della zia mi disse che zio Bob mi aveva capito e non fui l’unica a preoccuparmi - mi guardò, pensando fossi io quella confusa.

    Poi le sue parole lo confermarono.

    Stai bene? Vieni a sederti cara. Sembrò preoccupata per me, ma non provai nessuna vampata di affetto o rassicurazione per la sua preoccupazione. Provai soltanto rabbia. Un’emozione che realizzai, soltanto in quel momento, di non aver mai provato nella sua completa forza. Fino a quel momento, avevo dipinto la parola rabbia come qualcosa che poteva essere invece irritazione, frustrazione o noia. Questa era la prima volta che avevo un vero motivo per essere arrabbiata e il sentimento era duro e spiacevole, si era annidato nel profondo del mio stomaco, dopo aver graffiato la gola nella discesa. Questa nuova emozione, fino ad allora sconosciuta, mi fece sentire la testa pesante e ogni muscolo in tensione. Lottai per parlare attraverso questo nuovo intenso sentimento e la gola secca.

    L’ultima cosa che voglio è sedermi, zia Kathleen. Il tono aspro della mia voce mi sorprese mentre lasciava le mie labbra perché non avevo mai alzato la voce con lei in vita mia. Dov’è Annie? Dove sono tutte le sue cose? Che succede? Le domande mi sfuggirono di bocca, piombando su entrambe senza darle il tempo per rispondere tra una e l’altra. Quindi mi fermai a guardarla. E aspettai. I suoi occhi perplessi mi guardarono per un attimo, come a pensare cosa dire e fare.

    Cara, per favore siediti. Ti senti male? Alzò la mano per toccarmi la fronte e mi scostai. C’era un rumore da basso. Mia zia girò appena la testa per parlare sopra la sua spalla, continuando a guardarmi. Bob? Sei tu? Eva non sta bene. Puoi venire? La sua espressione e il modo in cui la sua voce uscì mentre mi bloccava il passaggio, mi ricordò il giorno in cui un uccellino era entrato in soggiorno scendendo dal camino. Lo aveva messo all’angolo, impedendogli di scappare, mentre chiamava zio Bob per farsi aiutare. Forse avrebbe catturato anche me in una federa per liberarmi fuori.

    Si voltò nuovamente verso di me Forza amore – stai con noi per qualche giorno così possiamo prenderci cura di te. Hai la febbre? Stai delirando. Una mano si allungò di nuovo verso la mia fronte mentre l’altra mi tratteneva dal gomito come se si aspettasse il collasso. Scostai il braccio.

    Davvero, sto bene. Siete voi due malati, non io. Dov’è tua figlia? Le parole furono sputate, più che dette.

    Eva, stai straparlando, tesoro. La sua voce era bassa e dolce. Viviamo da soli. Dopo che ti sei trasferita a Fielding siamo solo noi. Non ci sono figli, dolcezza, lo sai. Sospirò e si adagiò sulla vecchia sedia di vimini che aspettava pazientemente in un angolo, sempre lì ma usata raramente.

    Zio Bob era salito e stava lì, come congelato. Un’immagine mi attraversò la mente: un libro della Bella Addormentata che avevo avuto. Tutti gli occupanti del castello erano congelati nel momento preciso in cui la principessa si era punta il dito, a metà di ciò che stavano facendo; una domestica puliva, un cuoco mescolava qualcosa sul fornello, una guardia fuori dai cancelli, un ragazzino giocava con un cane nel cortile. Zio Bob li aveva raggiunti, immobile come una statua. Aveva ancora lo spago in mano; se non fosse stato per la scena che stava avvenendo, sarebbe stato divertente. Sembrava fosse stato pronto, corda in mano, per salire le scale. Ora la corda sembrava quasi una minaccia, come se si fosse avvicinato per legare la donna pazza in cima alle sue scale.

    Guardandomi, zia Kath disse Chiama il medico, Bob a voce alta, forse pensando che zio Bob fosse più lontano di quanto veramente era.

    Non... mi... serve... un... dottore dissi lentamente, scandendo le parole. La zia si alzò e mi mise un braccio attorno alle spalle. Mi scansai per la terza volta, la superai e mi affrettai giù dalle scale urtando il braccio di zio Bob mentre passavo. È ridicolo. Lanciai le parole dietro di me come veleno. Torno alla biblioteca. Ormai deve essere lì. Poi Annie potrà dirmi cos’è questa ridicola farsa.

    Mi fermai ai piedi delle scale, mi girai e vidi lo spago che avevo fatto cadere dalle mani di zio Bob che era rimbalzato lungo le scale, come per scappare. Ora era srotolato ai miei piedi. Guardai in alto mentre la zia raggiungeva lo zio, il suo braccio la avvolse protettivo. La rabbia stava svanendo e diventando una paura fragile e tremante.

    Non so cosa stiate facendo, ma deve smettere. Mi fermai per fronteggiarli. Avete discusso con Annie? Poi chiesi più gentilmente Cosa può essere così brutto da farvela disconoscere? Sospirai e scossi la testa, l’esasperazione si unì a paura e confusione creando uno strano cocktail di cui non mi piaceva il sapore.

    Non era dai miei zii dire brutte parole o mostrare altro che compassione per chiunque, quindi non riuscivo a immaginare cosa avesse potuto portare a quella terribile frattura nella loro famiglia. La loro era un’unione famigliare così solida, che niente l’aveva mai fatta nemmeno vacillare, figurarsi cadere completamente a pezzi. Ora mi guardavano come fossi pazza e avessi immaginato l’esistenza della mia più cara amica, la loro unica figlia.

    La testa di mia zia era abbassata e non potevo vedere il suo volto, mentre mio zio mi guardava con intenzione e, quando parlò, fu lentamente e soppesando le parole, come se le stesse scrivendo o leggendo prima tra sé. Potevo sentire la tristezza nella sua voce e avrei voluto forzarmi fuori da quell’orribile sogno e aprire i miei occhi perplessi alla luce del giorno e alla sicurezza.

    "E io non so cosa ti succede, cara, ma qualsiasi cosa sia chiaramente non vuoi il nostro aiuto. Puoi vedere tu stessa che la zia è scossa quindi penso dovresti andare via. Mi ferisce dirlo, amore, ma finché non saprai spiegarti... o accettare il nostro aiuto... la zia lo guardò e appoggiò la sua mano sul suo braccio, come per fermarlo, ma lui le diede una piccola pacca sulla spalla senza guardarla e continuò ... non dovresti tornare." Ci guardammo per vari secondi, un’eternità, prima che mi girassi e me ne andassi.

    Mentre mi affrettavo fuori attraverso il vialetto, con il volto arrossato dalla rabbia, speravo che Annie mi spiegasse tutto e poi potessimo iniziare a sistemare qualsiasi cosa si fosse rotto. Così tanti pensieri mi attraversarono la mente, ma nessuno di questi era così brutto da spiegare la reazione dei genitori di Annie. Loro erano premurosi e solidali, tranquilli e pratici. Qualsiasi ostacolo incontrassero, di qualsiasi grandezza, veniva superato tutti insieme, con ottimismo e fiducia.

    Gradualmente i miei passi rabbiosi rallentarono fino ad un’andatura normale, verso la biblioteca. Potevo sentire il vento freddo sulla pelle umida del viso. Ora riuscivo a comprendere la frase sudori freddi, dato che il mio viso era freddo e umido, e rabbrividivo come se delle dita ghiacciate mi percorressero la schiena. Stavo pensando, o cercando di pensare. Ma nonostante quanto intensamente provassi, era impossibile dare un senso a qualcosa che non poteva averne.

    Continuai a cercare tra la gente che mi circondava, sicura che Annie balzasse fuori da un momento all’altro facendomi spaventare e ridendo a mie spese. Non l’avevo vista tornando alla biblioteca e diedi per scontato che fosse dentro a chiedersi dove fossi. Entrai nel vecchio edificio familiare e sicuro, con l’odore rassicurante di carta e libri a darmi il benvenuto. Tra gli scaffali trovai i miei libri, abbandonati ancora sulla stessa sedia, che aspettavano di essere reclamati o rimessi a posto, delusi, sui loro scaffali. Li presi e mi misi sulla sedia, poggiandomeli in grembo.

    Rimasi seduta, ferma, per così tanto che la schiena iniziò a farmi male. Alla fine mi stiracchiai e guardai l’orologio – erano passate tre ore da quando avremmo dovuto incontrarci.

    Riflessione

    Abbandonai i libri per una seconda volta quel giorno e, lasciando l’atmosfera soffusa della biblioteca, mi abbagliò il sole del tardo pomeriggio. Non sapendo cosa fare rimasi ferma, guardai le persone continuare le loro vite lungo la strada, visitare negozi, andare alla posta, forse tornare a casa e fermarsi intanto a parlare con gli amici. La mia vita, invece, era stata bloccata.

    I miei piedi iniziarono a condurmi senza meta lungo la strada; senza nessuna direzione in particolare, ma comunque avanzando. Le lacrime lasciarono i miei occhi senza avvisarmi, i miei passi accelerarono in reazione e distolsi lo sguardo da tutti

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