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Giada Rossa: Una vita per la libertà
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Giada Rossa: Una vita per la libertà
E-book254 pagine4 ore

Giada Rossa: Una vita per la libertà

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Info su questo ebook

Ogni donna è preziosa come una giada, proprio come la protagonista di questa storia che, raccontando in prima persona, ripercorre tutte le fasi della sua vita travagliata: un'infanzia negata nelle campagne del Jiangxi, un'adolescenza segnata dalla violenza, il drammatico viaggio dalla Cina verso l'Europa, le difficoltà incontrate in Italia da clandestina. Nonostante le avversità, ha sempre dimostrato un coraggio e una forza d'animo ammirevoli, si è ribellata alle ingiustizie, agli inganni e alle prevaricazioni, perseguendo il valore più importante: la libertà. La sua testimonianza vuole essere uno stimolo per tutte le donne che si trovano in situazioni simili e che si arrendono al loro destino.
LinguaItaliano
Data di uscita10 apr 2020
ISBN9788894476231
Giada Rossa: Una vita per la libertà

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    Anteprima del libro

    Giada Rossa - Fiori Picco

    diciassettesimo

    NOTA DELL’AUTRICE

    Questa è una storia vera raccontata in prima persona dalla protagonista. Ho dato nomi fittizi ai personaggi e ho scelto luoghi e ambientazioni in modo casuale per tutelare Giada Rossa che, con estrema fiducia, ha messo nelle mie mani la sua vita affinché tutti la conoscessero.

    Prologo

    Avevo sei anni quando mi rapirono. Per sottrarmi alla mia famiglia scelsero il modo più subdolo e meschino; il piano fu architettato da due conoscenti di mia madre: persone intime, fidate, insospettabili. Fu il primo episodio doloroso di una serie di avvenimenti drammatici che mi segnarono profondamente nell’anima. I lividi che ancora oggi mi porto dentro e le cicatrici visibili mi hanno consentito di diventare la Giada Rossa del presente: una donna tenace e coraggiosa che ha visto più volte la morte e che altrettante volte si è disperatamente aggrappata alla vita. Non posso e non voglio cancellare le ferite, sarebbe assurdo perché sono parte essenziale di me.

    Se ora ripenso alle mie vicissitudini, come in un film vedo scorrere varie scene; la protagonista ha interpretato molti ruoli dall’infanzia alla mezza età, è stata umiliata e presa a schiaffi, ha spesso toccato il fondo cadendo e facendosi male, e con grande forza d’animo si è rialzata proseguendo il cammino. A volte mi sorprendo nel constatare di aver vissuto così intensamente; i momenti di tregua e di serenità sono stati davvero pochi.

    L’episodio del mio rapimento mi venne quasi preannunciato, ebbi un brutto presentimento un paio di mesi prima che accadesse. All’epoca ero solo una bambina ma avevo già delle strane premonizioni.

    Prima che quei due delinquenti mi portassero in un luogo lontano e sconosciuto, mi ero presa cura di una rondine che avevo trovato ferita nell’ erba lungo il fiume nei pressi del villaggio; zampettava sola e sofferente trascinando l’ala sporca e floscia simile allo strofinaccio che usava mia mamma per togliere l’unto e la brace dalla stufa. In realtà il suo piumaggio era magnifico: di un blu metallizzato ricordava un lungo mantello regale o una striscia di seta damascata. La testa e il petto erano di un arancio sgargiante, il becco giallo grazioso e arcuato. Con delicatezza l’avevo portata nel solaio di legno della nostra casa con i muri di fango e il tetto ricurvo come quello di una pagoda. Ero rimasta sorpresa nel vedere come la rondine, che solitamente si librava in cielo e dominava il paesaggio appollaiata sulle cime più alte degli alberi, si fosse lasciata avvicinare senza alcun timore accettando il mio aiuto.

    Quella creatura mi trasmise una sensazione di fiducia e di speranza, anche se all’epoca ero piccola e non avevo progetti per l’avvenire. Era come se all’improvviso fossi diventata la protagonista di una fiaba tradizionale, come se una presenza soprannaturale mi avesse condotta a quell’uccello per indicarmi che, quando si fosse completamente ristabilito, anch’io un giorno sarei volata via verso nuovi orizzonti rincorrendo un sogno importante. Per una settimana, di nascosto dai miei fratelli, badai a lei con amore e dedizione. All’epoca noi bambini non avevamo molti giocattoli o per meglio dire li realizzavamo da soli lasciando spazio alla creatività e alla fantasia con gli elementi che trovavamo vicino al fosso: rami, sassi, foglie secche, fiori appassiti, cortecce o scarti di materiali recuperati sul ciglio della strada, per esempio vecchi copertoni, bottiglie in plastica, tappi lisci e lucenti, bottoni rotti e fili di gomitoli.

    Per sfamarla mi procurai vari tipi di insetti: le mosche morte che si depositavano sui mobili insieme alla polvere, grilli secchi rimasti incastrati agli steli delle bocche di leone che crescevano selvatiche lungo la cisterna del villaggio, vermi lunghi e carnosi che sbucavano dal terreno dopo i temporali di stagione. Con acqua e sapone le tamponai e disinfettai la ferita, con un pezzo di cerata spessa e resistente le realizzai un comodo letto che a dire il vero aveva più la forma di una barchetta.

    La immaginai mentre prendeva il largo e con spirito avventuroso attraversava mari e oceani raggiungendo lidi remoti; divenne un’amica segreta, l’animale domestico che non avevo mai avuto… Fino a quando feci un incubo, il primo della mia serie di sogni rivelatori: il villaggio era stato colpito da una bufera di neve, le finestre della nostra casa erano spalancate e da fuori entrava un’ondata violenta di gelo; il pavimento era ricoperto di un sottile strato di brina, e della rondine rimaneva una manciata di piume somiglianti a tanti petali sgualciti di una rara rosa blu.

    La mattina seguente trovai il solaio vuoto, se ne era andata e il sogno era stato il preavviso. Nel sottotetto c’era un gran disordine, l’atmosfera era lugubre e inquietante. Prevalse in me un forte senso di delusione e subito quella rondine che mi era parsa un uccello fatato, una soffice e splendida palla di piume cangianti, rappresentò un sogno infranto. In quel momento cambiai, compresi il concetto di tradimento e di precarietà nei rapporti. Capii che esiste sempre l’altro lato della medaglia, un aspetto nascosto e ambiguo che si cela in ogni cosa, vicenda o persona a noi prossima. Realizzai che a essere troppo ottimisti si prendono dure bastonate e che è meglio osservare il mondo con cautela senza fidarsi ciecamente degli altri né aspettarsi troppo dalla vita. Dopo quell’episodio imparai a non piangere per nessun motivo; avevo sei anni ma sapevo già affrontare il dolore con dignità…

    Capitolo primo

    Al villaggio ci si dava tutti una mano con quel sano spirito collettivista che caratterizzava il nostro Paese da decenni. Anche nel periodo dell’apertura e delle quattro modernizzazioni di Deng quello spirito continuò a sopravvivere tra le piccole comunità rurali e tra la gente più umile. Il nostro distretto viveva principalmente di agricoltura, ma nel centro della contea sorgevano imponenti fabbriche e pochi metri più in là incominciavano a spuntare le prime imprese private e società di commercio con l’estero. Il mercato si stava schiudendo e pian piano espandendo, gli animi erano colmi di ambizione, la gente era desiderosa di ricostruire una nuova Cina.

    Nei dintorni della città di Jinhua le campagne erano quanto di più esemplare si potesse immaginare e realizzare per la presenza di molteplici colture e per lo sfruttamento della terra in ogni suo centimetro. Era sezionata in tanti appezzamenti o tessere di puzzle colorate che si incastravano alla perfezione e sembrava un tessuto. Gli sforzi dei bufali che trainavano aratri ispiravano molta tenerezza, così come le giovani e flessuose mondine che si piegavano come canne di bambù, con i calzoni ribaltati fino alle ginocchia, le gambe immerse in acqua e i bambini appesi dietro alle spalle, avvolti in sacche marroni di iuta o in pezze ricavate da vecchi lenzuoli stracciati.

    Le persone vivevano in comunità dislocate nelle aree rurali e nei sobborghi della periferia urbana; in città migliaia di strade, vicoli e viuzze si intersecavano e aggrovigliavano ospitando palazzi di otto piani di cemento grigio o beige, spenti, austeri e massicci. La gente viveva in appartamenti di quaranta o cinquanta metri quadrati, ogni casa aveva un balconcino chiuso a veranda che sporgeva dall’edificio e che fungeva da cucina angusta e talvolta anche da stanza da bagno, infatti, nella maggior parte dei casi, i servizi igienici erano in comune e di solito collocati al pianterreno o in fondo al corridoio di ogni piano, mentre in alcune case una turca e un lavabo si trovavano in un angolo del balcone, separati dal cucinino per mezzo di un paravento. Una casa di questo tipo a quei tempi era molto confortevole.

    Scendendo in strada c’erano negozietti, drogherie, bazar, barbieri, cavadenti, botteghe , locande e ristorantini alla buona. Si vedevano i gestori dei locali cucinare con fornelletti a gas, la gente mangiava accovacciata sui bordi dei marciapiedi, stando in piedi o seduta su seggioline di vimini o di paglia, tenendo in mano grandi ciotole di brodo, risucchiando velocemente gli spaghetti di grano tenero e i ravioli a mezza luna succulenti e dal sapore intenso di carne e cipolline. Vecchi e bambini trascorrevano il loro tempo nelle viuzze e la strada diventava il grande palcoscenico delle loro vite.

    Nelle ore di punta un pitone interminabile di biciclette invadeva la città e il suono ripetuto dei campanelli era musica per le orecchie in un traffico soffocante. C’era totale assenza di auto private, circolavano solo biciclette, autobus, filobus, carretti, camion e vetture militari. Gli altoparlanti diffondevano melodie patriottiche e scandivano il tempo della ginnastica; la giornata si apriva quando lavoratori e studenti si radunavano per gli esercizi fisici nei cortili delle fabbriche e delle scuole. La salute era la condizione di base per lottare con grinta e determinazione cercando di crescere e di emergere nella società, per questo si vedeva gente che faceva stretching nei parchi stendendo le gambe sui parapetti dei ponti o che praticava arti marziali munita di spade e con espressione seria e concentrata.

    La gente in quegli anni lavorava per costruirsi un futuro, il popolo non era benestante e il suo stile di vita era spartano ed essenziale. C’era ancora molta parità anche se spuntavano le prime figure di piccoli imprenditori. Chi non apriva una sua ditta individuale comunque aveva il lavoro garantito, infatti lo Stato non lasciava disoccupato nessuno. C’era povertà ma molta dignità, non si incontravano accattoni o balordi ed ecco perché sui volti delle persone non si intravedeva mai un segno di dolore o di sconforto. Tutti avevano visi sereni e fiduciosi, un aspetto composto e fiero e ovunque si respirava aria di gioia e di entusiasmo.

    In principio mio padre era un operaio della fabbrica di prosciutti, un addetto al reparto di affumicamento; in seguito aveva aperto una modesta attività produttiva. Venendo da un settore specifico ed essendo un esperto di allevamenti di carni suine, affumicava cosce di maiali che poi vendeva in uno spaccio insieme a salumi e ad altri alimenti conservati con l’ esposizione al fumo, come oche e anatre laccate e prodotti derivati quali wurstel e le gustose uova dei cent’anni. L’attività gli fruttava abbastanza consentendogli di mantenerci e di farci condurre una vita decorosa.

    I miei fratelli mi raccontarono di nostro padre che ogni sera al tramonto rincasava sulla sua vecchia bicicletta sgangherata; come varcava la soglia, di primo impatto si sentiva l’odore inconfondibile del prosciutto stagionato che aleggiava intorno alla sua persona e che gli impregnava i vestiti. Portava una divisa da operaio di cotone blu, in testa un cappellino con la visiera; due manicotti neri e gonfi gli scaldavano le braccia infreddolite e guanti di lana di pecora gli coprivano le mani screpolate, nodose e piene di calli. Con l’acquolina in bocca i miei fratelli immaginavano una tavola imbandita con i deliziosi piatti della nostra tradizione, che di solito consumavano la domenica o nei giorni di festa.

    Il vago ricordo che avevo di mio padre risaliva al periodo della mia prima infanzia; avevo solo tre anni poco prima che lui venisse ingiustamente arrestato, per questo seppi di quei dettagli dai miei fratelli, e fu molti anni dopo quando, per miracolo o casualità della sorte, ci ricongiungemmo dai miei genitori a Jinhua.

    Nel laboratorio per l’essiccatura i bei cosciotti dalla pelle ambrata e dal cuore rosso cupo pendevano dal soffitto come tanti violini in una bottega di strumenti musicali. Una volta tagliati diventavano cubetti spessi e saporiti con uno strato superiore di lardo e dal sapore piuttosto forte e salato, oppure venivano addirittura affettati e le sottili lamelle erano messe sotto vuoto per poi essere confezionate in scatole eleganti e dai decori raffinati. Ricordo la prima volta che ne vidi una: era bicolore, mezza beige e mezza bordeaux, con filettature in oro e con stampati in rilievo foglie di bambù e ideogrammi classici che componevano un poema. Involucri preziosi racchiudevano un prodotto buono, genuino e richiesto.

    Le fettine venate di rosa intenso, disposte con grazia su di un piatto grande e rotondo, formavano la coda e le ali di un superbo falco realizzato con diversi ortaggi del luogo e con frattaglie. Striscioline di rapa bianca ne componevano la testa e il collo, il becco era una scaglietta di carota, il corpo tanti pezzettini di pollo, le zampe due asparagi e l’occhio un fungo con una ciliegina al centro. Era il piatto freddo cinese, un antipasto di lusso che potevamo permetterci di assaporare solo una volta al mese.

    In casa si sentiva costantemente la presenza di nostro padre, anche quando si assentava per ore perché doveva gestire il negozio. Era un uomo alto e ossuto, un tipo fanciullesco che amava ridere in ogni momento della giornata. Con i figli scherzava perfino su come lavorava le carni.

    Immergeva i cosciotti nella salamoia per una settimana circa, in quel modo il liquido composto da sale, spezie e zucchero di canna penetrava nel prosciutto bloccandone la proliferazione batterica e conferendogli il bel colore rosa. I miei fratelli scendevano nel seminterrato freddo e buio e lo osservavano incuriositi mentre con siringhe molto grosse praticava iniezioni di salamoia alla carne suina.

    Quando gli chiedevano: «Papà, perché fai le punture al maiale?» lui rispondeva: «perché si è preso la bronchite.»

    «E perché gli infili più volte l’ago nella chiappa?»

    «Perché fa il discolo e continua a muoversi,» e di proposito faceva oscillare il cosciotto pasciuto che pendeva da un gancio attaccato al soffitto «se stesse fermo basterebbe una sola iniezione. Cercate di imparare la lezione, soprattutto tu, Yunlong: la prossima volta, quando andrai dal dottore, dovrai fare il bravo mentre ti inserirà l’ago nella vena!» A quel punto loro restavano a bocca aperta, senza parole e con il muco che gli colava dal naso.

    Ogni volta che papà portava Yunlong all’ambulatorio per una fleboclisi, mio fratello mezzano era in preda alla disperazione, sembrava lo dovessero torturare! Per riuscire a inserirgli la farfallina nella vena erano costretti a immobilizzarlo in quattro : il medico gli bloccava il braccio, due infermiere gli tenevano fermo l’altro e le gambe, e nostro padre piegato in avanti gli copriva il viso con il busto per impedirgli di guardare. Yunlong urlava a più non posso, la faccina rossa e contratta sembrava un pomodoro cotto e grinzoso; si dimenava isterico, opponeva resistenza come un fringuello in gabbia e, dopo l’inserimento dell’ago, le grida, i pianti e i lamenti gradualmente si trasformavano in gorgheggi e poi in un commovente e soffocato cinguettio.

    Le flebo erano un’ottima cura per un semplice raffreddore o una laringite cronica, sempre se insieme si assumeva un pugno di granellini marroni da sciogliere in acqua bollente: un decotto disinfiammante delle prime vie respiratorie. I granelli erano racchiusi in bustine lucide e bellissime, verdi e dalla forma quadrata, molto somiglianti a quelle del tè Longjing. All’inizio la tisana aveva un sapore amarognolo che dopo qualche minuto lasciava nel palato un retrogusto dolciastro. Nostro padre, inventando storie sui prosciutti, cercava di educare i miei fratelli alla calma, al sacrificio e alla sopportazione.

    Tra me e Yunlong c’erano solo due anni di differenza, mentre Zhiguo, il maggiore, era più grande di me di sei anni. Fisicamente ci assomigliavamo molto, anzi direi proprio che sembravamo tutti usciti dallo stesso stampo. Eravamo perfino pettinati allo stesso modo, con la frangetta corta e il caschetto di capelli neri e lucenti. Caratterialmente però tra noi c’erano delle diversità: io ero una bimba buona, accondiscendente e pacifica; Yunlong era capriccioso e irrequieto, mentre Zhiguo aveva un’indole introversa e taciturna. Era dovuto maturare in fretta per occuparsi di noi e, in un certo senso, sostituire la figura di mamma.

    Mia madre non si era mai voluta adagiare, nemmeno quando il marito aveva avviato l’attività commerciale. Faceva la manovale in un cantiere, svolgeva un mestiere tipicamente maschile che richiedeva forza fisica e resistenza e che soprattutto metteva a rischio la salute per via delle polveri sottili che respirava quotidianamente e che si infiltravano nella gola e nel naso scendendo fino ai polmoni. Dalla cava di pietre in cima alla montagna ogni giorno con un furgone trasportava pesanti blocchi di marmo che si staccavano dalle pareti rocciose con particolari seghe e macchine tagliatrici. Una volta trasportati al cantiere venivano trasformati in lastre lisce e levigate che servivano nell’edilizia per rivestire superfici e realizzare pavimenti o pareti.

    Mio padre più volte l’aveva pregata di licenziarsi e di rimanere a casa a badare ai figli e alle faccende domestiche, ma lei caparbia voleva contribuire all’economia famigliare. Diceva sempre: Se la donna moderna in base alle ideologie maoiste è diventata l’altra metà del cielo conquistando la parità, deve rimboccarsi le maniche e dimostrare di essere parte attiva e produttiva della società!

    Per questo motivo noi bambini venivamo spesso lasciati a noi stessi o affidati a Qiuhua, una ragazzina poco più grande di noi che arrivava da un villaggio vicino molto più povero del nostro. Lavava le giacche sporche di mio padre, stendeva il bucato al sole, spazzava l’aia, sbatteva piumini e coperte con una ramazza di vimini e in cambio chiedeva solo una scodella di ravioli in brodo e qualche spicciolo da portare alla madre malata. Era acerba, silenziosa e timida. I suoi occhi piccoli come due semini neri erano spenti, la sua espressione perennemente rassegnata. Con i primi freddi indossava un largo pastrano di tela militare, probabilmente smesso dal padre qualche anno prima e poi accorciato in modo approssimativo, con il collo e i polsi in finta pelliccia marrone; in estate delle camicette sgualcite ne segnavano le forme lievi e infantili.

    Se la madre epilettica all’improvviso aveva una crisi, Qiuhua rimaneva al villaggio e non la vedevamo spuntare dalla stradina stretta e tortuosa che scendeva giù dal monte. In quel caso dovevamo arrangiarci come meglio potevamo e Zhiguo, quando andava a scuola, non faceva come gli altri bambini che avevano con sé una scatola rettangolare di latta infilata in un sacchetto di rete. In mensa quella scatola veniva riempita di panini al vapore, riso e verdure saltate. Lui non portava niente, solo la cartella. Quando scoccavano le dodici, come un bravo soldato che eseguiva gli ordini, correva al mercato a fare la spesa e subito dopo rincasava per cucinarci il pranzo.

    Era così responsabile e ligio al dovere! Preparava il brodo degli spaghetti aggiungendo all’acqua un cucchiaio di salsa di soia e dei cipollotti tagliati fini e poi riduceva le patate crude a una montagna di striscioline sottili che friggeva a fuoco altissimo nel wok di ferro. L’enorme mannaia batteva ritmica sul tagliere ed era una forte minaccia per le sue dita pallide e sottili che si confondevano con le fettucce ricavate dai tuberi. Spesso si ustionava le mani e gli schizzi d’olio bollente dalla padella gli saltavano negli occhi facendolo lacrimare. Stando attento a non rovesciare il liquido in eccesso appoggiava sul tavolo le scodelle colme di brodo, ci allungava le bacchette di legno e ci diceva di mangiare.

    Afferravo il mio sgabellino e trascinandolo mi sedevo vicino agli altri. In testa portavo una cuffietta lavorata all’uncinetto, indosso una giacchetta di cotone a fiorellini e sopra legato un grembiulino con coniglietti rosa e gialli ricamati. Piluccavo a bocconcini le pietanze, ma preferivo succhiare dal biberon il latte tiepido e quasi insapore che mi rassicurava e saziava. Il mio viso era tondo come la luna piena, la pelle del colore delle caramelle Mou.

    Neanche adesso ho cambiato fisionomia; il mio ovale da gatta, che vagamente ricorda anche quello di un personaggio dei manga, è rimasto tale e quale. I capelli sono sempre corti e setosi, ma adesso hanno un taglio trandy e sono scuri come ebano per la tinta che non posso più evitare di applicare perché di recente mi sono spuntate delle meches naturali di un deprimente sale e pepe. Un tempo la mia carnagione era un tasto dolente, un complesso che non riuscivo a superare. Appena arrivata in Italia mi chiedevo se esistesse in commercio una crema dall’effetto sbiancante; non sapevo esprimermi bene nella lingua locale e soprattutto non sapevo leggere le etichette sui prodotti perciò, quando mi trovavo in un negozio, facevo fatica a distinguere la merce esposta sugli scaffali. In Cina, per esempio, dalle perle del fiume di Guilin, ricavavano una lozione favolosa in grado di far diventare diafana ed eterea perfino la pelle arsa e affumicata dal sole di una contadina. Qualcuno mi aveva suggerito di usare un fondotinta Terra di Siena che poteva risaltare e valorizzare il mio incarnato, io continuavo la mia ricerca impossibile per

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