Racconti sardi
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Storie di superstizione, di magia, di luoghi segreti e primitivi, percorsi da personaggi ruvidi, talvolta surreali e mai scontati, si rincorrono in una raccolta capace di rapire la fantasia del pubblico contemporaneo portandolo in un’altra dimensione, quella in cui la natura non si riduce a mera scenografia di sottofondo ma, vera e propria protagonista, diventa il varco per immergersi nel mistero. La Deledda pubblica questa raccolta nel 1894, quando non è ancora una scrittrice celebre, osannata e invidiata in patria e all’estero, ma è solo una caparbia e sconosciuta ragazza sarda desiderosa di affermare non solo se stessa, ma anche, anzi soprattutto, la propria terra. Nello stile dei Racconti sardi si percepisce, infatti, il viscerale attaccamento della Deledda alla Sardegna, tanto tenace e potente da instillare anche nelle vene dei lettori non barbaricini qualche goccia di sangue nuorese. Mutazioni ematiche sempre benvenute per chi legge per arricchire e in un certo modo trasfigurare il proprio DNA intellettuale. Esiste qualcosa di più noioso che restare sempre identici?
Grazia Deledda (Nuoro, 1871 – Roma, 1936), nota ai più per essere stata l’unica italiana a vincere il premio Nobel per la letteratura (1926), consacrò la propria esistenza alla scrittura e alla famiglia. Dopo un’infanzia e un’adolescenza intensamente spese nelle terre selvagge della Sardegna centro-orientale – dove, nonostante le numerose tragedie famigliari che la colpirono e il peso dei velenosi pregiudizi maschilisti sulle sue velleità artistiche, iniziò precocemente a comporre racconti, brevi saggi e articoli – si traferì con il marito Palmiro Madesani, poi divenuto suo agente, a Roma, città in cui scrisse i suoi romanzi di maggior successo, pressoché tutti ambientati nell’isola sarda: Elias Portolu (1903); Cenere (1904); L’edera (1908); Canne al vento (1913); La madre (1920). Nonostante la sua indole schiva, che la portò a condurre sempre un ménage ritirato e lontano dalla mondanità salottiera della capitale, riuscì a imporsi nel panorama letterario italiano e straniero per la straordinaria forza e originalità delle sue opere.
Grazia Deledda
Grazia Deledda (Nuoro, Cerdeña, 1871 - Roma, 1936). Novelista italiana perteneciente al movimiento naturalista. Después de haber realizado sus estudios de educación primaria, recibió clases particulares de un profesor huésped de un familiar suyo, ya que las costumbres de la época no permitían que las jóvenes recibieran una instrucción que fuera más allá de la escuela primaria. Posteriormente, profundizó como autodidacta sus estudios literarios. Desde su matrimonio, vivió en Roma. Escritora prolífica, produjo muchas novelas y narraciones cortas que evocan la dureza de la vida y los conflictos emocionales de los habitantes de su isla natal. La narrativa de Grazia Deledda se basa en vivencias poderosas de amor, de dolor y de muerte sobre las que planea el sentido del pecado, de la culpa, y la conciencia de una inevitable fatalidad. Sus principales obras son Elías Portolu, La madre y Cósima. En 1926 recibió el Premio Nobel de Literatura.
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Anteprima del libro
Racconti sardi - Grazia Deledda
opere.
Introduzione
Milena Contini
Dimenticate la Sardegna da rivista patinata, quella in cui i vip scappano da paparazzi e italiani medi a caccia di selfie da condividere sui social, quella delle discoteche intrise di cocktail annacquati e ascelle sudate e anche quella dei resort snob nelle baie più esclusive, perché negli otto racconti che compongono questa raccolta troverete la terra sarda nella sua veste arcaica, sanguigna, magica e, a tratti, maledettamente inquietante. A scriverli un’autrice spesso citata, perché unica vincitrice italiana del Nobel per la letteratura, ma poco letta: Grazia Deledda (Nuoro, 1871 – Roma, 1936). Narratrice legatissima alla propria terra (a Stoccolma nel settembre del 1927, durante la cerimonia di premiazione, inizierà il proprio discorso con Sono nata in Sardegna
), nel 1894 decide di dedicare una raccolta di racconti alla Sardegna, dove ancora abita, prima di spiccare il volo col marito verso il continente e la gloria letteraria.
Nei racconti si percepisce una penna a tratti ancora acerba e bisognosa di allenamento (si ricordi che Grazia, com’era uso ai tempi, frequentò la scuola solo fino alla quarta classe
), ma proprio questa caratteristica, lungi dall’essere un difetto, è uno degli elementi più interessanti della raccolta, perché la mancanza di professionismo conferisce allo stile un sapore intrigante e originale nel quale si riesce a cogliere la promessa della potente impronta linguistica della Deledda più matura (così, ad esempio, è descritto il pastore Jorgj: la dolce linea della sua bellissima bocca, dalle labbra sottili e i denti di smalto, non leniva la durezza dei suoi occhi neri, annuvolati e quasi tetri
). Non si dimentichi che per Grazia, abituata a parlare il logudorese a casa, l’italiano fu a tutti gli effetti una seconda lingua, imparata un po’ sui banchi e in misura maggiore dalla lettura dei grandi autori; mentre di applicarsi sui tediosi manuali di grammatica proprio non ne voleva sapere. La Deledda, inoltre, per sua stessa ammissione, non fu certo una divoratrice di libri (Leggo relativamente poco, ma cose buone
): viene così a cadere uno dei topos più radicati nell’immaginario collettivo, quello dello scrittore come onnivoro e sfrenato consumatore di letteratura. Non tutti somigliano infatti al matto e disperatissimo Leopardi, fagocitato dalla sconfinata biblioteca del padre Monaldo, o a Bukowski che era diventato un homeless per avere il tempo di stare tutto il giorno in biblioteca a leggere (e tutta la sera al bar a bere, ma questa è un’altra storia). La Deledda semplicemente si scocciava ad accumulare volumi sullo scrittoio e ammetteva senza vergogna che pietre miliari della letteratura italiana come Boccaccio, Tasso e Manzoni la facevano sbadigliare e dormire
… se non arrossiva lei a confessare un tale delitto di lesa maestà, figuriamoci se dobbiamo scandalizzarci noi! Anzi possiamo considerare tale riluttanza verso la cultura libraria come la cifra della sua poetica, più rivolta al vissuto autobiografico, al territorio sentito visceralmente e a una tradizione orale di sapore quasi tribale che alla letteratura, diciamo così, canonica: Da alcuni [vecchi pastori e contadini sardi] ho appreso verità e cognizioni che nessun libro mi ha rivelato più limpide e consolanti
.
Stando a quanto testimoniano amici e parenti, la Deledda non era nemmeno una stacanovista della penna: dedicava alla scrittura qualche ora nel pomeriggio (ben lontana dalla grafomania di certi colleghi vicini e lontani… si pensi, per fare un nome tra tanti, a Scerbanenco, che picchiava sulla macchina per scrivere sedici ore al giorno!), mentre la mattina e la sera erano consacrate alla cura della famiglia. Pur avendo la domestica, si recava personalmente a fare la spesa e cucinava con le proprie mani cibi, secondo le testimonianze dei commensali, pressoché immangiabili. Nonostante questa immagine di madre e moglie devota al focolare, Grazia non fu mai la casalinga prestata alla letteratura che alcuni inaciditi e livorosi critici stranieri descrissero prima e soprattutto dopo il Nobel, ma fu una letterata pura, lontana da quel dilettantismo che si voleva a tutti i costi appiccicarle addosso. Quando si parla delle opere della Deledda è vietato parlare di artigianato (nel senso deteriore del termine) ed è d’obbligo parlare di arte. Proibito anche volerla rappresentare come un’arcigna bacchettona antifemminista (a Roma circolarono caricature tutt’altro che gentili che la rappresentavano come una sentenziosa megera) per quella sua aria un po’ ruvida (la bocca raramente piegata in un sorriso, lo sguardo sondante, l’abbigliamento castigato) e la sua rigorosa riservatezza: Grazia fu tutt’altro che retrograda, anzi nel 1909 arrivò a candidarsi nelle liste del partito radicale, anche se il suffragio femminile in Italia arriverà solo nel 1945. Prese la bellezza di 34 voti, ma la sua fu una provocazione più che una vera ambizione politica, quasi una performance artistica ante litteram. Non fu certo una suffragetta, ma raccontò magistralmente la tragica condizione dell’universo muliebre e per questo fu amata anche dal pubblico femminile. Intrattenne rapporti di amicizia e collaborazione con vere leonesse del mondo culturale, come Eleonora Duse (che portò al cinema Cenere), Matilde Serao (che bussava a casa Madesani-Deledda quando si trovava nella capitale) e Sibilla Aleramo (che Grazia sostenne economicamente in un periodo difficile per la poetessa), inoltre fu molto apprezzata dalla regina Margherita che non fece mistero della propria predilezione per la scrittrice barbaricina.
È arrivato però il momento di riavvolgere il nastro e tornare al 1894: quando scrive i Racconti sardi Grazia non è ancora una scrittrice affermata in Italia e all’estero, ma una ragazza sconosciuta con tante idee e un’inesauribile energia. Le narrazioni, di variabile lunghezza, ci catapultano senza tanti complimenti in un mondo dove superstizione, magia e mistero si mescolano con un andamento a tratti allucinogeno: questa terra delle leggende, delle storie cruente e sovrannaturali
. Descrizioni sugose, intense e mai lambite dall’ombra del tedio costringono le nostre narici ad annusare il profumo delle cucine invase di tegami borbottanti e l’odore delle stalle, dei remoti borghi, della natura più selvaggia. Individui attratti dall’ignoto (e al contempo terrorizzati dal trascendente) si muovono in un panorama dai contorni fiabeschi e orrorifici in cui il paganesimo si impasta con un cattolicesimo concreto ed esaltato (è un prevosto a dire: Quella notte il mio patrono doveva esser sordo o non udiva le mie preghiere causa il forte soffiare del vento…
). La tradizione popolare sarda è ben rappresentata (ci sono addirittura brani scritti in logudorese, diligentemente tradotti, e alcune note atte a esplicare terminologie e usi) senza scivolare mai nel compiacimento etnografico e nella cartolina folcloristica. Insomma, questa interessante prova giovanile della Deledda può essere vista come un’appassionata e mai banale dichiarazione d’amore alla Sardegna arcana e incantata della sua infanzia.
Di notte
Potevano essere le undici quando la piccola Gabina si svegliò nel gran letto di legno della stanza di sopra, ove dormiva sempre con la sua mamma che le voleva tanto bene.
Ma quella notte la mamma non le stava allato. Perché dunque non c'era? Per quanto Gabina stendesse le sue manine da tutte le parti del gran letto di legno non poteva trovare la sua mamma. Solo le lenzuola fredde come il vento, solo i guanciali di percalle rosso; null'altro!
Dove era dunque la mamma? Gabina si coricava e si levava sempre insieme a lei; mai s'era trovata sola in letto, così, nel gran letto freddo, nell'oscurità della notte spaventosa.
Quello era dunque un grande avvenimento per la piccina.
– Mamma… mamma… – chiamò con un fil di voce.
Ma nessuno rispose. Fuori urlava il rovaio e la pioggia si sbatteva fragorosamente contro i vetri della piccola finestra.
Senza di ciò Gabina si sarebbe forse riaddormentata, ma con quegli urli infernali, nella fonda oscurità della cameretta solitaria, le era assolutamente impossibile nonché riprender sonno, calmarsi.
Temeva tutti i fantasmi immaginabili: la morte, i vampiri, il padre dei venti, le fate nere e l'orco, tutti… tutti…
– Mamma… mamma?… – ripeté a voce alta mettendosi a sedere sul letto. – Mamma, mamma?…
Rimase così quasi un quarto d'ora, alzando sempre più la voce, abituandosi al buio e al fragore del vento.
E siccome la madre non rispondeva mai, Gabina pensò di vestirsi e scendere in cucina per cercarla. Veramente era la mamma a vestirla ogni mattina perché a lei, così piccola, non riusciva ancora infilarsi il giubboncello nero dalle maniche strette; ma poco importava… purché ritrovasse la gonnellina bastava. La lasciava sempre nella sedia ai piè del letto: dunque bisognava scendere per ritrovarla.
Scendere?… Scendere all'oscuro, a piedi nudi, con quella notte, scendere da letto, sola?… Ci voleva proprio un gran coraggio, e Gabina, che tremava forte di