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Un ragazzo di sessant'anni
Un ragazzo di sessant'anni
Un ragazzo di sessant'anni
E-book204 pagine3 ore

Un ragazzo di sessant'anni

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Info su questo ebook

L'autore, guardandosi indietro, narra i suoi ricordi più vivi descrivendo uno spaccato della storia d'Italia: anni del benessere, dove i viaggi in auto erano lunghi per andare alla scoperta delle proprie radici, i primi veri amori, i concerti e gli eventi che hanno segnato l'immaginario di una generazione e che, certamente, hanno lasciato un segno anche nelle nuove.

Un libro dedicato ai Boomer, che si ritroveranno in tante situazioni vissute, ed ai loro figli, la Generazione Z, che attraverso queste righe scopriranno i loro padri e le loro avventure.

Il lettore si immergerà nella rievocazione di esperienze vissute o, nel caso di chi è più giovane potrà riscoprire un passato, non troppo lontano, che si riflette ancora nel mondo dei giorni nostri.

Nostalgico, sincero e avvincente, con ritmo accattivante e scorrevole.
LinguaItaliano
Data di uscita25 ott 2022
ISBN9791221402339
Un ragazzo di sessant'anni

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    Anteprima del libro

    Un ragazzo di sessant'anni - Leonardo Intiso

    Cowboy e Indiani

    Tutto cominciò quando una mattina, accompagnato da mia madre, mi ritrovai in un grande cortile pieno di mamme e bambini. La cosa più strana era che eravamo vestiti tutti allo stesso modo: noi bambini, con grembiulino bianco e fiocchetto colorato, e le anziane signore che ci accolsero tutte vestite di bianco col capo coperto e tutte con lo stesso sguardo angelico, ma con una piccola punta negli occhi di chi vuole farti capire Vieni, vieni che adesso ti sistemo io!

    Mi colpì la più piccola, che era anche la più anziana: aveva due occhi azzurri che si confondevano con il cielo sopra di me, occhi segnati dal tempo oramai inesorabilmente trascorso. Ricordo che aveva al collo una grossa croce che sembrava pesasse come una macina sul suo piccolo corpo ricurvo.

    Guardavo, preoccupato, mia madre e i suoi grandi occhi verdi pieni di lacrime che cercava di lasciarmi la mano, non troppo convinta di farlo a dire il vero, tanto che mi ritrovai con la mano di mamma da una parte e quella di suor Celestina dall’altra.

    Non riuscivo a capire perché mi volesse abbandonare a quell’anziana donna incappucciata, ma lo stesso stava accadendo a tutti gli altri bambini vestiti come me. La cosa un po’ mi rassicurò.

    Eravamo tutti un po’ confusi, molti in lacrime, alcuni ridevano e altri strillavano.

    Sento ancora le parole delle suore, dette con tono finto dolce, che cercavano di tranquillizzare tutti noi bambini prossimi all’abbandono.

    Allora non esistevano inserimenti, i nostri genitori non avevano molto tempo da dedicarci, il dovere di timbrare in orario il cartellino era più importante di qualsiasi altra cosa.

    Mia madre, una volta riuscita a staccarsi dalla mia mano, mi disse: Vengo a prenderti presto, vado a fare un servizio.

    La vidi correre verso il cancello grande dell’asilo, ma qualcosa mi disse che si sarebbe fermata appena dopo l’angolo, col viso bagnato di lacrime, a guardare i miei primi passi verso quel nuovo mondo che un po’ mi spaventava.

    Prima di farci entrare nel grande salone, pieno di tavolini e sedioline, riponemmo in delle cassettine, ciascuna col proprio nome, il nostro sacchettino con bavaglia e ci fecero infilare poi le pantofole. Ricordo che le mie erano in pannolenci, morbidissime, ma soprattutto coloratissime.

    Entrammo a gruppi in questa sala piena di giochi. Sembrava il paese dei balocchi: bambole, birilli, pezzi di plastica colorati da assemblare, cagnolini di peluche, camioncini di plastica con secchielli e palette che ricordavano molto la spiaggia e il mare soltanto che, al posto della sabbia, c’era un pavimento in palladiana grigio e nero lucidissimo, dove ci si poteva specchiare.

    Capii dopo qualche tempo il significato della cera e delle pattine.

    Cercai di ambientarmi, sono sempre stato un tipo curioso, e mi ritrovai a mettere insieme dei mattoncini di costruzioni tra due bambine che continuavano a dirmi come fare. Fu in quell’esatto momento che capii che le donne, con ogni probabilità, erano fatte per comandare e un istinto primordiale mi suggerì di non contraddirle troppo. La consapevolezza di quell’attimo, fugace ma intensa, mi sarebbe stata utile per tutta la vita.

    In quel mondo dei balocchi non potevano mancare le macchinine in metallo, così continuavo a cercare girando senza meta tra strilli, girotondi e canzoncine per tutto il salone, ma di automobiline neanche l’ombra, inciampavo sempre in costruzioni - dalle quali mi tenevo alla larga per le ragioni di cui sopra - libri da colorare o peluche.

    Come primo giorno, tutto sommato, non mi sembrò terribile, avevo solo un pensiero che mi metteva ansia: la paura di non vedere mia madre fuori dal cancello marrone, come mi aveva promesso.

    All’ora di pranzo suonò la campanella e tutti in refettorio a fare la pappa. Non era male la purea di patate, che cucinavano le suore, e neanche le polpette di carne.

    Mi sedetti a uno dei tanti tavolini attorniato da quattro sedioline, tutti seduti a tavola con il grembiule oramai color grigio polvere, il fiocco sbottonato in tasca e la bavaglia con l’elastico appesa al collo.

    Di fronte a me un bambino, magrissimo con due fossette sulle guance, m’incuriosì. Gli chiesi come si chiamasse, lui rispose: Tanto io non mangio.

    Strano nome, pensai, ma mi piacque subito. Ancora oggi sono attirato dalle persone fuori dell’ordinario. E lui, decisamente, lo era.

    Dopo qualche minuto, immobile davanti al piatto, mi rivelò il suo nome: Massimo. Da quel giorno, tra una polpettina e l’altra, diventammo amici per la pelle.

    Finita la pappa, ogni gruppetto, capitanato dalla propria suora, doveva dirigersi al piano superiore in un'altra sala, un po’ più piccola e piena di brandine, adibita a dormitorio.

    Via le pantofole, giù le tapparelle, sotto la copertina di lana con la propria iniziale ricamata, ascoltavamo la voce roca di suor Celestina, come una ninna nanna, col suo Dobbiamo fare la nanna, alternata allo Ssst di suor Angela che invitava al silenzio sperando di farci sprofondare nelle braccia di Morfeo.

    Intanto il mio amichetto Massimo, accanto a me, continuava a ripetere: Tanto io non dormo. Forte! Mi sentivo sempre più orgoglioso di essere il suo migliore amico.

    Un filo di luce dal vetro della porta, che separava quella saletta dal corridoio, rendeva tutto più irreale e magico… e in un attimo mi ritrovai sulla groppa di un destriero bianco, armato di scudo e spada, lanciato in lunghe cavalcate tra boschi, foreste e montagne. Fino a quando, d’un tratto, una luce accecante e la figura di suor Celestina mi fecero ripiombare sulla mia brandina.

    Era l’ora della merenda.

    Indossate le pantofole, ci ritrovammo tutti con un bel biscotto in mano, tra un giocattolo e l’altro. Suor Angela, con il suo sorriso diastematico, ci invitava a imparare alcune canzoncine. Il tempo passava tra un girotondo e l’altro.

    Massimo continuava a ripetermi: Io non canto. Un mito! I suoi non stampati in testa mi hanno dato coraggio e si sono aggiunti a miei, in tutti questi anni…

    Fermo nel suo non adeguarsi, cosa che ammiravo in modo sconfinato, era sempre al mio fianco, sempre pronto a partire per attraversare immense praterie, pronto a condividere l’avventura.

    Avevo tre anni, e l’amicizia con Massimo fu il seme di ciò che sono ora.

    Quel giorno ci preparammo per la partenza.

    Avevamo dei grossi cinturoni con delle pistole Colt 45, lunghissime e argentate. Galoppammo fino al tramonto al ritmo di incredibili schiaffi sulle cosce, così potenti da farle diventare rosso peperone; ogni tanto ci fermavamo a bere dalle nostre borracce l’acqua fresca del bagno dei maschi. Poi di nuovo al galoppo, cavalcando sotto il sole cocente, alla volta di un accampamento indiano nascosto tra le piante della prateria.

    Ci fermammo a riposare, stanchi della giornata sotto il sole del deserto, e subito vedemmo spuntare dalle tende una ragazza indiana con i capelli nero corvino, con lunghe trecce, di carnagione scura.

    Fu quel giorno che ebbi il mio primo colpo di fulmine.

    Il cordone ombelicale si stava spezzando per sempre.

    Smisi di giocare. Era giunta l’ora di tornare a casa. Mia madre mi aspettava fuori dal cancello marrone, bella come il sole, con il suo rossetto rosso e i suoi scintillanti occhi verdi, stanchi dopo una giornata di lavoro. Indossava un cappottino color petrolio, con colletto di pelo bianco candido, era bellissima e mi sorrideva.

    In genere mi precipitavo tra le sue braccia, ma quel giorno ero ancora in quella prateria e pensavo alla ragazza indiana, alle sue trecce color ebano.

    Per la prima volta non ebbi voglia di tornare a casa.

    Aspettai il giorno dopo come il giorno di Natale, non vedevo l’ora di tornare all’asilo, alla prateria, all’accampamento, davanti a quella tenda e rivederla. Mi era persino diventata simpatica suor Celestina!

    Ma arrivammo tardi quella mattina, papà non aveva sentito la sveglia.

    Balzai subito sul mio cavallo e mi diressi a spron battuto verso l’accampamento indiano: dovevo ritrovare la piccola squaw. Con la mano che sbatteva sulla gamba, arrivai e vidi il cavallo del mio amico Massimo.

    Li trovai mano nella mano.

    Mi sentii assalito dallo sconforto, poi la rabbia e la gelosia presero il sopravvento e mi accecarono. Estrassi la mia Colt e sparai a tutti e due!

    Negli anni a venire dovetti lavorare molto su questo lato del mio carattere, esploso lì, per la prima volta, nel bel mezzo di un accampamento indiano.

    Arrivò di corsa suor Angela col suo solito sorriso, enigmatico ma sincero, cercando di calmarmi. Ero diventato paonazzo, ripresi il mio cavallo e mi diressi nei bagni a bere dalla mia borraccia ma, dopo l’ultimo sorso, scoppiai a piangere. Continuavo a rivedere quella scena del mio migliore amico e la piccola squaw, mano nella mano.

    Trascorsi l’intera mattinata lontano da loro. Mi sentivo tradito. E sconsolatamente solo.

    Quel giorno non avevo altri proiettili, altrimenti avrei sparato anche a suor Celestina. Desideravo ardentemente mia madre, ma la giornata era ancora lunga.

    Mi resi conto di non conoscere nemmeno il suo nome, eppure la amavo.

    Mi ritrovai, mio malgrado, a tavola con Massimo che continuava a ripetere Lei non mi ama. E in quel momento fu come se arrivasse Babbo Natale con la slitta piena di regali. Ero di nuovo felice!

    Finimmo di mangiare e dopo la siesta corsi verso le tende dell’accampamento cercando due trecce nere e lunghe. Le trovai e cominciai ad abbracciarla forte e a riempirla di bacini sulla guancia.

    Si chiamava Chiara.

    Il pomeriggio passò in un baleno. Tornai a casa rasserenato. Non ero neanche più arrabbiato con papà.

    I giorni successivi cominciavano a essere lunghi e grigi. Stava arrivando l’autunno, ma poco m’importava, avevo al mio fianco la piccola squaw dai capelli corvini e dalle lunghe trecce che amavo tirare ogni volta che scendevo da cavallo.

    Massimo era un po’ cambiato, lo vedevo triste. Non era mai stato un esempio di giovialità, ma qualcosa in lui era cambiato.

    Come al suo solito, mi parlava in modo afono ma subito dopo mi guardava e sorrideva. Ed era lì che mi perdevo nelle sue fossette. In quello sguardo complice che si dona alle persone a cui vuoi veramente bene, con cui hai tanti segreti da condividere, gli assalti alle diligenze, le scazzottate nei saloon, le sbornie col whiskey dei bagni. Cose da amici per la pelle, ci si difendeva l’un l’altro a spada tratta.

    Era il mio primo migliore amico.

    Ogni tanto, però, notavo una punta di rabbia nei miei confronti. Immaginavo il motivo, ma non avevo il coraggio di chiederglielo. E poi, lei mi amava e lui lo sapeva!

    Me lo rinfacciò una sera d’inverno, davanti a un biliardo, con l’aria color blu fumo di sigaretta. Erano passati vent’anni, credo. Anno più o anno meno.

    Mi disse: È stata prima la mia fidanzata.

    Cominciammo a ridere.

    A ricordare.

    Dopo quel tuffo nel passato, quel sassolino tolto dalla scarpa, continuammo le nostre vite su strade diverse e quando mi capitava di passare dalla piazza, sotto casa sua o dal baretto, alla fine del paese sulla strada per Milano, lui stranamente era lì come se aspettasse qualcosa o qualcuno. E mentre io passavo in auto, rallentavo, aspettando che i nostri sguardi complici si incrociassero.

    I suoi lunghi e lisci capelli neri mi ricordavano tanto la piccola squaw, il sorriso con due fossette era quello di sempre, anche quella puntina d’amaro, come volesse dire: Occhio a quello che combini, io ti vedo. Poi mi faceva un cenno col capo, quello era il suo saluto, come fosse una benedizione.

    Sentivo che nutriva ancora dei sentimenti nei miei confronti e sapevo anche che se fossi ripassato dopo qualche minuto o qualche giorno, lo avrei trovato ancora lì ad aspettare.

    Come un capo tribù.

    Quante volte ho cambiato strada per ripassare lì, proprio per incontrare quello sguardo che mi faceva viaggiare con la mente, rivedere le praterie, risentire le pistolettate e il mormorio degli accampamenti indiani… Il primo sguardo dai capelli nero corvino e lunghe trecce.

    E sull'onda dei ricordi, di quel tempo felice e fugace che fu, mi assale un desiderio struggente. Passare per la piazza o al baretto per ritrovare il tuo sguardo da capo tribù, le tue immancabili ed enigmatiche fossette. Quello sguardo complice che solo noi conoscevamo.

    Caricarti in auto - i cavalli sono troppo stanchi e vecchi ormai - e guidare tutta la notte per confidarti che non avrei mai voluto farti del male. Che mi dispiace per la piccola squaw, che anche io ero come te, solo un bambino in balia delle suore e dei sentimenti. Che non ho più avuto notizie di quelle treccine color ebano, ma soprattutto che, se mi avessi chiesto di lasciarla per te, lo avrei fatto.

    Perché io ero il tuo eroe e tu il mio. E non avrei mai voluto deluderti. Esattamente come hai fatto tu.

    La vita, a volte, ci riserva delle sorprese dolorose e inaspettate. E le parole restano nel cuore, strozzate in gola, ogni volta che passo dalla piazza e al baretto.

    Lo faccio spesso.

    E tu, come nella più magica e ancestrale delle leggende indiane, sei sempre lì.

    Ti vedo!

    Ciao Massimo, ovunque tu sia, a cavallo del tuo destriero, al galoppo tra verdi, sconfinate e assolate praterie…

    La Jeep gialla

    Nella sala da pranzo di casa mia era posizionato, al centro, un grosso tavolo ovale in marmo color zabaione con venature color cioccolato, con la base in nero laccato, che occupava quasi tutta la stanza. Su una delle pareti, quella a lato, troneggiava una credenza dello stesso nero con tre ante in vetro satinato, dove si potevano intravedere i tesori di mia madre: lunghi bicchieri in cristallo e piatti di ogni misura in porcellana e oro zecchino.

    Di fronte, faceva bella mostra un altro mobile nero laccato, che occupava l’intera parete, dotato di specchio altrettanto lungo e contornato da una cornice dorata e da un ripiano in marmo identico a quello del tavolo.

    Era il classico mobilio fine anni ‘50. A quei tempi trascorrevo molto tempo tra quei mobili, rappresentavano il mio mondo popolato da deserti e praterie, dove potevo dare sfogo alla mia immaginazione per correre a tutta velocità con le mie automobiline.

    Diametralmente, nella parete di fianco, era posizionato un divano in stoffa color verde pisello, che nella mia immaginazione di fanciullo rappresentava le grandi montagne rigogliose di prati e di boschi.

    In fondo, oltre il tavolo sopra a un carrellino in vetro, era appoggiato il televisore, uno scatolone in legno con uno schermo, perfetto, per i miei occhi da bambino, per rappresentare un grande palazzo. Era marchiato e ogni volta, per guardare qualunque programma, lo si doveva accendere un quarto d’ora prima.

    Mio padre, stanco, seduto in canottiera sul grande divano dopo una giornata di lavoro, chiedeva spesso a me e mia sorella di cambiare canale. Allora si faceva a pari e dispari. Quasi sempre tentavo di incaricare mia sorella ma la voglia di viaggiare e di essere sempre in movimento era più forte. Allora afferravo la prima macchinina disponibile e correvo facendola scivolare su tutto il tavolo verso la tv, cambiavo canale e tornavo indietro.

    Quello era il momento del riposo di chi si spezzava la schiena ogni santo giorno per tutti noi, senza mai risparmiarsi. È una delle immagini più vivide di mio padre che conservo ancor oggi nel cuore, come un insegnamento silenzioso e potente.

    Di sera, le finestre spalancate portavano l’eco delle altre tv accese nelle case vicine, le ombre dei colori bluastri uscivano dalle finestre e si riflettevano sulle pareti dei palazzi di fronte come su un grande schermo.

    Mi sdraiavo sul tappeto della sala da pranzo, sotto al tavolo gigante, e quando cominciavo a sentire caldo saltavo sulla mia Jeep, giravo la chiave e facevo partire il rombo del V8. Inserivo la marcia e partivo accelerando, una marcia dopo l’altra fino a perdere il fiato. Il rombo copriva anche il rumore delle stoviglie che mia madre sistemava in cucina appena finito di cenare.

    Correvo a velocità pazzesche, sfrecciando davanti a mia sorella mentre prendeva il tè chiacchierando con le sue amiche, delle belle signorine snodabili in plastica. Molto affascinanti

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