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Prigionia e libertà
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E-book320 pagine4 ore

Prigionia e libertà

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Info su questo ebook

Dakota Landry esce di prigione dopo dodici anni. Sage, il suo nuovo amico, è il solo che capisce come si sente ed è determinato ad aiutarlo ad ambientarsi nella vita fuori da quelle quattro mura… e crede nella sua innocenza.

Jayden Wilson, ex pubblico ministero, su richiesta di Adam, il compagno di Sage, accetta di esaminare il caso di Dakota. Si propone di dimostrare che è solo un altro ex detenuto “innocente”, ma dopo essersi conosciuti, è sempre più convinto che l’uomo non abbia davvero commesso il reato per il quale tutti lo ritengono colpevole.

I guai seguono Dakota e, ora che ha libertà di scelta, niente è semplice mentre lotta per capire come imparare a vivere. E Jayden non è sicuro di come Dakota, o a dirla tutta un qualsiasi altro amante, possa entrare nella sua vita. Il passaggio dall’amicizia all’amore è lento, ma Dakota inizia a credere di meritarsi una possibilità nella vita e Jayden si innamora di Dakota ogni giorno di più. Ora devono solo confessare ciò che provano l’uno per l’altro.
 
LinguaItaliano
Data di uscita25 lug 2022
ISBN9791220703505
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    Anteprima del libro

    Prigionia e libertà - BA Tortuga

    1

    «Un portafoglio contenente sei dollari e ottantatré centesimi. Jeans, maglietta e un paio di stivali. Una cintura con fibbia. Firma qui.» L’uomo spinse il sacchetto di carta verso di lui e Dakota Landry scarabocchiò la sua firma sul foglio, la mano gli tremava più di quanto volesse ammettere.

    Un portafoglio contenente sei dollari e ottantatré centesimi.

    Un paio di Wrangler.

    Dodici anni, tre mesi e otto giorni.

    Dakota sospirò e ruotò le spalle. Quello che stava indossando gli era stato donato dagli Unitariani: un paio di scarpe da tennis leggermente usurate, una camicia button down del Walmart e dei jeans nuovi che gli pendevano sul culo ossuto come un brutto costume. Però, era tutto ciò che possedeva. Aveva perso più di trenta chili, tant’è che negli ultimi tempi leggeva più libri sul bull riding, la monta dei tori, che sul bulldogging, lo sport in cui i cowboy a cavallo correvano al fianco di un manzo adulto per poi scendere dalla sella e trascinarlo a terra usando le corna come leva.

    Il resto della procedura si concluse in fretta, mezz’ora dopo uscì dal cancello e sbatté le palpebre nella luce del tardo pomeriggio. Stava per vomitare.

    Aveva una valigia con le sue cose raccolte in cella, quel sacchetto di carta e…

    Un pick-up bianco accostò al marciapiede, il finestrino si abbassò e apparve una faccia segnata dalle intemperie che sbirciava da sotto la tesa di un cappello di paglia. «Sei Landry?»

    «Sissignore.» Si preparò psicologicamente, in attesa che la canna di una pistola spuntasse dal finestrino. Dio lo odiava, non aveva dubbi, ma sarebbe stato proprio un bastardo malvagio se avesse mandato uno dei McCarthy a sparargli appena uscito di prigione da uomo libero.

    Però, non comparve una pistola. Emerse una mano nodosa da cowboy. «Sage. Sage Redding. Vuoi un passaggio, amico?»

    Sentì un groppo in gola. Sage. Okay, aveva conosciuto quel tizio attraverso le lettere e qualche telefonata occasionale. Quando aveva saputo che sarebbe uscito, si era proposto… di fare cosa? Sage non era un avvocato. Era una manna dal cielo, però. «Sì, certo.»

    «Fantastico. Forza. Andiamocene da qui, cazzo.»

    «Sì, per favore.» Salì sul furgoncino, respirò l’odore di letame di cavallo, Old Spice e fieno, e all’improvviso si sentì come se avesse ancora tredici anni, un’intera estate davanti a sé, tutti quei sogni e…

    «Ehi.» La parola, breve e tagliente, attirò la sua attenzione dritta sul volto di Sage. «Rimani qui. Resta con me, amico. Se cominci a pensare, il mondo diventa una merda, cazzo.»

    «Io…»

    «Ci fermiamo alla prossima città e prendiamo degli hamburger e una Coca-Cola. Non sei vegetariano, vero?»

    «Sono abbastanza sicuro che gli hamburger siano da prigione di minima sicurezza.»

    Sage rise forte, un suono naturale come respirare. «Scommetto di sì.»

    «Grazie. Non mi aspettavo…» Non sapeva cosa aspettarsi. Aveva i numeri dell’Esercito della Salvezza e di un centro di accoglienza, ma non aveva intenzione di chiamare né l’uno né l’altro.

    «Non ti preoccupare. Ci sono passato anch’io.»

    «Vero.»

    Omicidio colposo, aveva detto Sage, e l’uomo non aveva mai affermato di essere innocente. Era fuori in libertà vigilata, viveva in un ranch e scriveva ai detenuti nell’ambito di un progetto dedicato allo scambio epistolare. Dakota non aveva idea di come fosse riuscito a farlo uscire, cazzo, ma per sua fortuna, aveva scritto una lettera alla commissione per la libertà vigilata e ne erano rimasti favorevolmente impressionati.

    Della serie: gli assassini parlavano a nome degli stupratori. Wow.

    Ruotò la testa per cercare di alleviare il dolore al collo.

    Sage entrò nel parcheggio di un Whataburger. «Qui va bene?»

    «Sì. Sì, certo.» Abbassò lo sguardo e non vide nulla, né la tuta, né i numeri, niente, e sussurrò: «Si capisce?»

    «No. Nessuno lo capirà. Te lo prometto.»

    Grazie a Dio Sage aveva colto il problema.

    «Grazie. C’è un odore…?» Buono? C’era davvero un profumino delizioso o era solo un odore strano? Non l’aveva ancora capito.

    «Di hamburger unti e jalapeños. Forza. La prima volta ti sembrerà strana, ma le successive saranno più facili.»

    Dakota annuì, si diede un colpetto per essere sicuro di avere il portafoglio contenente la piccola somma di denaro che i detenuti ricevevano al rilascio e il biglietto dell’autobus di sola andata per Austin.

    «Pranziamo insieme. Tu e io dobbiamo fare una chiacchierata.»

    «Sissignore.» Non aveva capito dove volesse andare a parare. Parlare di cosa? Cosa avrebbe dovuto dire? Aveva diciannove anni l’ultima volta che era stato un uomo libero. Ora non aveva un posto dove andare, nessuno a cui importasse se fosse vivo e un’intera famiglia che lo voleva morto. Cosa poteva dirgli una persona?

    «Non sono uno sbirro, Dakota. Posso chiamarti Dakota o preferisci che ti chiami in un altro modo?»

    «Dakota va bene. I miei mi chiamavano Koda, ma… In prigione tutti mi chiamavano Landry.» O TB. Titty Baby, frignone. I primi due anni erano stati duri.

    «Ottimo.» Sage scese e fece il giro per aprirgli la portiera costringendolo di fatto a scendere dal pick-up.

    Dakota entrò nel ristorante e osservò le persone in fila. Ognuna di loro stava fissando o parlando al telefono. Certo, un tempo anche lui aveva posseduto un cellulare, ma quella situazione era diversa. Suppose che gli spot pubblicitari non mentissero.

    Nessuno li degnò di un secondo sguardo finché non arrivarono alla fine della fila, dove una teenager con un top a righe sorrise e cinguettò: «Cosa posso servirvi?»

    «Un Whataburger, patatine fritte e una Coca grande. Dakota? Offro io.»

    «Un cheeseburger, patatine fritte e una Dr Pepper.»

    «Va bene. Qualcuno prende il doppio hamburger o desidera una fetta di torta?»

    Dakota scosse la testa e cercò di non guardare dietro di sé per controllare il perimetro. In prigione era impossibile preservare lo spazio personale e aveva cercato di sviluppare dei meccanismi di difesa.

    Meccanismi di difesa. Cristo, ma sentitelo. Un detenuto con una laurea in inglese, cazzo. Quando si diceva mettere il rossetto a un maiale.

    Sperava di trovare un lavoro come correttore di bozze di manuali o qualcosa del genere. Qualcosa che gli avrebbe dato la possibilità di sedersi da solo in una stanza e scrivere al computer.

    «Ehi. Vieni a sederti.» Sage non lo toccò, ma in qualche modo si mossero verso un tavolo.

    «Vado a prendere le bevande, va bene?» Dio, quei bicchieri di plastica erano inconsistenti, cazzo. Versò una Coca per Sage e si prese una Dr Pepper senza ghiaccio. Avrebbe approfittato delle calorie.

    Sage lo aspettava seduto e Dakota capì subito che era stato in prigione per molto tempo. L’immobilità, il modo in cui si era mosso all’interno del ristorante e si era quasi eclissato… sì.

    Per un secondo orribile desiderò tornare dentro. In prigione non aveva bisogno di fare domande. I principi fondamentali erano sempre gli stessi. Vita. Morte. Cibo. Casini. Lavoro. Sesso. Tutto faceva parte della routine.

    Là fuori bisognava prendere delle decisioni in ogni singolo momento. Stare lontano dal grosso bifolco che si atteggiava o fargli il culo. Senape o maionese.

    Trovare un lavoro. Trovare un posto dove vivere. Cose che non aveva mai fatto prima. Aveva lasciato casa sua per andare in uno studentato e poi in prigione.

    Doveva evitare che le mani schiacciassero troppo i bicchieri prima di stritolarli; i coperchi si erano già sollevati.

    Sage si alzò e prese un bicchiere. «Grazie.»

    «Prego.» Si sedette, poi iniziò a mordicchiarsi il labbro inferiore. «È tutto così strano.»

    «Puoi dirlo forte. Grazie per avermi permesso di venire a prenderti.»

    «Sul serio? Cioè, mi ringrazi per…» Che cosa? Cosa ci faceva esattamente Sage lì? Perché qualcuno avrebbe voluto andare a prendere il suo brutto culo?

    Sage gli rivolse uno sguardo sereno che lo tranquillizzò un po’. «Mi sarebbe piaciuto che qualcuno lo avesse fatto per me. Ho trascorso diverse settimane in un appartamento di merda in California perché potevo permettermi di chiamare mia mamma qui in Texas solo una volta alla settimana. Sono felice di poter aiutare qualcun altro.» Poi, Sage gli fece l’occhiolino. «Per la cronaca, il mio agente per la libertà vigilata ritiene sia un’idea fantastica. Evviva i servizi alla comunità.»

    Ecco. Ora aveva senso.

    «Sì. Ho fatto molti corsi sulla gestione della rabbia e sulla dipendenza sessuale.» Non che fossero stati d’aiuto. Non lo aveva fatto. Non aveva violentato nessuno, a prescindere da ciò che gli altri pensavano. Non aveva mai infilato l’uccello dentro qualcuno… maschio o femmina.

    Si era ripromesso di non fare mai più sesso. Cazzo, forse aveva già sperimentato tutto ciò che si poteva insegnare al suo culo infelice.

    Sage inclinò la testa. «Sì. Immagino ti facciano frequentare dei corsi specifici sulla base del reato commesso. Ho fatto un sacco di lezioni su la droga fa male

    Un’altra adolescente annoiata arrivò con il loro cibo e ritirò il numero di plastica sul tavolo. In quel momento, sì, sentì un profumino delizioso.

    «Non l’ho commesso.» Non avrebbe mai più fatto finta di essere colpevole. L’aveva fatto per accontentare i maledetti idioti della commissione per la libertà vigilata. Non l’avrebbe fatto mai più.

    «Di certo non ne sembri il tipo.» Sage scrollò le spalle. «Ero un ragazzo stupido.»

    «Anch’io.» Ci aveva creduto quando gli avevano detto che sarebbe stato innocente fino a prova contraria. Al momento era registrato come molestatore sessuale e la famiglia McCarthy sarebbe riuscita a rintracciarlo ovunque si trovasse.

    Non aveva violentato la loro figlia. Non aveva fatto del male a nessuno e non c’era stata alcuna prova fisica a sostegno della deposizione della testimone oculare. Però, qualcuno doveva pagare e Dakota aveva scontato la pena.

    «Hai un posto dove stare? Ho un amico a cui farebbe comodo un coinquilino.»

    «No. Non ho un piano, ma… merda, non sai niente di me. Devo solo arrivare ad Austin e trovare il mio agente per la libertà vigilata…» Di sicuro ci sarebbe stata una casa di accoglienza per ex detenuti, una catapecchia o qualcosa del genere in modo che potesse… fare qualcosa.

    «È solo una proposta, amico. Azel è un bravo ragazzo e per un certo periodo gli farebbe comodo un po’ di aiuto con le bollette.» Sage sgranocchiò una patatina borbottando un po’.

    Una vocina gli sussurrò: A caval donato non si guarda in bocca, e quella voce lo teneva in vita, quindi Dakota annuì. «Grazie. Apprezzo l’aiuto.»

    Mangiò tenendo la testa bassa, si assicurò di tenere i gomiti in dentro e di non occupare più del suo spazio.

    «Dakota? Dakota, amico?»

    Gli ci volle un attimo per ricordare che quello era il suo nome, per capire che Sage stava parlando con lui, e alzò lo sguardo. «Sissignore?»

    «Nient’altro sarà più difficile di questo.»

    Sbatté le palpebre, del tutto confuso per un secondo. «Cosa?»

    «Finire dentro è difficile, ma uscire e rimanere fuori? È l’inferno in terra. Avevo diciotto anni quando sono andato in prigione, tu ne avevi quanti? Diciannove?»

    «Sì. Sto per compiere trentadue anni.»

    «Hai mai avuto un appartamento o altro?»

    «Hai letto il mio background. So che l’hai fatto. Non cercare di pescare informazioni.»

    Per un attimo pensò che Sage si sarebbe alzato e se ne sarebbe andato lasciandolo lì a fissarlo come un idiota, invece sorrise. «Mi sembra giusto. Ero dannatamente spaventato quando sono uscito di prigione. Sei ancora in contatto con i tuoi parenti?»

    Scosse la testa. «Non ci siamo mai sentiti. Immagino di essere morto per loro.» Era morto anche per tante altre persone, pensò, ma in qualche modo continuava a respirare.

    «Sei un uomo timorato di Dio?»

    «No. No, neanche un po’. Se Dio esiste, mi odia. Se non esiste? Beh, merda, forse mi odia a prescindere. Non mi è rimasto più niente per cui essere felice e non capisco come fingere che nell’aldilà ci sia una vita migliore possa confortarmi.» E se a Sage Redding non fossero piaciute le sue parole? Beh, era proprio un gran peccato. Non era il suo dannato progetto personale.

    Si guardò la mano e si costrinse ad aprirla, le mezze lune incise sui palmi dalle unghie si riempirono di sangue.

    Okay. Respira.

    «Buono a sapersi. Io, invece, lo sono, ma sono piuttosto moderato e, come ho già detto, non sono innocente. È stata colpa mia se quei ragazzi sono morti, uno di loro era solo un bambino. Non posso dire come mi sentirei se avessi scontato la pena di un altro uomo.»

    Ogni volta che si arrabbiava e iniziava a pensare che avrebbe perso la testa, Sage parlava calmandolo. «Sei un predicatore?»

    «Merda, no. No, signore. Sono un cowboy. Lavoro con i cavalli. Tutto qui.»

    «Meglio di quello che posso fare io.»

    «Scommetto che te la caverai benissimo. I cavalli mi calmano.» Sage allargò le mani. «Troverai qualcosa.»

    «Ho lavorato in lavanderia. Qualcuno mi assumerà.»

    Vide gli occhi di Sage spalancarsi. «Per tutto il tempo?»

    «Sì.» Non era stato un leccapiedi e non era stato abbastanza grosso da costituire una minaccia, quindi era diventato la puttana del bucato. Aveva fatto ciò che doveva per sopravvivere. «Riesco a sopportare il caldo.»

    «Gesù. Eri solo un ragazzino.»

    «Ero più vecchio di te e non mi trovavo in un carcere di massima sicurezza.» Non era interessato alle cazzate o a risultare simpatico. In tutta onestà, voleva solo che qualcuno gli illustrasse il piano per mettersi all’opera.

    «Beh, allora hai delle abilità.» Sage accartocciò la carta da buttare e la posò sul vassoio. «Ti porto a conoscere Azel. Ha un minuscolo appartamento con due camere da letto a Rundberg.»

    «Per quale motivo l’hanno arrestato?»

    «Aveva un problema con l’alcol che ha portato a un problema più grave causato dalla stupidità, un po’ come è successo a me. Si è fatto dieci anni per omicidio stradale.»

    «Ho conosciuto alcune persone con storie simili.» Nella maggior parte dei casi, quelle erano vicende strappalacrime, roba da campo estivo intensivo della parrocchia. «Apprezzo l’aiuto.»

    «Mi fa sentire come se fossi uno dei buoni. Scrivo un sacco di lettere. Sei il primo che sono venuto a prendere. Adam si incazzerà parecchio.»

    «Il tuo ragazzo?»

    «Sì. Era lo sceriffo della nostra città natale.»

    Dakota lo guardò, ma non pronunciò quello che aveva sulla punta della lingua. Sage doveva sapere che nel migliore dei casi era un cazzo di cliché e nel peggiore un brutto scherzo, ma aveva bisogno di quel passaggio più di quanto avesse bisogno di comportarsi da stronzo.

    Non voleva che si dicesse che non aveva un istinto di conservazione ben sviluppato.

    «Non mi interessa creare problemi.» Non era un tipo socievole e non avrebbe cercato di insinuarsi nella vita altrui.

    «Beh, non ho intenzione di chiederti di andare in chiesa insieme. Ho un po’ di buonsenso,» ribatté Sage strascicando le parole.

    «No, signore. Certo che no.» Abbassò lo sguardo sul cibo e incartò con cura ciò che non aveva mangiato. «Prendo gli avanzi per dopo.»

    Era sicuro che la mattina successiva ne sarebbe stato felice. Aveva solo bisogno di vedere il suo agente per la libertà vigilata ed elaborare un piano.

    «Devi fare la spesa?» Sage alzò una mano. «L’organizzazione benefica Catholic Charities mi ha dato un assegno per te. Hanno detto di usarlo per l’affitto e il cibo.»

    «È meglio che non lo prenda finché non saprò a quanto ammonta l’affitto e tutto il resto. L’agente per la libertà vigilata mi indirizzerà verso un lavoro dove il fatto che sono…» rovinato «… un ex detenuto non è importante, giusto?»

    «Se non lo fa, chiamami.»

    Dakota annuì, ma pensò che forse non l’avrebbe fatto. Sage stava cercando di comportarsi da bravo ragazzo, ma era ovvio che il suo uomo non voleva che si parlassero. «Grazie. Vado in bagno e riempio il bicchiere di Coca.»

    «Allora, torno al pick-up.» Sage gli rivolse uno sguardo pieno di simpatia, Dakota non percepì in esso la pietà e gliene fu grato.

    «Arrivo subito.» Si alzò e si costrinse a non chiedere il permesso e a non parlare con nessuno.

    Poteva farcela.

    Era sopravvissuto alla prigione. Poteva sopravvivere alla libertà.

    2

    «Landry? Puoi venire anche domani?»

    «Sì, signore.» Dakota annuì e si pulì la faccia dal sudore e dalla sporcizia con il fazzoletto. «Sarò al punto di ritrovo alle sette.»

    Stava diventando abbastanza bravo in quel lavoro a giornata.

    L’appaltatore, un tizio di mezza età che assomigliava molto a uno spaventapasseri con tanto di pelle coriacea e capelli biondo paglia che sparavano in tutte le direzioni, gli fece un cenno con la mano. «Eh. Verrò a prenderti alle sette e mezza e potrai occuparti di questa merda per tutta la settimana. Tutto sommato, fai un buon lavoro.»

    Sapere di avere altri tre giorni pieni di paga onesta gli andava bene. Se avesse tenuto la testa bassa e la bocca chiusa, avrebbe guadagnato abbastanza per pagare l’affitto, la spesa e il biglietto dell’autobus quando gli sarebbe servito.

    «Grazie, signore.»

    «Oh, per l’amor del Cielo. Chiamami Jim. Lo fanno tutti. Ci vediamo domattina. In Glen Rose?»

    «Sì. Ti aspetterò fuori.»

    «Ottimo.» Jim lo salutò e Dakota si diresse verso il furgone designato per il ritorno.

    Salì, evitò ogni contatto visivo, non prese respiri troppo profondi e contò i secondi che mancavano per arrivare a casa.

    Proprio quando raggiunsero il suo appartamento, nel retro del furgone scoppiò una rissa, Dakota saltò giù dal veicolo e salutò l’autista con un brusco cenno della testa.

    Non era il suo circo, non erano le sue scimmie.

    Corse verso il retro del complesso residenziale e salì le scale fino all’appartamento di Azel. Bussò prima di usare la chiave e seguì la scia di profumo della salsa di pomodoro.

    Azel non lavorava. Cucinava, però. Tanto.

    «Non devi bussare, tesoro. Te l’ho già detto.» Azel girò la sedia a rotelle verso di lui con un cucchiaio in mano. «Vieni, assaggia.»

    Aprì subito la bocca. Non si diceva di no al cibo che Azel ti offriva. Una salsa acida dall’aroma intenso gli scivolò sul palato e il suo sapore gli fece incrociare gli occhi.

    «Devo aggiungere un po’ di aglio?»

    «Forse un po’ di sale?» Almeno, quello era il suo pensiero.

    «Ottimo. Com’è andata al lavoro?»

    «Ho lavorato di nuovo con lo stesso appaltatore. Mi vuole per tutta la settimana.»

    «Continua così e potresti ottenere un posto fisso.» Azel riportò la sedia vicino ai fornelli, la sua testa calva dalla pelle scura luccicava di sudore.

    «Forse. Non sto trattenendo il fiato.» Andò nella sua stanza per lavarsi e indossare qualcosa di diverso dagli abiti da lavoro. L’acqua non diventava mai troppo calda, ma era passabile e andava bene per strofinare i vestiti con la saponetta Dial.

    Azel iniziò a urlare come una rana toro, il che per lui equivaleva a cantare. «Nessuno comprende in che guaio mi sono cacciato…»

    Il padre di Dakota si sarebbe divertito da morire se avesse saputo che abitava con un cristiano praticante convinto che Dio fosse un essere vivente. Il pensiero di suo padre lo fece tornare serio e sospirò. Già, il vecchio non era un buon argomento su cui rimuginare, vero?

    A dire il vero, nessun membro della sua famiglia lo era. Nessuno aveva mai messo in dubbio la sua colpevolezza. Lei era giovane e carina, e aveva sostenuto che l’aveva violentata tenendole un coltello alla gola. Dakota era un ragazzo grasso e sfigato, e non aveva avuto un alibi, degli amici o un supporto.

    Scosse la testa scrollandosi letteralmente di dosso i pensieri. Rimuginare non gli giovava. Affatto. Era quello che gli aveva detto il tizio della gestione della rabbia.

    Si infilò una maglietta e si avviò verso il soggiorno. «Hai bisogno di aiuto?»

    Aveva imparato in fretta che conveniva dare ad Azel i soldi della spesa e lasciarlo cucinare. Altrimenti avrebbe vissuto di nachos e formaggio.

    «No. Siediti, amico.»

    «Okay.» Prese una sedia e guardò Azel muoversi senza sforzo per la minuscola cucina. Il ragazzo era un portento sulla sua piccola sedia a rotelle sportiva, una donazione di un’organizzazione che si occupava del reinserimento in società degli ex detenuti.

    «Riesci a gestire il caldo là fuori, ragazzino?»

    «Sissignore.» Ragazzino. Aveva solo sei o sette anni meno di lui. Si sforzò di non roteare gli occhi perché Azel era un bravo ragazzo, uno strenuo difensore di tutti i cuccioli presi a calci.

    Dakota rimase seduto lì, immobile, con lo sguardo che percorreva le crepe sul tavolo.

    Sobbalzò quando l’altro gli piazzò davanti la pasta, il pane all’aglio e l’insalata. Cavolo, si era estraniato per un po’ di tempo.

    «Stai bene, ragazzino? Respira.»

    «Sto bene. Sono solo stanco, ecco tutto.» Si alzò per prendere un bicchiere di latte. «Vuoi qualcosa?»

    «Prendo un po’ di quel tè nella caraffa.» Azel gli sorrise, gli occhi sempre vigili.

    «Va bene.» Non era un ladro. Né un ladro, né uno stupratore, né altro. Era un ragazzo perbene.

    «Sai, non si tratta di te.» Azel aveva parlato con tono gentile e Dakota girò la testa di scatto per guardarlo. «Hai le spalle dritte. Non sono preoccupato per te. È solo che… è difficile non preoccuparmi delle cazzate.»

    «Non ruberò niente. Lo giuro. Non sono un cattivo ragazzo.» Non riteneva di essere un bravo ragazzo, non più, ma non era neanche cattivo.

    «Cosa hai intenzione di rubare dal frigorifero?» Azel sbuffò. «Mi limito a osservare le persone. Ora vieni a mangiare.»

    «Sì. Grazie per il cibo, amico. Lo apprezzo.»

    «Mi piace cucinare. Domani devo portare un po’ di cupcake alla missione. Vuoi che ti porti qualcosa mentre sono fuori?»

    «No, grazie.» Sarebbe andato a lavorare, avrebbe incontrato l’agente per la libertà vigilata, poi sarebbe tornato a casa per condividere la cena con Azel prima di mettersi a leggere e a dormire.

    «Va bene.»

    Rimasero in silenzio mentre si rimpinzavano e Dakota ammise con se stesso di non aver mai mangiato così bene.

    «Oggi Delilah mi ha portato la posta.» Le parole erano state pronunciate con cura e Dakota in esse percepì un pericolo, un avvertimento, così appoggiò la forchetta sul bordo del piatto scheggiato.

    «Sì?»

    «Sì. Un certo Tom McCarthy mi ha mandato una busta. Era piena di foto.»

    «Le ho viste.» La prima volta che le aveva guardate si trovava in una stanza degli interrogatori. Da allora le aveva viste molte volte. «Sono un molestatore sessuale registrato. Il mio indirizzo è di

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