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Cervelli fritti per merenda
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E-book150 pagine2 ore

Cervelli fritti per merenda

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Info su questo ebook

Pulp, eccessi, solitudini, psicosi e un senso di vuoto che toglie il respiro.
Otto racconti per altrettanti eterogenei spaccati di vita in cui l’alienazione e il disagio finiscono per confluire in un linguaggio iperrealista che cola rapidissimo dalla prima all’ultima pagina. La violenza, gratuita e spogliata di intenzioni etiche, risparmia poche di queste storie, cesellate secondo stili diversi, che affrontano temi introspettivi. Dallo squallore del cosiddetto mondo civilizzato del racconto “Il mattatoio delle anime dannate”; alla devastante autopsia dell’anima di una bambina abusata in “Lilly”, narrato in prima persona e senza l’utilizzo di dialoghi; al crimine orrendo commesso da un uomo e una donna, seguendo diversi percorsi, nel racconto “L’innocenza della carne”.
La forza e l’originalità di Simone Nepa è nella contaminazione tra violenza, lirismo, sarcasmo e ironia per dipingere un mondo sconfitto e cinico che, tuttavia, sa anche ridere di se stesso come nel caso di “Non si va a cercare la sanità mentale nei bar”.
In ultima analisi, una lunga carrellata di fatti e personaggi, dove gli uni sfumano indissolubilmente negli altri, dove ci si chiede qual è il senso di questa vita e si trova la risposta migliore nell’attesa, almeno al momento. Tanto, come dice uno dei personaggi, alla fin fine la vita è una teoria inesatta.
LinguaItaliano
Data di uscita20 set 2021
ISBN9788832929096
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    Anteprima del libro

    Cervelli fritti per merenda - Simone Nepa

    Il mattatoio delle anime dannate*

    Fu il Curdo a propormelo la prima volta. Le giornate erano diventate torride già dalla fine di giugno. Ti dolevano le ossa, avvertivi strani pruriti nei punti più difficili da grattare, sudavi da ogni poro. Le mie ambizioni letterarie erano a un punto morto, avevo perso uno schifo di lavoro, mia madre mi aveva cacciato di casa e avevo appena dodici euro e rotti. Non ero in quel che si dice un bel momento e l’opzione suicidio comportava troppe problematiche di natura squisitamente tecnica, al momento. Trascorrevo le giornate a camminare per le strade, sbirciare la felicità altrui e piangermi addosso. In realtà, ci voleva ben poco per tornare in pista. Mi serviva una spintarella, un aggiustamento di prospettive. Fu allora che vidi il Curdo. Ero in un bar vicino la Stazione Termini quando lo beccai. Nei pressi c’era la sezione locale degli Alcolisti Anonimi. Ci andava già da un po’.

    Ti serve un lavoro? fece.

    Perché, ne hai uno sotto mano?

    Una cosetta tranquilla, mi disse il Curdo.

    Lo fissai. Aveva la testa tonda, lo sguardo rassicurante e vantava un gran numero di esperienze al limite. Ero sempre stato più curioso che cauto e mi fidavo del Curdo. Dalla strada aveva ereditato scaltrezza e colpo d’occhio, ma non la malizia e il rancore. Avevo capito che gli serviva una spalla. Iniziare un nuovo lavoro è come tirare freccette in una stanza piena di specchi. Gli strinsi la mano e sancii il patto. Quando gli offrii un giro di bevute, scosse la testa e si alzò per andarsene. Era quasi fuori quando si voltò e buttò una lunga occhiata triste alla mensola dei liquori.

    Fanculo, disse.

    Ci sbronzammo di campari e gin e, prima di lasciarci, concordammo di trovarci il giorno dopo prima dell’alba. Tornai alla Ford che era già buio. Sul bus c’era odore di cipolle andate a male, birra stantia e sconfitta. Quando mi raggomitolai sul sedile posteriore, per l’ennesima volta pensai che la sorte era un vecchio clown sul viale del tramonto. Uno di quelli che non faceva ridere più nessuno. Sognai zio Buk, una fiasca di Amarone, un sacco di soldi e Monica Bellucci a cavallo sulla mia schiena mentre mi massaggiava le spalle. Mi svegliarono i soliti vagabondi poco prima del sorgere del sole. Ero rinfrancato e pieno di speranza. Presi il solito sacchetto e mi lavai al cesso della stazione. Un buon aspetto era la carta vincente per iniziare un nuovo lavoro. Mentre mi radevo e fischiettavo decisi che avrei potuto scrivere il testo di una canzone sull’argomento dell’ottimismo e della rinascita. Il Curdo e le sue opportunità d’oro dei miei coglioni mi fecero rivedere in fretta le parole. Fortuna che, in seguito, lo strazio fisico fu talmente abbietto da far scivolare in secondo piano persino l’ennesima crisi depressiva.

    Per tutto il tragitto non avevo fatto altro che sbirciare il Curdo. Non sembrava messo tanto bene. Aveva la pelle trasparente, piena di macchioline grigiastre. E non riuscivo a trovare una forma geometrica che si adattasse a quella sua testa da beone. Aveva spigoli e sporgenze e le guance gli cascavano fino al mento. Il panorama scorreva di lato come una serie di macchie su una lavagna con le rotelle. C’erano poche macchine in giro a quell’ora. In lontananza, l’orizzonte nero di notte iniziava a intorbidirsi e le prime luci del sole a sforacchiare le nubi basse e il cielo senza stelle. Ci fermammo in un autogrill. Entrammo. Il Curdo ordinò qualcosa. Mi avvicinai al bancone e ci trovai un caffè e un cornetto. Lo ringraziai e attaccai a sbocconcellare. Ruttai silenziosamente mentre guardavo l’espositore dei libri. L’angoscia mi rodeva. Quei tizi facevano la grana, quei tizi facevano la bella vita. E solo perché erano riusciti ad arrivare su quello scaffale. Aprii qualche libro a casaccio e lessi le prime righe. Robaccia noiosa, adatta per l’uomo medio. Non avevano stile, non graffiavano. Feci un risucchio coi denti.

    Questo è forte, disse una voce alle mie spalle.

    Mi voltai. Era uno degli inservienti alle pulizie. Aveva delle fessure in bocca. La lingua saettava qua e là in cerca di ossigeno. Un serpente, sembrava.

    Ah sì? dissi, sputacchiando pezzetti di cornetto tutt’intorno.

    Il serpente riuscì a schivarli con una certa agilità.

    È un thriller medievale. Un prete che va in giro a cercare libri sconsacrati.

    Si scopa qualcuna?

    No, è un prete.

    Hai ragione, non sarebbe credibile, dissi.

    Feci volare altri pezzetti di cornetto. Uno di questi gli atterrò sulla faccia.

    Ehi, sei capace di mangiare senza sputare chi ti sta intorno?

    E tu sei capace di distinguere un buon libro da una cagata di cane?

    Io arrivo a leggere anche un libro al mese.

    Lo fissai. Lui mi fissò. Non capivo cosa avrei dovuto rispondergli. Mi stava sfidando a una disputa verbale, a uno scontro dialettico sulla potenza della letteratura. Ero un peso massimo in quell’ambito. Non potevo accettare di combattere con un dilettante. Decisi di lasciargli la sua ottusa consapevolezza di essere superiore.

    Si vede che sei una persona istruita, gli dissi.

    Mi guardò con uno sguardo sospeso su qualcosa. Era sull’orlo del precipizio. Riusciva a percepirlo ma non lo vedeva. Il Curdo mi tirò per una manica. Scivolai via da quell’inserviente insulso. Lo lasciai nel mezzo della sala, perso tra illusioni e certezze, incapace di distinguere le une dalle altre. Risalimmo in macchina e ripartimmo. Quel tizio e lo scaffale pieno di best-seller mi avevano prosciugato ogni desiderio di rimonta. Lasciai perdere, accesi la radio, fumai una cicca e mi concentrai su Califano.

    Per prima cosa arrivò la puzza. Storsi il naso. Lo scenario era cambiato. Una strada sterrata, fuori della città. Ai lati grossi capannoni erano intervallati da terreni incolti e carcasse di camper. Non riuscivo a orientarmi. Poi, mi ricordai. I camion erano allineati in file ordinate, adibiti al trasporto bestiame. Un certo tipo di bestiame. Figlio di troia. Fregato ancora una volta. Un altro capitolo in procinto di scriversi. Ero un vero factotum della sfiga. Camion strapieni di suini, sudici e incazzosi suini. La materializzazione di uno degli incubi peggiori.

    Te lo ricordi Rocky quando si allenava in un mattatoio? fece il Curdo.

    Curdo, perché non te ne vai affanculo?

    Parcheggiamo. L’aria frizzantina preannunciava una bomba di calore di lì a poco. La testa mi girava in mezzo a tutti quei grugniti e quelle sozze teste di maiale. Inspirai. Lo stomaco iniziò a fare capitomboli e piroette.

    Vidi il Curdo parlare con un uomo. Mi avvicinai a piccoli passetti. I maiali continuavano a seguirmi con gli occhi. Decine di musi porcini fissi su di me. Come tante punture di spillo sulla schiena. Maledissi il Curdo e i suini voodoo. L’uomo era il capo della baracca, una ragionevole imitazione di Bigfoot. Tesi la mano per presentarmi. L’uomo l’afferrò e quasi me la stritolò. Avevo le budella piene di gas dal terrore. Quando se ne andò, ne mollai una. Si disperse nel vento.

    Che t’ha detto? domandai con tono incazzoso e offeso.

    Dobbiamo cambiarci, andiamo.

    Trotterellai al suo fianco come un cagnolino mongoloide.

    Entrammo in una piccola casupola di lamiera. Lì dentro c’erano solo negri e cinesi e ci stavano osservando con la tipica diffidenza dell’immigrato clandestino, decidendo se per loro dovevamo essere la colazione o il pranzo. Salutammo tutti senza ottenere risposta. Poi, ebbi un’allucinazione visiva. Campi di concentramento, nazisti a braccetto con negri e cinesi e uno stuolo di maiali con farfallino pronti a farci la festa. Mi ripresi quasi subito. Del resto, la vita fin lì condotta m’aveva preparato a trappole come questa. C’infilammo delle tute bianche di plastica.

    Venne un vecchio. Puzzava di urina e ammoniaca.

    Andatevene. Tra una settimana non riuscirete più a mangiare carne.

    Ce la faremo, dissi.

    Come no, disse.

    Non c’era di che stare allegri. Mi allontanai. Quel vecchio schifo m’aveva smosso qualcosa dentro. Era un distillato di negatività e angosce e starci troppo vicino poteva farti nascere nuove domande. Mentre io erano gli stimoli che cercavo. Quando raggiunsi il Curdo pensavo a come può essere facile con dieci biglietti da cento farsi capire dal mondo senza farsi tagliare la gola. D’improvviso, uscirono dalle baracche sparpagliate per tutto il piazzale. Assomigliavano a tante cavallette bianche pronte a cibarsi di maiali e pazzie. Parecchi di quegli uomini avevano grossi coltelli per le mani. E poi si cominciò. Uno dei negri abbassò la sponda, ne acchiappò uno con una specie di bastone alla cui estremità pendeva un lazo e iniziò a tirarlo verso la passerella. La bestia non sembrava ben disposta ma, dopo qualche secondo, scese. Tutto sommato non è difficile, pensai.

    Pare facile, dissi al negro.

    Aspetta a parlare, sogghignò quello.

    Quando il maiale scese sull’asfaltò iniziò il gran balletto. Il negro lo teneva fermo e cercava di trascinarlo, mentre altri tre uomini lo spingevano verso un piccolo spiazzo ricoperto di canali di scolo e tombini squadrati. Avevano tutti grembiuli in plastica, ma sotto erano in canottiera o in maglietta senza maniche. Avevano prosciutti al posto delle braccia. Infilai una sigaretta dietro l’orecchio e rimasi a osservarli. Dovevo imparare alla svelta. Quando arrivò un grasso cinese calvo, vidi il suino impazzire di panico. Non aveva scampo e lo sentiva. Attaccai a piangere. Tornarono a galla i ricordi di vecchie ingiustizie patite per mano della cattiveria altrui. Gli sfratti, le bollette non pagate, la famiglia sfasciata, le botte, le sbronze senza utilità, le miserie della civiltà e tante altre cose insieme. Il grasso cinese calvo riuscì a montare sul dorso del maiale. Con un solo, preciso fendente gli tagliò la gola. Il sangue sprizzò fuori come da un tubo rotto. Dopo, qualcuno gli sparò in fronte. Bestemmiai e m’accesi la sigaretta ancora scosso dai singhiozzi. Diedi due tirate, poi le lacrime la bagnarono e dovetti gettarla via. I negri e i cinesi mi guardavano. Alcuni ridevano, altri sembravano seriamente domandarsi se stessi facendo sul serio o se volevo soltanto fargli le scarpe, in un modo o in un altro. Magari facendo leva su facili sentimentalismi e sulla sensibilità del gran capo. Il cinese si avvicinò. La lama grondava ancora di un rosso sfavillante.

    "Ehi giovane, hai mai letto Sun Tzu, L’arte della guerra?"

    No.

    Dovresti. Aiuta.

    E andò via. Mi asciugai le lacrime. Ero un grosso inutile coglione. La vita mi aveva inchiappettato per tutta la vita e ora mi facevo scrupoli per un porco. Dovevo cavarmela, in qualche modo dovevo cavarmela. Ero sempre stato un treno nelle risse e ora piangevo come un poppante davanti a decine di uomini tosti come polenta surgelata. Andai dal negro con il bastone.

    Dai qua, dissi.

    Il negro sputò per terra. E sghignazzò. Gli strappai il bastone-lazo e quello mi venne addosso. Mise la fronte contro la mia. All’improvviso sentii la vecchia, sana rabbia di una volta incendiare il sangue. Ero il paladino delle cause perse.

    Con te ci vediamo dopo, dissi.

    Ci separarono. Il negro strillò qualcosa, ma non lo sentivo più. Arrivai al camion. Gli uomini si fermarono a osservare la scena. Bramavo la solitudine. Bramavo il sedile posteriore della mia Ford. Bramavo un sacco di altre cose, ma per il momento dovevo dimostrare di saperci fare con i suini indisciplinati. Sembrava che nient’altro importasse, al momento. Ne agganciai uno e tirai. Mi sorprese, venne fuori in modo docile. Iniziai a parlare con il maiale.

    "Avanti bello. Fidati di uno che razzola nella merda da prima che tu nascessi. Ti serve un nome. Ti chiamerò Napoleone, Napoleone era un piccolo maialino importante. Ha conquistato imperi, ha

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