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Il Guardacaccia
Il Guardacaccia
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E-book288 pagine3 ore

Il Guardacaccia

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Info su questo ebook

Il terzo volume dell'avvincente serie dei misteri di Slim Hardy.

John ”Slim” Hardy, ex soldato caduto in disgrazia ora diventato investigatore privato, sta attraversando un momento difficile, quando viene assunto dal ricco proprietario terriero Oliver Ozgood per scoprire l'identità di un misterioso ricattatore. L'uomo chiede una fortuna in cambio del suo silenzio. Afferma di essere Dennis Sharp, un vecchio dipendente di Ozgood, e minaccia di rivelare segreti che infangherebbero il nome della famiglia di Ozgood, mandando il patriarca in prigione. C'è un solo problema: Dennis Sharp è morto, ucciso dallo stesso Ozgood. In cerca di risposte, Slim si trasferisce nel remoto borgo rurale di Scuttleworth, nella contea del Devonshire, dove dovrà confrontarsi con demoni interni ed esterni, nel caso più impegnativo mai affrontato.
LinguaItaliano
EditoreTektime
Data di uscita5 mar 2023
ISBN9788835451617
Il Guardacaccia

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    Anteprima del libro

    Il Guardacaccia - Jack Benton

    1

    Il calcio fece male.

    Se non fosse stato per la secchiata d’alcol che aveva bevuto, sarebbe stato molto più doloroso, pensò Slim, piegandosi in due e tendendo ciò che restava dei muscoli militari del suo addome in attesa del colpo successivo.

    «Sta’ alla larga. Te l’ho detto e non te lo ripeterò».

    Le dita si chiusero ad afferrare Slim per la collottola. Un pugno serrato si alzò, stagliandosi contro la luce di un lampione. Slim si preparò al colpo che, quando arrivò, fece meno male di quanto si fosse aspettato. Si accasciò sul marciapiede, mentre il suo aggressore imprecava, scuotendo la mano.

    Questo era il guaio con le facce: erano solitamente più dure delle ossa di un pugno non allenato.

    L’uomo si allontanò lungo il vicolo, barcollando. Slim si levò a sedere, solo perché il coperchio metallico di un cassonetto lo colpisse al fianco, seguito da un sacco della spazzatura che gli rovesciò addosso una pioggia di resti alimentari puzzolenti, bucce di carota e pelle di pollo, che gli si attaccarono ai vestiti e al viso.

    «Se vuoi mangiare la nostra immondizia, accomodati! Ma se ti sorprendo a farlo un’altra volta, ti ritroverai in uno di questi sacchi. Mi sono spiegato?»

    Slim, accecato da una busta di carta piena di scarti di cucina non identificabili, annuì in quella che sperava essere la direzione giusta. Sentiva, quasi fosse un prurito ardente e inestinguibile, l’impulso irrefrenabile di dire qualcosa di sarcastico per irritare ulteriormente l’uomo, tuttavia resistette. Pochi istanti più tardi, il rumore di passi era scomparso. Slim si rimise faticosamente in piedi e tornò incespicando verso il canale.

    Davanti ai suoi occhi comparve Riverway Queen, la casa galleggiante fatiscente e reclinata su un fianco in cui ora viveva. Estrasse la chiave del lucchetto che aveva acquistato con i suoi ultimi spiccioli e aprì, spostando di lato il cartello PERICOLO: NON ENTRARE, in modo che tornasse al suo posto una volta richiusa la porta.

    Nell’oscurità, mise il lucchetto dal lato interno, quindi accese la piccola lampada a paraffina appesa a un gancio nel soffitto.

    Aveva avuto qualche difficoltà ad abituarsi all’angolo di inclinazione della barca, pendente verso il basso a sinistra. In fondo, nella parte più lontana, una pozza d’acqua sciabordava intorno alle gambe del tavolo e delle sedie, alzandosi e abbassandosi al variare della profondità del canale, ma la maggior parte dell’interno dell’imbarcazione era intatta. Non c’era niente che funzionasse, ma un divano letto pieghevole, appoggiato su alcuni libri fradici con la copertina rigida, era sufficientemente comodo; inoltre c’erano molti armadietti in cui riporre gli alcolici.

    Si tolse gli abiti e li gettò nel lavandino asciutto. L’indomani sarebbe stato giorno di bucato, specialmente ora che la sua camicia era imbrattata di sangue. Per il mattino era prevista pioggia, quindi nel pomeriggio l’acqua del canale sarebbe stata bella fresca. Anche se era abituato all’odore di muffa umida e pacciame (lavava nel canale i suoi vestiti e sé stesso, e il sapone era un lusso superfluo), tuttavia si sentiva bene quando era davvero pulito.

    Non aveva un bell’aspetto, nel piccolo specchio appeso sopra il lavabo. La lampada a paraffina lasciava nell’ombra metà del suo viso, ma un occhio appariva tumefatto. La sua barba era macchiata di sangue ed era tempo di accorciarla, o di raderla del tutto. Era cresciuta troppo, e questo non era mai un buon segno.

    Ricordò che, una volta, un vecchio amico gli aveva detto che i vagabondi erano invisibili e passavano inosservati agli occhi del mondo. Slim aveva scoperto che non era così. Negli ultimi sei mesi trascorsi dal suo sfratto, era stato aggredito tre volte, compresa quella sera. Uno di quegli attacchi era stato compiuto, senza eccessiva aggressività, da parte di un gruppo di amici che tornavano pavoneggiandosi da un locale notturno e che non avevano niente di meglio da fare; il secondo era stato condotto con molta più ferocia da un gruppo di altri mendicanti, perché aveva commesso il peccato di dormire nel territorio di qualcuno. I calci, i pugni, e persino il bastone usato da un’ombra barbuta non avevano fatto a Slim tanto male quanto temeva. Aveva scoperto che i corpi guarivano. Il cuore e la sua sensibilità erano molto meno resistenti.

    Prese dal frigorifero, che non funzionava, una birra tutt’altro che fredda e la stappò. Aveva un sapore pessimo (era scaduta, perché costava meno), però alleviò un po’ il dolore.

    Forse l’indomani avrebbe nuovamente smesso di bere. Ci aveva provato di recente: meno di due settimane prima aveva smesso per tre giorni, e lo aveva fatto così bene che si era lavato il vestito e si era presentato all’ufficio di collocamento per cercare un lavoro.

    Poi però era successo qualcosa. Aveva visto qualcuno che somigliava a qualcun altro o sentito una voce che gli ricordava quella di qualcuno che lo perseguitava e si era ritrovato in un pub, a bersi tutto ciò che restava del suo sussidio di disoccupazione.

    Riaprì il frigorifero e guardò la fila scura delle lattine. Il fatto che non le avesse ancora bevute tutte, che riuscisse a mantenere una scorta, senza dubbio era segno di autocontrollo.

    Non era così male, c’era ancora qualche speranza.

    Si sedette sul divano inclinato, sentendo ai suoi piedi il fastidioso scricchiolio della barca. In passato era già caduto più in basso: doveva continuare a vedere le cose positivamente e sognare, se non sperare, in qualcosa di meglio.

    Bevve un sorso di birra.

    Fu risvegliato da un ronzio vicino al viso. Slim stese il braccio per scacciare quella che, in un primo momento, credette essere una mosca, ma sotto le dita intirizzite dal freddo trovò il suo vecchio Nokia.

    Nonostante il suo torpore alcolico, fu divertito nel constatare che fosse carico, in una casa galleggiante senza elettricità. Poi ricordò di aver trascorso un’ora seduto nel bagno di un McDonald’s, con il cellulare collegato a una presa nel muro, aspettando una chiamata a proposito di un lavoro edile, che non era mai arrivata. Quando era successo? Due, tre giorni prima? Affannandosi per premere il pulsante di risposta, Slim si sforzò di sorridere: era un bene che non ricevesse molte telefonate.

    «Pronto?»

    «Slim, sei tu? Hai una voce orribile».

    «Che c’è di nuovo? Come stai, Kay?»

    Il vecchio commilitone di Slim, che ora lavorava come traduttore forense, rise.

    «Io sto bene, Slim, come sempre. Ma tu, davvero, come stai?»

    «Non è stata la migliore delle settimane, ma oggi è domenica, no? Domani si ricomincia».

    «Slim, oggi è lunedì».

    «Be’, come ti dicevo non è stata la migliore delle settimane».

    Kay rise a quello che sembrava essere uno scherzo. Slim si limitò a sorridere al telefono, desiderando che il suo mal di testa scomparisse.

    «Mi chiedevo se avessi un po’ di tempo a disposizione», disse Kay.

    A quell’ironia, Slim increspò le labbra.

    «Probabilmente posso trovarlo», rispose.

    «Mi ha chiamato un conoscente che ho incontrato durante la mia ultima missione», spiegò Kay. «Vuole che qualcuno indaghi su un tentativo di ricatto».

    «Potrebbe informare la polizia», replicò Slim. «In realtà non è il mio campo».

    «Non vuole che se ne occupi la polizia», disse Kay. «So che puoi farlo, Slim, sono sicuro che puoi aiutarlo».

    «Che cosa fa di questo caso il tipo di pasticcio che potrebbe interessarmi?»

    «L’uomo su cui indagare è morto da sei anni, il mio contatto vorrebbe sapere come sia possibile».

    Slim sospirò.

    «Facile: morte simulata, cambio di identità. Succede ogni giorno. Perché il tuo conoscente è certo che il tizio sia morto?»

    Seguì una lunga pausa, tanto che Slim cominciò a pensare che Kay avesse riattaccato; infine sentì un lieve sospiro e capì.

    «Dimmelo, Kay. Credimi, non sono molte le cose che possono sconvolgermi. Come lo sa, il tuo contatto, che il suo uomo è morto?»

    «Perché afferma di averlo ucciso lui stesso».

    2

    L’uomo che si faceva chiamare Ollie Ozgood non sembrava un assassino. A Slim, con il suo viso affabile nascosto dietro un velo di barba bionda, ricordava piuttosto un pescatore dell’Europa Orientale, o il genere di operaio edile colto che azionasse macchinari pesanti in una cava. Sembrava tecnicamente istruito, ma non tanto diabolicamente intelligente da farla franca con un omicidio. Tuttavia, Slim sapeva che a volte le apparenze ingannano.

    I suoi occhi freddi scrutavano ogni suo movimento, mentre Slim apriva tre bustine di zucchero e le scioglieva in un caffè tanto denso da coagularsi sul cucchiaino.

    «È un alcolizzato?», domandò Ozgood.

    «In fase di recupero», replicò Slim, «non bevo da nove ore. Da qualche parte bisogna pur cominciare, no? Non è neppure la prima volta, ci sono abituato».

    Ozgood indicò la tazzina con la testa: «Sta sostituendo una dipendenza con un’altra?»

    Slim scrollò le spalle.

    «Se, dal sapore, non sembra preparato da una settimana e lasciato ad asciugare al sole, non è un’esperienza memorabile».

    Sollevò la tazza, bevve un sorso e fece una smorfia: «Orribile, proprio come piace a me».

    «Quando il nostro comune amico mi ha fatto il suo nome, mi aspettavo qualcuno di diverso».

    «Se serve, posso indossare un impermeabile e un cappello», disse Slim. «Se vuole che fumi sigari, glieli addebiterò sul conto. Ora però vorrei sapere perché questo tale è tornato dal mondo dei morti».

    «Non posso iniziare dal principio, perché non so quale sia», rispose Ozgood. «Per andare sul sicuro, comincerò da un punto intermedio e continuerò da lì».

    Slim annuì.

    «Faccia come ritiene opportuno».

    Ozgood si girò sulla sedia, indicando i terreni al di là del terrazzo su cui erano seduti e le case sparse che spuntavano dal mosaico verde dei campi, come se fossero nate dai loro semi.

    «Sono l’ultimo discendente di una famiglia di proprietari terrieri. Quasi tutto ciò che vede mi appartiene, e se non mi appartiene è perché non ne vale la pena».

    Slim indicò un campanile grigio che svettava al di là di una macchia d’alberi, appena sotto la cresta della collina, dietro la valle boscosa ad ovest.

    «Anche quella chiesa?»

    Ozgood sorrise.

    «Quella rientra per l’appunto nella seconda categoria. A quanto dicono tutti, ultimamente alle celebrazioni della domenica mattina ci sono meno di venti persone. Non ci si può ricavare denaro, ma la gente del posto è contenta. Il camposanto adiacente, invece, è terra in affitto. Mio nonno era un uomo d’affari e comprò tutto ciò che poteva permettersi, certo che un giorno avrebbe acquistato valore. Lui non ne vide mai i profitti, ma mio padre mantenne il patrimonio, e dopo la sua morte ho seguito le sue orme. Forse un uomo più intelligente ne avrebbe venduto la gran parte, ma io sono sicuro che l’attuale clima economico migliorerà prima che finiamo tutti sul lastrico».

    Slim gettò un’occhiata ai tre piani della casa signorile che si ergeva alle sue spalle e si chiese se Ozgood avesse la più pallida idea di che cosa fosse davvero la povertà.

    «Kay dice di averla conosciuta nell’esercito», disse.

    Ozgood annuì.

    «Commettevo la tipica sciocchezza di voler dimostrare di valere qualcosa. Dopo un paio di missioni dovetti accettare che la ricchezza ereditata dalla mia famiglia mi avrebbe sempre contraddistinto, che mi piacesse o meno. Inoltre, non mi andava che mi sparassero addosso. Non si dice che le guerre sono combattute dai poveri per avvantaggiare i ricchi? Be’, non è per vantarmi, ma rientro nella seconda categoria».

    Slim increspò le labbra: «E io nella prima».

    Gli occhi di Ozgood non avevano mai lasciato il viso di Slim: «Allora siamo entrambi vittime delle circostanze. Come dire… fratelli d’armi».

    «Avremmo potuto esserlo, se avessi agito meglio, ma anche in questo ho fallito».

    Il sorriso di Ozgood era più freddo di un vento gelido che spirasse dal mare.

    «Preferisco di gran lunga lavorare con uomini vulnerabili: è molto più facile fidarsi di loro».

    «Sono impenetrabili», assentì Slim.

    Tornò a guardare la casa di campagna che si innalzava dietro di lui in tutto il suo splendore. Villa Ozgood sorgeva nel punto d’incontro tra le due valli che si aprivano sui lati. Situata al centro di venti acri di giardini, era il tipo di posto che la maggior parte delle persone vedeva soltanto in occasione delle visite del National Trust. Slim sentì di aver parlato chiaro, portando il proprio caffè.

    «Inoltre», aggiunse Ozgood dopo una lunga pausa, «non mi è mai piaciuta l’idea di uccidere qualcuno».

    Slim valutò il modo migliore per porre la prossima domanda, ma non c’era modo di aggirarla: lui sapeva dell’omicidio, e Ozgood ne era consapevole.

    «Ora però ha scoperto come ci si sente. A quanto pare, lei ha ucciso con le sue mani l’uomo che ora sta cercando di ricattarla. Che cosa può dirmi?»

    Ozgood si appoggiò allo schienale della sedia e si strofinò il mento con aria pensierosa.

    «Mi chiedevo quando me lo avrebbe domandato, signor Hardy».

    «Sono convinto che le cose peggiori vadano affrontate subito, così poi si può passare oltre», disse Slim. «È la prima volta che lavoro per un assassino, ma è una sfida che non sono nella posizione di rifiutare».

    Nel sentire la parola assassino, Ozgood sussultò. Assunse un’espressione corrucciata, strinse gli occhi e si massaggiò le tempie, come per scacciare un improvviso mal di testa.

    Senza alzare né riaprire gli occhi, disse: «So tutto della sua condanna».

    Slim inarcò un sopracciglio: «Come, scusi?»

    Ozgood sollevò lo sguardo e fissò Slim tanto a lungo che questi si chiese se dovesse guardare altrove. Alla fine fu Ozgood a distogliere gli occhi, ma in un modo stanco e indifferente che non lasciò a Slim un senso di vittoria, ma solo l’impressione che gli fosse stato tolto per qualche tempo un cappio intorno al collo.

    «So che è stato congedato dall’esercito per aver aggredito un uomo con un rasoio», commentò Ozgood. «Pare che avesse una storia con sua moglie. È vero?»

    «Così credevo».

    «E lei ha tentato di ucciderlo».

    Slim annuì: «Fortunatamente per entrambi, ho fallito».

    «Allora, prima che le dica ciò che sto per dirle, voglio che sappia che non è moralmente migliore di me, giusto per mettere le cose in chiaro. E questo è uno dei motivi per cui credo che lei sia perfetto per questo caso».

    «Capisco».

    «Bene». Ozgood si sistemò sulla sedia. Sorseggiò il caffè e sorrise: «Un uomo chiamato Dennis Sharp viveva e lavorava nelle mie terre. Nello specifico, si occupava dei boschi. Suppongo che la sua professione fosse quella del guardacaccia, ma in pratica era piuttosto un tuttofare. Viveva nella mia tenuta e faceva tutto quello che gli chiedevo. Pensavo che fosse un uomo perbene e mi fidavo di lui finché, una notte di oltre sei anni fa, non aggredì mia figlia, che all’epoca aveva sedici anni».

    Slim si limitò ad annuire. Prese la tazza e bevve un sorso.

    «Avrebbe dovuto pensarci la polizia», continuò Ozgood, «almeno inizialmente. Sono un uomo che rispetta la legge, dopotutto. Purtroppo, il tempo trascorso tra il fatto e le indagini giocava a favore di Dennis Sharp».

    «Che accadde?», domandò Slim.

    «Il caso fu chiuso e Sharp si credette un uomo libero».

    Ozgood sospirò, si appoggiò allo schienale e guardò lontano: «Non lo era. Non avrebbe mai potuto esserlo, no? Non dopo quello che aveva fatto».

    «Così lei decise di occuparsene di persona?»

    Ozgood sollevò un dito e lo appoggiò alle labbra, come se volesse baciarlo. Poi si massaggiò la base del mento con il pollice.

    «Se qualcuno mi deve qualcosa, me lo paga», disse. «Dennis Sharp ha pagato con la vita».

    «Come?»

    «Nel corso di una revisione, alla sua auto vennero fatte alcune modifiche. La frizione cedette a una svolta, lungo la strada ripida che scende verso quella valle laggiù».

    Ozgood non additò, ma accennò lievemente con la testa verso la spaccatura boscosa oltre i campi coltivati, a nordovest.

    «L’auto uscì di strada e si schiantò contro una roccia. Stando alla relazione del medico legale, lui rimase ucciso sul colpo».

    «E lei è certo che sia morto?»

    «La polizia ricevette una chiamata anonima, che però non lo era per chi la fece», spiegò piuttosto cripticamente Ozgood, come se stesse interpretando un ruolo attivo nel gioco che il ricattatore aveva deciso di iniziare: «La polizia mi contattò, e più tardi vidi il suo corpo. Per essere sicuro, gli toccai il collo per controllare che non ci fossero pulsazioni. Ora, dopo sei anni, ho cominciato a ricevere messaggi da qualcuno che pretende di essere Dennis Sharp e chiede denaro minacciando di denunciarmi, non solo per la parte che avrei avuto nella sua morte, ma anche per altri presunti crimini».

    Ozgood si alzò, raggiunse il margine della terrazza, quindi si girò e continuò a camminare nel senso opposto. Slim lo osservava, cercando di farsene un’idea. Era evidente che Ozgood non era un uomo da sfidare: era piuttosto qualcuno che, sotto un amichevole guscio esterno, nascondeva un nocciolo duro come

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