Il Potere del Cervello Plastico: Conoscenze, teorie, metodi e comportamenti per una vita più sana e longeva
Di Daniele Bova
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È stato dimostrato che il nostro cervello risulta dotato di questa specifica proprietà di adattamento e riconfigurazione a livello neurologico e sinaptico e che questa capacità dura per tutta la vita, non avendo quindi mai fine il processo neuroevolutivo.
Questo libro è il risultato di anni di studi e ricerche dell’autore ed è basato sulla sua Tesi di Laurea Magistrale in Psicologia Cognitiva e Comportamentale.
L’autore da un parte porta in rassegna da un punto di vista teorico e concettuale quanto risulta essere dimostrato agli esiti della più recente ricerca scientifica e, dall’altra parte, intende offrire spunti e modelli interpretativi innovativi circa le possibilità di condizionare in modo positivo l’evoluzione dell’uomo, in funzione di un invecchiamento attivo e sano, non solo caratterizzato da assenza o riduzione di condizioni patologiche ma anche da un orientamento costante verso obiettivi di benessere psicofisico e di longevità.
Nel libro viene dimostrato come sia possibile condizionare in maniera plastica l’ottimale funzionamento di tutte le funzioni vitali e cognitive dell’essere umano e per tutto l’arco della vita. Sono ampiamente analizzate nel testo le teorie più significative sul tema dell’invecchiamento, con particolare riguardo ai modelli più recenti che prendono in considerazione le possibilità di beneficiare delle potenzialità del cervello plastico per contrastare il declino fisiologico delle funzioni cognitive e favorire il perseguimento di obiettivi di salute e benessere anche in tarda età (invecchiamento attivo e di successo) ovvero lo sviluppo di trattamenti e interventi per fronteggiare l’invecchiamento patologico. In particolare vengono illustrati i modelli più recenti di contrasto al deterioramento delle funzioni cognitive. Si descrivono ruolo e potenzialità degli stili di vita e di strategie comportamentali quali motori della plasticità per un invecchiamento sano e positivo. L’autore descrive e spiega anche i principali fattori che contribuiscono a generare una plasticità positiva o negativa. Viene data anche attenzione al ruolo delle emozioni e del “vissuto emozionale” connesso alle esperienze individuali (conflitti, traumi, esperienze infantili significative, stress in gravidanza) e alle possibili implicazioni positive dei trattamenti finalizzati alla ri-elaborazione di detti eventi. L’autore analizza il rapporto tra plasticità cerebrale e pratiche terapeutiche convenzionali e non; in primo luogo ovviamente la psicoterapia, dinamica o cognitivo-comportamentale ma anche tecniche di rilascio emozionale, EMDR, desensibilizzazione, tecniche immaginative, PNL, pratiche meditative, Ipnosi e tecniche psicoenergetiche. L’obiettivo che intende perseguire, in una prospettiva che integra principi e conoscenze di Neuroscienze, PNEI ed Epigenetica, è quello di ripensare la vita (e il cervello umano) in chiave dinamica, ipotizzando modelli e possibilità di sviluppo della persona sulla base di interventi clinici, psicoterapeutici e psicoenergetici che consentano di riconfigurare le connessioni sinaptiche in funzione adattiva e migliorativa.
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Anteprima del libro
Il Potere del Cervello Plastico - Daniele Bova
Introduzione
Il tema della plasticità cerebrale risulta sicuramente centrale e determinante nel campo della ricerca neurologica e psicologica. Se è vero che ha origini lontane nel tempo il dibattito accademico sul ruolo più o meno statico
del cervello umano e sul peso più o meno rilevante di fattori quali l’ambiente e la genetica sui processi psico e neuropatologici, è pur vero che le più recenti scoperte nelle Neuroscienze e il trasversale riconoscimento a livello scientifico del fenomeno della plasticità cerebrale
, offrono un contributo straordinario a modelli e nuove ipotesi applicative.
L’introduzione del concetto di plasticità, intesa come capacità del cervello e delle strutture neurologiche connesse di adattarsi e modificarsi in funzione delle stimolazioni ambientali, rappresenta in modo indiscutibile una rivoluzione copernicana
non solo nella disciplina di riferimento, le Neuroscienze, ma anche nei vari ambiti di studio collegati: la Psicologia dei cicli di vita, la Psicologia dell’Invecchiamento, la Psicologia Clinica, la Psicologia Cognitiva Comportamentale applicata, la Psicoterapia.
Si assiste alla fine del dogma
tanto caro alla tradizione mendeliana, vale a dire il determinismo genetico e la fede assoluta nell’immodificabilità della struttura cerebrale in funzione della trasmissione ereditaria e del corredo genetico; ma la portata più ampia di queste rivoluzionarie scoperte è data, in particolare, dal superamento del concetto stesso di periodo critico
, che vedeva lo sviluppo del cervello e del sistema nervoso come un processo evolutivo di cui era possibile riscontrare un periodo massimo e un successivo, costante e inarrestabile declino.
Molti ricercatori erano convinti che la plasticità cerebrale fosse una caratteristica specifica del cervello nella sua fase di formazione e sviluppo. Era stato infatti dimostrato che nel corso della gestazione e nei primi anni di vita il sistema nervoso centrale degli esseri umani manifestasse le più grandi trasformazioni, con produzione e sfoltimento di miliardi di neuroni. Era considerato un principio indiscutibile che il processo di sviluppo neuronale, a partire dalle attività di divisione cellulare dei neuroblasti, fosse limitato alle fasi iniziali dello sviluppo e che quindi il bagaglio
neuronale non potesse subire modificazioni successivamente nel corso della vita. In realtà, è stato dimostrato che il nostro cervello risulta dotato di quella specifica proprietà di adattarsi, modificarsi e riconfigurarsi a livello neurologico e sinaptico, per tutta la vita e che quindi il processo neuroevolutivo non ha mai fine. In sostanza, la plasticità cerebrale rappresenta il vero motore
dello sviluppo e dell’evoluzione dell’uomo e della specie umana, definendone appunto le caratteristiche dinamiche e adattive rispetto alle modificazioni interne ed esterne. Gli studi e le scoperte, in quest’ottica, devono essere lette in modo integrato rispetto ad altri importanti ambiti di ricerca e settori disciplinari. Appare certamente indispensabile ampliare le prospettive interpretative sulla base di quanto dimostrato in altri innovativi modelli di studio, basati per esempio sulle scoperte in tema di Epigenetica o sulle ipotesi di studio sostenute dalla Psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI).
In particolare, le scoperte e le più recenti innovazioni introdotte nelle Neuroscienze consentono di dare un supporto scientifico, oltre a nuove prospettive, al dibattito culturale che da sempre ha contraddistinto scuole di pensiero e autori, non solo nella Psicologia, uscendo da una dimensione a valenza prettamente filosofica e garantendo il superamento della visione dicotomica tra predominio dei geni e prevalere dell’esperienza nei processi evolutivi e/o patologici.
Plasticità cerebrale ed Epigenetica sono temi di portata rivoluzionaria proprio perché consentono di analizzare in modo diverso il ruolo delle esperienze di vita e delle stimolazioni ambientali rispetto all’evoluzione biologica nei vari cicli di vita dell’individuo. Gli studi condotti prima sugli animali e successivamente anche sugli uomini e, soprattutto, l’introduzione nel campo della ricerca sperimentale delle più moderne tecniche di Neuroimaging, hanno consentito di arrivare a conclusioni prima inimmaginabili, inserite in modelli validati scientificamente e non esclusivamente appannaggio di impostazioni teoriche. Questi concetti innovativi uniscono in sostanza trasversalmente i modelli di studio teorici, da quelli filosofici a quelli psicologici e antropologici, con i modelli della ricerca empirica applicata e della pratica clinica.
Se gli ultimi decenni di studi hanno dimostrato che il nostro cervello è in continua e dinamica evoluzione e adattamento all’ambiente, risulta fondamentale ampliare i campi di ricerca sulle possibilità di sfruttare
queste proprietà del cervello al fine di garantire il miglior perseguimento possibile dell’obiettivo di salute. E, ovviamente, si deve entrare in un’ottica di salute positiva nella prospettiva di impostazione olistica e biopsicosociale, al di là di quella visione ormai obsoleta e superata di tipo meccanicistico o bio-medico.
In quest’ottica il presente lavoro intende da un parte sistematizzare da un punto di vista teorico e concettuale quanto risulta essere dimostrato agli esiti della più recente ricerca scientifica e, dall’altra parte, offrire spunti e modelli interpretativi innovativi circa le possibilità di condizionare in modo positivo l’evoluzione dell’uomo, in funzione di un invecchiamento attivo e sano, non solo caratterizzato da assenza o riduzione di condizioni patologiche ma anche da un orientamento costante verso obiettivi di benessere psicofisico. Nel primo capitolo si descrive lo sviluppo delle teorie che hanno portato le Neuroscienze alle conoscenze attuali in tema di funzionamento del sistema nervoso e di plasticità cerebrale. Nel secondo capitolo si prende in esame il concetto di periodo critico e di periodo sensibile e si illustrano le più recenti scoperte che le tecniche di neuroimaging hanno permesso di raggiungere nelle Neuroscienze; particolare attenzione viene data alle ricerche più importanti che hanno portato a rivoluzionare
i concetti di plasticità, superando la visione deterministica e il modello di periodo critico o di plasticità esclusiva nel periodo dello sviluppo e della maturazione. Nel terzo capitolo vengono presi in esame i modelli teorici che spiegano il funzionamento delle funzioni cognitive, mnestiche e di apprendimento, con l’obiettivo di dimostrare le possibilità di condizionare in maniera plastica l’ottimale funzionamento di queste funzioni per tutto l’arco della vita. Il quarto capitolo è dedicato all’invecchiamento, alla storia delle teorie sull’invecchiamento con particolare riguardo ai modelli più recenti che prendono in considerazione le possibilità di beneficiare delle potenzialità del cervello plastico per contrastare il declino fisiologico delle funzioni cognitive e favorire, da una parte il perseguimento di obiettivi di salute e benessere anche in tarda età (invecchiamento attivo e di successo) e, dall’altra parte, lo sviluppo di possibilità di trattamento e di interventi di recupero per fronteggiare l’invecchiamento patologico. In particolare vengono illustrati i modelli più recenti di contrasto al deterioramento delle funzioni cognitive. Si descrivono ruolo e potenzialità degli stili di vita e di strategie comportamentali quali motori della plasticità per un invecchiamento sano e positivo. Nel quinto capitolo vengono descritti i principali fattori che contribuiscono a generare una plasticità positiva o negativa. Viene data anche attenzione al ruolo delle emozioni e del vissuto emozionale
connesso alle esperienze individuali (conflitti, traumi, esperienze infantili significative, stress in gravidanza) e alle possibili implicazioni positive dei trattamenti finalizzati alla ri-elaborazione di detti eventi; in primo luogo ovviamente la psicoterapia, dinamica o cognitivo-comportamentale ma anche tecniche di rilascio emozionale, EMDR, desensibilizzazione, tecniche immaginative etc. Nel sesto capitolo si analizza il rapporto tra plasticità cerebrale e pratiche terapeutiche non convenzionali (Programmazione Neuro Linguistica, Ipnosi, Meditazione, EFT Tapping e Tecniche Psicoenergetiche). In particolare si descrivono alcuni dei principali effetti che si ottengono grazie all’utilizzo di queste tecniche a livello cerebrale e del Sistema Nervoso, come dimostrato alla luce di numerosi studi e ricerche scientifiche. L’obiettivo che si intende perseguire, in una prospettiva che integra i principi della PNEI e dell’Epigenetica, è quello di ripensare la vita (e il cervello umano) in chiave dinamica, ipotizzando modelli e possibilità di sviluppo della persona sulla base di interventi clinici, psicoterapeutici e psicoenergetici che consentano di riconfigurare le connessioni sinaptiche in funzione adattiva e migliorativa.
Capitolo 1
Plasticità cerebrale e Neuroscienze
Plasticità cerebrale: storia e concetti generali
Per ripercorrere la storia concettuale relativa alla plasticità cerebrale non si può non far riferimento a quel dibattito centrale nel campo della filosofia sul tema della conoscenza, che ha sempre visto due posizioni contrastanti: quella tra innatismo ed empirismo. Già nel V secolo a.C. Platone sosteneva che il patrimonio cognitivo che contraddistingue l’uomo fosse innato e, quindi, già presente alla nascita e trasmesso geneticamente. Secondo invece Aristotele, la conoscenza è il risultato di processi di apprendimento che avvengono successivamente alla nascita. È però soltanto con l’evoluzione delle conoscenze in campo neurologico, nella fisiologia e nella biologia umana e, soprattutto, con l’introduzione di innovativi strumenti di neuroimaging e di indagine diagnostica, che l’argomento cessa di essere relegato a discussione accademica e filosofica per diventare oggetto di studio scientifico e di pratica clinica, in una logica interdisciplinare. Le scoperte degli ultimi due secoli hanno consentito di studiare le funzioni cognitive (e quindi la conoscenza umana) sulla base di un approccio biologico e neuroanatomico, considerando la possibilità di indagare il sistema cognitivo sperimentalmente e a più livelli. L’antica contrapposizione tra innatisti ed empiristi è stata in qualche modo superata dalla nozione «che il sistema cognitivo proprio della specie umana è la risultante di due processi che s’intrecciano, modellando sia l’anatomia sia le caratteristiche funzionali del sistema nervoso: evoluzione e sviluppo»¹. In questo senso, l’evoluzione sarebbe il risultato di un processo di differenziazione della specie che necessita di milioni di anni di tempo, mentre lo sviluppo cognitivo e neurologico sarebbe caratterizzato dall’organizzazione dinamica delle strutture neurocerebrali descritte dal fenomeno della plasticità. Se è vero che lo sviluppo è il risultato di un processo di adattamento e apprendimento che si genera in risposta alle stimolazioni ambientali che avvengono nel corso della vita e delle esperienze definite a livello temporale, è pur vero che questi stessi processi risultano condizionati da risorse e caratteristiche innate, sia a livello individuale che di specie.
L’approccio innatista attribuisce particolare importanza a fattori causali
nella determinazione della strutturazione neuronale. Alcuni studiosi² sostengono la differenziazione individuale, anche interspecie, riferendosi alla specifica configurazione genetica che condizionerebbe lo sviluppo cerebrale e la struttura neuronale a prescindere dall’ambiente in cui il soggetto nasce e cresce. Tali studiosi hanno per esempio evidenziato le differenze neuronali che è possibile riscontrare anche in gemelli omozigoti che condividono lo stesso ambiente. Diversi studi condotti sul tema negli ultimi due secoli possono essere raggruppati in due filoni di ricerca: uno che si è orientato a verificare le differenze nello sviluppo cerebrale tra le varie specie, focalizzandosi sul diverso sviluppo in termini neuronali e strutturali nelle varie fasi evolutive del cervello, tra esseri umani e specie animale; un secondo filone ha portato avanti studi empirici per verificare, tanto sugli animali quanto sugli uomini, gli effetti anatomici e neurologici conseguenti determinate stimolazioni ambientali. Per quanto riguarda il primo ambito di ricerca è importante sottolineare come le differenze più importanti riscontrate tra il cervello umano e quello per esempio degli scimpanzé non è tanto nel numero di neuroni presenti nella corteccia cerebrale (che sarebbe superiore nell’uomo solo di 1.25 volte)³, ma piuttosto nella ramificazione di dendriti, assoni e cellule gliali che risulta determinante nel processo di sinaptogenesi e mielinizzazione tipico delle varie fasi di sviluppo del cervello umano. A prescindere dalla quantità di neuroni, è stato dimostrato quanto sia importante nello sviluppo cerebrale il ruolo di queste strutture in quanto proprio i terminali assonici e le spine dendritiche sono fondamentali per garantire le comunicazioni tra le diverse aree del cervello, a livello corticale e subcorticale oltre a rendere possibile le configurazioni sinaptiche e il complesso network di circuiti neuronali. In tal senso è utile evidenziare che la densità dei dendriti e lo spessore delle spine siano indicatori molto importanti della forza delle connessioni sinaptiche⁴. Come si vedrà più avanti, un elemento determinante della plasticità cerebrale è dato proprio dalla differente capacità dell’uomo di maturare (e successivamente riconfigurare) le strutture sinaptiche responsabili della comunicazione delle informazioni
all’interno del sistema nervoso. Molteplici studi hanno analizzato le differenze tra fasi di sviluppo delle sinapsi e relative connessioni sia tra specie diverse che tra le varie fasi di evoluzione del cervello umano. In particolare, è stato dimostrato che il processo di maturazione dei circuiti neuronali e connessioni sinaptiche (sinaptogenesi) è maggiore nelle prime fasi dello sviluppo (prenatale e postnatale), riducendosi progressivamente a partire dagli anni dell’adolescenza, seppur con differenze anche sostanziali tra le varie aree corticali. Parimenti è stato verificato che «la lunghezza del processo maturativo delle sinaptogenesi nella specie umana rispetto a quella osservata in altri primati, che si esaurisce pochi mesi dopo la nascita, può essere indice della presenza di un meccanismo potenziale legato all’emergere di un comportamento mediato culturalmente»⁵. In quest’ottica si spiegherebbe la maggior condizionabilità ambientale dello sviluppo cerebrale e delle conseguenze comportamentali nell’uomo rispetto agli altri esseri viventi. È pur vero che le prime grandi scoperte sui modelli di apprendimento erano state raggiunte attraverso ricerche sugli animali, dimostrando proprio per mezzo di esperimenti svolti su topi, scimmie e conigli, quanto l’addestramento allo svolgimento di specifici compiti potesse determinare modificazioni strutturali importanti a livello di dendriti e sinapsi.
Già nella seconda metà del XVIII secolo Vincenzo Giacinto Malacarne era arrivato alla conclusione, sulla base dei suoi studi su coppie di cuccioli nati da stessi genitori, che i cervelli degli animali sottoposti a esercizi e compiti ripetuti presentavano un maggiore sviluppo delle circonvoluzioni cerebrali rispetto agli animali che avevano ricevuto minori sollecitazioni ambientali. Intuizioni simili portarono intorno al 1874 anche Darwin a osservare il differente volume del cervello tra animali posti in cattività da generazioni e animali della stessa specie ma abituati a vivere liberamente nel loro habitat naturale. Il famoso scienziato britannico dimostrò che il cervello del coniglio selvatico, sottoposto a maggiori sollecitazioni ambientali, fosse più grande rispetto a quello del coniglio domestico⁶.
Un aspetto centrale nelle ricerche era la dimostrazione che lo stesso genere umano potesse, attraverso processi di apprendimento, acquisire conoscenze e abilità anche al di là di quanto trasmesso a livello genetico.
Un passaggio importante nell’introduzione del concetto di plasticità neuronale va sicuramente attribuito a William James che nella sua opera Principi di Psicologia
del 1890, nonostante ancora non fossero note le modalità di trasmissione delle informazioni nervose mediante le sinapsi, si riferì per la prima volta alla possibilità che i collegamenti neuronali potessero stabilizzarsi per effetto del loro utilizzo e, inoltre, che diversi neuroni attivati contemporaneamente potessero garantire un’associazione funzionale. James aveva intuito che si stabilivano comunicazioni nervose a partire dagli stimoli sensoriali e che dette comunicazioni lasciavano delle tracce
all’interno del sistema nervoso. Così scriveva: «Quando uno stimolo sensoriale arriva alla corteccia cerebrale, si connette con un effettore, e nel suo percorso lascia tracce. Se la stimolazione è ripetuta, si stabilisce un processo di rinforzo delle connessioni già tracciate o la formazione di nuove. La plasticità, quindi, nel senso più ampio del termine significa l’esistenza di una struttura in grado di essere modificata in seguito a stimolazioni ripetute. All’interno di tale struttura, ogni fase, relativamente stabile, di equilibrio è caratterizzata dal risultato di un nuovo processo di abituazione»⁷.
Negli stessi anni venivano svolte importanti ricerche che si rivelarono fondamentali per lo sviluppo delle moderne Neuroscienze⁸. Un Istologo dell’Università di Pavia, Camillo Golgi, utilizzando un metodo di sua invenzione, il metodo di impregnazione all’argento, ipotizzò l’esistenza di una rete nervosa di cellule circondate da estensioni di forma irregolare. Successivamente Santiago Ramòn y Cajal, proprio attraverso esperimenti condotti con il metodo di Golgi, formulò la Dottrina del Neurone
, secondo la quale i neuroni sarebbero collegati tra di loro non in una soluzione di continuità ma per contiguità sussistendo spazi di separazione tra un neurone e l’altro. Inoltre gli esperimenti svolti consentirono a Ramòn y Cajal di identificare gli elementi strutturali del neurone, distinguendo il corpo cellulare, i dendriti e gli assoni. Il ricercatore individuò anche il verso di trasmissione degli impulsi nervosi, dai dentriti al corpo cellulare e, a partire da quest’ultimo, dagli assoni ad altri neuroni. Le teorie di Ramòn y Cayal sono state determinanti per ribaltare quanto all’epoca sostenuto, che la struttura cerebrale fosse immodificabile e geneticamente determinata. Infatti il ricercatore era arrivato alla conclusione che le informazioni nervose, attraverso trasmissioni di natura elettrica, generassero connessioni tra neuroni in grado di adattarsi e modificarsi in funzione dell’esercizio e, in generale, delle attività mentali. Era stato scoperto un principio di grande importanza: la stimolazione ambientale, ripetuta nel tempo, era in grado di determinare delle variazioni a livello delle connessioni corticali, con particolare riguardo all’ampiezza delle ramificazioni dendritiche e, dunque, alla capacità di potenziare la trasmissione elettrica degli impulsi nervosi.
Le scoperte di Ramòn y Cayal e l’ipotesi di una nuova teoria cellulare del neurone, avevano permesso di superare la teoria reticolare in base alla quale le fibre nervose comunicassero per continuità; non erano però ancora riuscite a spiegare le modalità di propagazione del segnale nervoso. Per rispondere a questo quesito si deve far riferimento agli studi di due ricercatori britannici, vincitori del Nobel per la Medicina nel 1932, Edgar Douglas Adrian e Charles Scott Sherrington. Adrian, attraverso gli esperimenti svolti prima su conigli e poi su rospi, aveva dimostrato la natura elettrica della trasmissione degli impulsi nervosi. In particolare, identificò i meccanismi di comunicazione tra i neuroni a partire dalle proprietà strutturali degli stessi. Il neurone risulta dotato da un lato di una carica elettrica positiva al di fuori dalla membrana che lo riveste e, dall’altro lato, all’interno della cellula, di una carica negativa. La differente concentrazione di ioni (dotati di carica elettrica) ai lati della membrana determina la carica positiva o negativa. Per effetto degli stimoli che riceve il neurone, varia la concentrazione degli ioni