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Vivere è un’arte: Manuale di psicologia dell’invecchiamento
Vivere è un’arte: Manuale di psicologia dell’invecchiamento
Vivere è un’arte: Manuale di psicologia dell’invecchiamento
E-book852 pagine9 ore

Vivere è un’arte: Manuale di psicologia dell’invecchiamento

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Il manuale offre una panoramica completa ed aggiornata sulla psicologia dell’invecchiamento per migliorare la qualità della vita delle persone anziane e delle persone che se ne prendono cura.
È indirizzato agli studenti di psicologia, agli amministratori e operatori socio-sanitari, agli anziani, alle loro famiglie, ma anche ai giovani («una buona vecchiaia si prepara fin da giovani»).
Il libro è inoltre indirizzato ai conduttori della Palestra di Vita, in quanto contiene l’aggiornamento del metodo.
La vita è la più grande delle avventure, prendersene cura è il mestiere più appassionante.
LinguaItaliano
Data di uscita24 ago 2022
ISBN9788869298660
Vivere è un’arte: Manuale di psicologia dell’invecchiamento
Autore

Pietro Piumetti

Psicologo psicoterapeuta del Consorzio Socio-Assistenziale del Cuneese, professore a contratto di «La terza età: aspetti psicologici e psicopatologici» presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute – Dipartimento di Psicologia – Università degli Studi di Torino; docente di «Psicologia Gerontologica» presso il Corso di Laurea in Psicologia della Comunicazione della SSF Rebaudengo di Torino (Università Pontificia Salesiana); Direttore Scientifico del Corso di Perfezionamento in Psicologia dell'Invecchiamento con il Metodo Palestra di Vita presso la suddetta Università.

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    Vivere è un’arte - Pietro Piumetti

    Copertina del libro Vivere è un’arteCopertina del libro Vivere è un’arte

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    Indice

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    Colophon

    Pietro Piumetti

    Vivere è un’arte

    Manuale di psicologia dell’invecchiamento

    Effatà Editrice logoFoto in bianco e nero di Pietro Piumetti

    A mio nonno paterno Pietro Piumetti

    (26 ottobre 1889 — 17 novembre 1976).

    L’onestà è stata il suo ideale,

    il lavoro la sua vita,

    la famiglia il suo affetto.

    Da lui ho imparato ad amare.

    PRESENTAZIONE

    Questo manuale è stato elaborato con un riferimento scientifico‐culturale alla Palestra di Vita, una struttura esprimente un orientamento di grande portata, che si sta affermando fra le iniziative ottenute per e nelle case di riposo. Sulla base di tale riferimento Pietro Piumetti è riuscito a costruire un’opera di particolare significato, nella quale la sua conoscenza della ricca letteratura sull’argomento si integra con le competenze acquisiste nella pluriennale attività di docenza nell’ambito psicogerontologico.

    Il primo capitolo analizza con un’ampia documentazione l’area della psicologia dell’invecchiamento occupandosi degli aspetti demografici e processuali e di quelli connessi al significato di vecchiaia, alle caratteristiche degli anziani attuali, e affrontando i temi dei fondamenti biochimici e neurofisiologici, dei fattori e delle teorie dell’invecchiamento, dell’analisi storica e metodologica, del disadattamento e degli interventi preventivi, terapeutici, riabilitativi.

    Il secondo capitolo espone con l’ausilio di specialisti i principali indirizzi impegnati sul piano teorico e su quello operativo ad affrontare i problemi dell’invecchiamento: dalla psicologia positiva e della salute alla psicoanalisi, dall’orientamento cognitivo comportamentale a quello neuropsicologico e al coaching per la terza età.

    Il terzo capitolo è dedicato alla psicopatologia dell’anziano con la descrizione delle modalità di intervento e di coinvolgimento dei familiari nel morbo di Parkinson e nelle varie forme di demenza, con particolare riferimento al morbo di Alzheimer.

    Nel quarto capitolo si tratta della riabilitazione di anziani con deterioramento mentale, con la descrizione delle principali forme di terapia, dalla ROT alla terapia occupazionale, dalla terapia della valutazione alla cromoterapia, dalle varie modalità di arteterapia a quelle con animali domestici, alle tecniche di rilassamento.

    Il quinto capitolo descrive l’assistenza psicologica nelle residenze per anziani, analizzando l’intervento con gli ospiti, con i familiari, con gli operatori, con il contesto, la valutazione multidimensionale e quella neuropsicologica, il piano assistenziale personalizzato e il progetto di assistenza psicologica.

    Nel sesto capitolo vengono illustrati i riferimenti teorici, gli strumenti metodologici, i risultati più significativi della Palestra di Vita (una realtà che ha consentito di annullare molti pregiudizi) e le indicazioni delle linee fondamentali per invecchiare bene. A questa realtà, Pietro Piumetti ha fornito un apporto di profondo significato e ha contribuito in modo determinante ad elaborare un modello di riferimento per la psicogerontologia italiana.

    Il settimo capitolo illustra i problemi psicologici più frequenti (dall’ansia al suicidio) per la popolazione anziana e i programmi di intervento più efficaci in termini di supporto psicologico e di psicoterapia di sostegno, di cure palliative fino all’accompagnamento verso la buona morte.

    L’ottavo capitolo è dedicato alle chiavi di lettura e alle strategie di vita per conservare la possibilità di continuare a vivere e non soltanto a sopravvivere nell’età senile, di difendere un equilibrio esistenziale, anche in una malattia cronica, di continuare fino alla fine la realizzazione e la conoscenza di se stessi.

    Il complesso degli argomenti trattati, la chiarezza e la completezza della loro espressione, in alcuni casi con l’ausilio degli specialisti, la coerenza sul piano neuroscientifico, psicologico, sociale ed etico e la precisione delle indicazioni preventive, diagnostiche, terapeutiche e riabilitative fanno dello scritto di Pietro Piumetti un’opera di grande valore, interessante per gli studiosi in generale, gli studi di gerontologia e particolarmente utile per gli amministratori, gli operatori delle Residenze e per gli anziani e i loro familiari, un manuale che merita un deciso apprezzamento.

    Marcello Cesa‐Bianchi

    INTRODUZIONE

    Le conoscenze e le competenze dello psicologo che si occupa di invecchiamento vanno inquadrate nell’ambito del più ampio scenario riguardante l’invecchiamento studiato dalla gerontologia. La gerontologia abbraccia quattro aspetti tra loro strettamente legati: l’invecchiamento fisico; l’invecchiamento psicologico; l’invecchiamento comportamentale; infine, il contesto sociale dell’invecchiamento. Questi quattro aspetti dell’invecchiamento sono in interazione costante nella vita di ogni persona anziana. La gerontologia si situa così all’incrocio di diverse discipline e si è basata, fin dall’inizio, sul principio della multidisciplinarietà. Lo psicologo attinge conoscenze e competenze utili per la sua attività rivolte alle persone anziane in particolare dalla psicologia generale, dalla psicologia clinica, dalla psicopatologia, dalla neuropsicologia, dalla psicologia della salute e dalla psicologia di comunità.

    La psicologia dell’invecchiamento studia i cambiamenti comportamentali che avvengono con l’età. L’espressione psicologia dell’invecchiamento appare per la prima volta negli anni ’50 (la Società Gerontologica nasce nel 1945). La psicologia dell’invecchiamento, come scrive Rossana De Beni nel suo manuale Psicologia dell’invecchiamento, può aiutare a riconoscere le potenzialità del rapporto tra giovani e anziani, per creare una nuova sinergia tra competenza dell’anziano ed energia del giovane. La psicologia paga un ritardo dal vedere il vecchio come malato. Oggi è sempre più evidente l’importanza di interventi psicologici anche in età avanzata, anche in presenza di demenza. Una caratteristica della psicologia dell’invecchiamento è di individuare i fattori che possono specificare le diverse condizioni dell’anziano (memoria, ambiente, personalità, qualità della vita, cura), tenendo presente la variabilità tra individui e lo stesso individuo.

    Questo manuale rappresenta il coronamento di circa vent’anni di studio e di sperimentazione, del lavoro con le persone anziane, condiviso con numerosi psicologi della commissione di psicologia gerontologica dell’Ordine degli Psicologi del Piemonte, con gli studenti di psicologia dell’Università di Torino e con i colleghi del Consorzio Socio‐Assistenziale del Cuneese.

    Il testo è stato scritto prendendo spunto dalle lezioni di Psicopatologia della terza età e di Psicologia gerontologica che il sottoscritto ha tenuto rispettivamente presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute, Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Torino e presso il Corso di Laurea in Psicologia della Comunicazione della SSF Rebaudengo di Torino (Università Pontificia Salesiana); utili spunti di riflessione sono stati tratti dal Corso Universitario di Psicologia dell’Invecchiamento con il metodo Palestra di Vita, di cui il sottoscritto è direttore scientifico presso la suddetta Università.

    Da vecchi molti si rassegnano a soffrire, altri, privilegiando un pensare positivo, propongono un’altra linea di comportamento: attaccare la vecchiaia come un problema da risolvere, adottare tutte le misure possibili per accrescere la possibilità di godersi la vita. Anziché lagnarci delle foglie ingiallite possiamo apprezzare il fogliame dell’autunno, anziché tollerare il sapore del frutto amaro possiamo spremere dall’arancia l’ultima dolce stilla di succo. Come disse Oliver Wendell Holmes: «Essere giovani a settant’anni a volte dà più gioie e speranze che essere vecchi a quaranta».

    Per lungo tempo si è ritenuto che le vie nervose costituissero qualcosa di fisso, determinato, immutabile, che il cervello avesse come limite l’incapacità proliferativa e l’irreversibilità della differenziazione dei neuroni. Attualmente numerosi studi hanno smantellato il cosiddetto mito delle 3N (nessun nuovo neurone). I neuroni che scompaiono in un adulto e in un anziano possono essere compensati da altri che si vengono formando o ricostruendo (Kpoehl et Le Moal, 2005). Rudolf Arnheim, psicologo Gestalt (scomparso nel 2007 a 103 anni), ha disegnato un grafico in cui sono raffigurati, intersecandosi, una curva a campana, prima ascendente e poi discendente, e una scala sempre ascendente. La curva rappresenta la linea biologica della vita (sviluppo, mantenimento, declino), la scala riflette le capacità creative di pensiero e conoscenza dell’uomo, potenzialmente in continua ascesa. A questo proposito si può accogliere l’invito di Goldberg nel libro Il paradosso della saggezza: «Use it or lose it». Per quanto riguarda la riabilitazione con le persone anziane va evidenziato che, sebbene emozioni e memoria seguano due traiettorie distinte, nell’invecchiamento c’è un miglioramento e una riattivazione cognitiva quando entrano in gioco variabili di tipo emotivo (Mammarella, 2011). Gli eventi emotivi vengono ricordati meglio anche perché i processi di formazione e recupero di un ricordo vengono modulati dall’amigdala, meno soggetta al processo di invecchiamento, come anche le regioni prefrontali, specializzate nell’elaborazione emotiva, sono meno soggette al cambiamento con l’età (Mammarella, 2011). Gli studi neuroscientifici hanno dimostrato che il cervello può compensare le proprie perdite, possiede la capacità di rigenerazione, fabbrica i suoi neuroni, riattiva e guarisce le sue cellule nervose malate. Però il cervello decade sempre di più se l’ambiente lo dimentica. L’ambiente di cura familiare o la struttura residenziale viene a rappresentare uno strumento determinante per la conservazione e il recupero funzionale del cervello attraverso la stimolazione creativa e la qualità della relazione (Cesa‐Bianchi et all, 2011).

    Il punto di riferimento del manuale è la Palestra di Vita, vero motore per far ripartire la voglia di vivere anche nelle case di riposo (nel corso del 2010 il Senato Accademico dell’Università Pontificia Salesiana di Roma ha approvato il Corso Universitario di perfezionamento in Psicologia dell’Invecchiamento con il metodo Palestra di Vita). Ma il libro pone particolare attenzione alla psicologia dell’invecchiamento (dalla definizione della vecchiaia, alle teorie sull’invecchiamento, alle conoscenze su cosa succede durante l’invecchiamento, alle capacità di recupero della persona anziana...): descrive la sintomatologia psichica e comportamentale associata alla demenza, la gestione dei disturbi comportamentali, la riabilitazione psicologica degli anziani con deterioramento mentale (Terapia di orientamento alla realtà, Terapia della reminescenza, Terapia validation, Terapia ambientale, Arteterapia, Cromoterapia, ecc.), presenta l’assistenza psicologica nelle residenze per anziani (l’intervento con gli ospiti, gli operatori, i familiari), il sostegno psicologico alla persona anziana (per curare ansia, depressione, disturbi paranoici, ipocondria, insonnia, suicidio, sessualità, dipendenza da sostanze...), le chiavi di lettura e strategie per il benessere psicologico (il potere della calma; l’elaborazione del lutto; il lavorare positivo...).

    La realizzazione di questo manuale dà impulso a una gerontologia particolarmente attenta alla relazione. Il volume nasce dall’amore per la persona anziana, dal desiderio di testimoniare le proprie esperienze e mettersi in gioco nel raccontarle. Una sfida impegnativa con l’obiettivo di condividere, con quanti lo desiderano, il proprio sapere, il saper fare e il saper essere.

    Il libro è indirizzato agli studenti di psicologia e agli operatori socio‐sanitari, agli amministratori, responsabili e operatori delle residenze per anziani, agli anziani e alle loro famiglie e a tutti quelli che hanno il desiderio di conoscere e approfondire la conoscenza sulla psicologia dell’invecchiamento. Considerato che «una buona vecchiaia si prepara fin da giovani», questo manuale vuole anche aiutare a riflettere sull’importanza di praticare uno stile di vita sano, vuole far conoscere le potenzialità e le risorse delle persone anziane, far conoscere la riabilitazione e l’assistenza psicologica per la tutela del benessere psicologico.

    Ringrazio il prof. Marcello Cesa‐Bianchi, il prof. Giovanni Cesa‐Bianchi, il prof. Carlo Cristini, il prof. Alessandro Porro, il prof. Giuseppe Andreis, la dott.ssa Silvia Rosso, il dott. Franco Moretti, la dott.ssa Sonia Barba, la dott.ssa Sara Fontana, la dott.ssa Raquel Ana Guarnieri, il dott. Luca Fabbroni, il dott. Roberto Giolito, la dott.ssa Mara Fantone, la dott.ssa Valentina Giacosa, la dott.ssa Chiara Giannatempo e Margherita Giordanengo per i loro preziosi contributi. Ringrazio la dott.ssa Francesca Bonardi, Federica Lazzeretti, Debora Schellino, Arianna Oggero per la loro collaborazione nella rilettura del testo. Ringrazio in particolare la dott.ssa Deborah Rosso, la dott.ssa Luisa Curti e la dott.ssa Marianna Martini per il loro fattivo contributo nell’impaginazione del manuale. Ringrazio inoltre gli autori dei testi citati in bibliografia dai quali ho tratto utili spunti. Ringrazio infine la mia famiglia per avermi supportato e sopportato durante la lunga e faticosa stesura del manuale. Tutte queste persone hanno reso possibile questo importante lavoro.

    Pietro Piumetti

    1

    PSICOLOGIA DELL’INVECCHIAMENTO

    «Inventare il modo di invecchiare, o almeno orientarlo, è preferibile che assistere passivamente al proprio decadimento».

    Marcello Cesa‐Bianchi

    Foto di una statua rappresentante la pietà con la Madonna in piedi che regge il corpo di Gesù

    Michelangelo, Pietà Rondanini , 1564, realizzata quando aveva 89 anni. Castello Sforzesco, Milano.

    1. PSICOLOGIA DELL’INVECCHIAMENTO

    In questo capitolo cercheremo di tracciare le basi della psicologia dell’invecchiamento, definiremo i termini vecchiaia e anziano riprendendo le varie teorie e i fattori di base, per giungere, poi, ai cambiamenti che avvengono nel sistema nervoso centrale. Successivamente parleremo della capacità di recupero degli anziani, delle cause che conducono ad una situazione di disadattamento e dei processi di prevenzione che si possono mettere in atto. Tratteremo il tema delle emozioni, il ruolo della creatività, della sessualità e delle motivazioni nel periodo della terza età.

    «Non esiste una perfetta definizione dell’invecchiamento, ma come l’amore o la bellezza, la maggior parte di noi lo conosce quando lo prova e lo vede».

    Leonard Hayflick

    L’arte di saper invecchiare

    Nel 44 a.C., anno in cui fu ucciso Giulio Cesare, Marco Tullio Cicerone scrisse il Cato Maior de Senectute all’età di sessantadue anni. è un’opera rasserenante, un manuale filosofico, che riesce a far accettare la vecchiaia con rassegnazione e con gioia. Da buon avvocato Cicerone, per bocca di Catone, fa un’acclamata arringa di difesa della vecchiaia, esponendone tutte le ragioni. Fissa nei quattro capi di accusa della vecchiaia gli argomenti della difesa: 1) la vecchiaia non distoglie l’uomo dalla vita attiva in quanto l’attività pubblica può essere svolta anche quando l’uomo è molto in là negli anni; 2) la vecchiaia toglie le forze ma per fare l’attività adatta al vecchio non c’è bisogno della forza fisica, bensì di quella spirituale; 3) se la vecchiaia priva l’uomo del piacere del sesso, lo libera dalla sua schiavitù rendendogli la vita più serena e tranquilla; 4) il fatto che la vecchiaia avvicini alla morte non deve spaventare ma rassicurare, essendo la morte un ritorno alle origini, come rientrare in porto dopo una lunga navigazione.

    Leggiamo nel De Senectute:

    Si dice che la memoria diminuisce! Lo credo, se non la eserciti o anche se sei alquanto tardo di natura! Rimane intatta ai vecchi l’intelligenza a patto che rimangano fermi gli interessi e l’operosità. Secondo il metodo dei Pitagorici, per esercitare la memoria, la sera mi ripasso quello che ogni giorno ho detto, ho ascoltato, ho fatto. Questa è la ginnastica dell’intelletto, queste sono le esercitazioni della mente. E se non potessi fare queste cose, tuttavia il mio divano mi darebbe diletto mentre sto meditando su quelle cose che ormai non riesco più fare, ma posso farle vivere nella mente.

    Continua Cicerone:

    Se non siamo capaci di disprezzare la voluttà con la ragione e la saggezza, dobbiamo fare grandi ringraziamenti alla vecchiaia, che fa in modo che non ci piaccia ciò che non è conveniente. La voluttà, infatti, è di impedimento al senno, è nemica della ragione, offusca, per così dire, gli occhi della mente e non ha alcun rapporto con la virtù. Quali voluttà di divertimenti o di prostitute si possono comprare con la passione per la cultura, che certo nelle persone sagge e ben istruite cresce con l’età, si che è onorevole quanto Solone dice che si invecchia imparando molte cose ogni giorno e di questo piacere dello spirito nessun altro piacere può essere certo maggiore.

    Per Cicerone i vecchi sono brontoloni, sospettosi, iracondi, scontrosi, anche avari. Però questi sono difetti del carattere, non della vecchiaia. I vecchi si credono respinti, disprezzati, presi in giro; inoltre, in una persona fragile di corpo, ogni offesa risulta odiosa. Tuttavia questi difetti diventano più accettabili con un buon carattere e con la pratica delle arti. Conclude Cicerone:

    Davvero la vecchiaia è per me così gradevole, che più mi avvicino alla morte, più mi sembra di vedere terra e di essere prossimo a entrare finalmente in porto, reduce da una lunga navigazione. La vecchiaia, del resto, non ha nessun termine certo e ci si vive bene, a patto di ottemperare ai propri doveri e di disprezzare la morte; da qui ne deriva che la vecchiaia è anche più coraggiosa e più forte della giovinezza... La vecchiaia è la conclusione della vita, tale e quale a una commedia, di cui dobbiamo evitare di annoiarci, specialmente se abbiamo raggiunto la sazietà.

    Il vecchio nonno e il nipotino (favola dei fratelli Grimm)

    C’era una volta un uomo molto anziano che camminava a fatica; le ginocchia gli tremavano, ci vedeva poco e non aveva più neanche un dente. Quando sedeva a tavola, reggeva a malapena il cucchiaio e versava sempre il brodo sulla tovaglia; spesso gliene colava anche dall’angolo della bocca. Il figlio e sua moglie provavano disgusto, perciò costringevano il vecchio nonno a sedersi nell’angolo dietro la stufa e gli davano poco da mangiare e in una brutta ciotola di terracotta. Il povero vecchio guardava sconsolato il loro tavolo, con gli occhi lucidi. Un giorno le sue mani sempre tremanti non riuscirono a reggere la ciotola, che cadde a terra e si ruppe. La donna lo rimproverò, ma il vecchio non disse nulla e sospirò. Allora per pochi soldi gli comprarono una ciotola di legno. Un giorno, mentre sedevano in cucina, il nipotino di quattro anni armeggiava per terra con dei pezzetti di terracotta. — Che cosa stai facendo? — gli domandò il padre. — Ecco... — rispose il bambino — Sto accomodando la ciotola per farci mangiare mamma e papà quando sarò grande. I genitori allora si guardarono in faccia e alla fine scoppiarono in lacrime. Fecero subito sedere il vecchio nonno al loro tavolo e da quel giorno lo lasciarono mangiare sempre assieme a loro. E quando versava il brodo non dicevano più nulla.

    Aspetti demografici

    In Italia, ad oggi, i soggetti con più di 65 anni sono 12,3 milioni. Essi rappresentano il 20,2% della popolazione, contro il 17,4% del 1975 e verso il 23,9% previsto nel 2021; gli over 65 sono dunque 1 su 5 (ISTAT, 2012). Secondo la rivista scientifica «Lancet» l’Italia si colloca al secondo posto al mondo come popolazione più longeva, preceduta solamente dal Giappone. Indubbiamente sono presenti delle differenze di genere, la soglia della speranza di vita per le donne è infatti di 84,1 anni a fronte dei 78,9 per gli uomini; la prospettiva per il 2040 è di 88 anni per gli uomini e di 92 per le donne (Baccella, Annoni, Università degli Studi di Milano‐Bicocca).

    La persona più longeva di sempre è la francese Jeanne Clement (1875–1997), 122 anni e 164 giorni. Ad oggi il giapponese Jiroemen Kimura — 19.4.1897 —, 116 anni, ha anche il primato di persona di sesso maschile più longeva di sempre. Sono aumentati in modo esponenziale gli ultracentenari: all’inizio del secolo scorso erano circa 900, adesso circa 16.000.

    Per una storia della psicologia dell’invecchiamento: riflessioni sulla realtà italiana

    ¹

    Nel fiorire di occasioni d’incontro e scambio culturale, di associazioni, di riviste, di studi in tema di invecchiamento e di psicologia dell’invecchiamento, che ci appare quasi tumultuoso (e pur tuttavia sintomatico di un fermento foriero di novità), siamo autorizzati a tentare una valutazione storica degli apporti italiani del XX secolo, e delineare, se evidenziabili, alcune linee di tendenza evolutiva del dottrinario e delle prassi relative?

    Al di là della componente retorica insita nella domanda, che indirizza di per sé verso una risposta positiva, pensiamo che sia non inutile, proprio in questo momento storico, soffermarsi a gettare uno sguardo retrospettivo sulla gerontologia (con una particolare attenzione all’evoluzione degli studi in tema di psicologia dell’invecchiamento) del decorso secolo.

    Quand’esso si apprestava a volgere al termine, già due specifici contributi affrontavano il problema (Cesa‐Bianchi e Pravettoni, 1997; Cesa‐Bianchi e Cristini, 1998).

    Si tratta di contributi dai quali partire, con altre apposizioni analitiche, giacché il quindicennio passato dalla loro comparsa consente di sedimentare, almeno un poco, le caratteristiche legate alla cronaca e all’attualità.

    Ciò è espresso proprio in ragione del rapido sviluppo scientifico, cui si è accennato: valga l’esempio dei mutamenti sopravvenuti nel campo dello studio delle demenze (Porro e Cristini, 2012), qui proposto per considerare e ricordare le categorie di anziani fragili che stanno modificando prepotentemente la struttura della nostra società (nonché dell’assistenza e cura).

    Il periodo del secondo dopoguerra si caratterizza per una curva caratteristica della rappresentazione demografica, che ci ricorda la coorte di uomini giovani che non tornarono dai campi di battaglia (ed il riflesso sulle generazioni successive): il tema di un relativo invecchiamento della popolazione poteva, anche nel breve periodo, essere già preconizzato. Alla luce, poi, delle nuove possibilità terapeutiche garantite dagli antibiotici, potevano emergere le malattie cronico‐degenerative, con il loro impatto sulle condizioni di vita delle fasce più anziane della popolazione. L’abbattimento della mortalità per malattie infettive poteva, infatti, provocare un relativo aumento dell’aspettativa di vita.

    Nonostante la coscienza di un cambiamento demografico che avrebbe richiesto nuove risposte per i bisogni della popolazione anziana (e sempre più anziana, nelle nazioni del mondo occidentale) (Nations Unies, 1956), non sembrava corrispondervi una consapevolezza scientifica riguardo al valore dell’apporto delle scienze umane: anche in congressi scientifici autorevoli della realtà anglosassone (CIBA Foundation, 1955–1959) la visione iatrica si confermava come quella dominante (Porro et al., 2012). Si trattava di un pregiudizio ancora non del tutto sradicato trent’anni più tardi (CIBA Foundation, 1988).

    L’Italia, per certi versi, era caratterizzata anche da una scarsissima considerazione delle discipline psicologiche (Padovani, 1946): retaggio della forza dell’idealismo e della drammatica (per la psicologia) sopravvivenza durante il ventennio fascista, da poco concluso. Ciononostante, dagli inizi degli anni Cinquanta furono promosse e condotte, anche nel nostro Paese, le prime ricerche nell’ambito della psicologia dell’invecchiamento.

    A Milano furono gli ambienti universitari cittadini (dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e dell’Università Statale) a promuovere questo indirizzo di studi.

    In particolare, l’Università degli Studi di Milano, in collaborazione anche con istituzioni municipali, rappresentò un preciso punto di riferimento, grazie alla costituzione dell’Istituto di Psicologia della Facoltà di Medicina e Chirurgia (Cesa‐Bianchi, Porro e Cristini, 2009; Cesa‐Bianchi, 2012).

    Del resto, l’interesse del Comune di Milano per le ricerche in ambito psicologico (e pedagogico) datava dai primi anni del secolo (Redondi, 2008) e manteneva, all’epoca, sicuri tratti di validità; qualche decennio dopo, queste esperienze municipali si sarebbero in parte concluse.

    Altre strutture impegnate nella specifica assistenza e nelle pionieristiche ricerche di psicologia dell’invecchiamento negli anni Cinquanta del Novecento erano quelle assistenziali: si vuole citare, a scopo eminentemente esemplificativo, il Pio Albergo Trivulzio e la sua plurisecolare presenza nel contesto cittadino milanese (Cosmacini e Cenedella, 1994).

    Il ruolo dell’ambiente milanese era, all’epoca, centrale e l’attività di ricerca cercava di svincolarsi da una concezione negativa, stereotipata, iatrocentrica, la quale sembrava essere — quasi paradossalmente — rinforzata e corroborata dalle indagini psicometriche: in realtà i test di intelligenza adoperati erano non sufficientemente tarati sui campioni da esaminare.

    In breve tempo, tuttavia, furono gradualmente acquisiti nuovi atteggiamenti e conoscenze sull’età senile, sulle sue caratteristiche e potenzialità (Cristini et al., 2012a).

    Da sottolineare, in particolare, il contributo portato negli anni ’50 da Marcello Cesa‐Bianchi agli studi di psicologia dell’invecchiamento: un apporto imponente, sia in termini quantitativi, sia in quelli qualitativi — che tuttora prosegue in monografie, articoli scientifici, progetti di intervento — che ha aperto spesso filoni innovativi di ricerca e proposto nuove prospettive di analisi della condizione di vita dell’anziano (Cristini et al., 2012).

    Negli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo si dimostrò fondamentale la possibilità di partecipare a programmi di ricerca internazionali, sia europei, sia coinvolgenti le due sponde dell’Atlantico (Cesa‐Bianchi, Porro e Cristini, 2009; Cesa‐Bianchi, 2012).

    La condizione sin qui evidenziata si sarebbe arricchita a breve di nuovi apporti da parte di gruppi istituzionali, ma la caratterizzazione accademica degli stessi non si sarebbe sensibilmente modificata.

    Alle università milanesi si sarebbero affiancate quelle di Bologna, Roma La Sapienza, Padova, Pavia, Urbino; anche gli Enti di Ricerca (IRCCS), come l’INRCA (Istituto Nazionale di Riposo e Cura per Anziani, Vittorio Emanuele II) di Ancona avrebbero poi dato il loro contributo al progresso delle conoscenze in argomento.

    La denominazione Riposo e Cura ci ricorda l’origine storica della visione asilare dell’assistenza agli anziani (così come la denominazione del Pio Albergo Trivulzio di Milano); tuttavia, proprio negli ultimi anni del Novecento si assiste al superamento di queste antiche visioni ed operatività, con la trasformazione in moderne strutture di ricerca ed assistenza.

    Nel già citato studio di Cesa‐Bianchi e Cristini si affermava:

    Le conclusioni che si possono trarre dai numerosi studi effettuati pongono in evidenza la multidimensionalità che concorre a determinare la qualità della vita in una persona anziana. Il patrimonio genetico, il clima di prima accoglienza, il percorso educativo, le esperienze e la specificità degli eventi vissuti, i lutti, la convivenza familiare e sociale, il passaggio climaterico e la sottaciuta andropausa, il pensionamento forzato, lo sradicamento dall’abituale ambiente di vita, gli antichi e nuovi pregiudizi sull’età senile rappresentano i fattori, gli indici che qualificano l’invecchiamento e la sua singolarità (Cesa‐Bianchi e Cristini, 1998).

    E da un punto di vista istituzionale:

    Gli studi dei ricercatori italiani hanno [...] infine fornito agli organismi competenti a livello nazionale, regionale, provinciale e comunale gli opportuni strumenti per intervenire in ambito preventivo e di cura del disadattamento all’età senile, per l’adeguamento, il ripensamento culturale e il processo di umanizzazione delle case di riposo, per l’impostazione e l’organizzazione dei servizi di assistenza domiciliare, per la promozione di Day‐Hospital, per l’istituzione delle Università della terza età, per l’avvio di programmi personalizzati di riabilitazione delle malattie invalidanti sia fisiche sia psichiche (Cesa‐Bianchi e Cristini, 1998).

    Questi risultati furono resi possibili anche dalla mutata consapevolezza sociale dei problemi legati all’invecchiamento, dall’aumentata coscienza dei propri diritti da parte degli anziani stessi, e da un’opera di divulgazione efficace, la quale fece uscire dall’ambito accademico e strettamente assistenziale le discussioni e i dibattiti relativi a come praticamente rendere concrete le iniziative prospettabili dall’evoluzione delle conoscenze.

    La letteratura si è progressivamente infittita di monografie specifiche, e qui se ne vogliono segnalare alcune (Laicardi e Pezzuti, 1980; Barucci 1989; Oliverio 1990; Antonini e Magnolfi, 1991; Guerrini, 1991; Vergani, 1997; Cesa‐Bianchi, 1998; Scortegagna, 1999; Cima, 2004; Trabucchi, 2005; Cesa‐Bianchi e Cristini, 2009; Peirone e Gerardi, 2009; Cristini et al., 2011; Cesa‐Bianchi, 2012; Peirone e Gerardi, 2012), senza pretesa di esaustività.

    Da un punto di vista scientifico e dottrinale, l’analisi della letteratura scientifica mostra che furono forniti

    contributi rilevanti alle conoscenze scientifiche sui problemi dell’invecchiamento cerebrale, cognitivo e affettivo, con particolare riferimento ai processi percettivi, attentivi, mnemonici, di apprendimento, nonché alla messa in evidenza degli aspetti più significativi della qualità della vita nelle persone di età avanzata e al suo possibile declinarsi in relazione a fattori patologici, a eventi esistenziali, ad atteggiamenti di emarginazione o di discriminazione sociale (Cesa‐Bianchi e Cristini, 1998).

    Anche in questo caso, la segnalazione di monografie indirizzate prevalentemente ai contenuti scientifici può aiutarci a comprendere l’evoluzione del dottrinario e della prassi, e come nel caso precedente si è ritenuto utile giungere fino alla stretta attualità temporale (Cesa‐Bianchi, 1977; Aveni Casucci, 1984; Cesa‐Bianchi, 1987; Barucci, 1990; Aveni Casucci, 1992; Fulcheri e Monaco, 1994; Barucci, 1995; Cesa‐Bianchi e Vecchi, 1998; Cesa‐Bianchi, 2000; Cesa‐Bianchi, Cristini e Cesa‐Bianchi, 2000; Laicardi e Pezzuti, 2000; Simeone, 2001; Tamanza, 2001; Baroni, 2003; Cristini e Cesa‐Bianchi, 2003; Tramma, 2003; Cesa‐Bianchi e Albanese, 2004; Chattat, 2004; Cristini, Rizzi e Zago, 2005; Grano e Lucidi, 2005; Spagnoli, 2005; Andreani Dentici, 2006; Cristini e Cesa‐Bianchi, 2006; Cristini, 2007; Andreis et al., 2008; Cristini, 2008; Giusti e Murdaca, 2008; Bellelli e Trabucchi, 2009; De Beni, 2009; Cristini, Albanese e Porro, 2010; Amoretti e Ratti, 2011; Cristini, Porro e Cesa‐Bianchi, 2011; Madera, Bellotti e Cristini, 2011; Cristini et al., 2012b; Zambianchi e Ricci Bitti, 2012).

    Chiunque si prenda la briga di compulsare le opere citate all’interno della dimensione dell’analisi storica, vi troverà facilmente il contributo (o il condizionamento) proposto dallo sviluppo delle neuroscienze ed il ruolo rilevante dei dettami della psicologia positiva.

    Quali possono essere le linee attuali di sviluppo degli studi di psicologia dell’invecchiamento?

    Innanzi tutto, si deve ricordare che la presenza accademica ed extra‐accademica di studiosi che si occupano di queste tematiche si è di molto arricchita e due società scientifiche sono dedicate ad approfondirle: la Società Italiana di Psicologia dell’Invecchiamento (SIPI), che — nella sua ispirazione originaria — è largamente debitrice a Marcello Cesa‐Bianchi, e l’Associazione Italiana di Psicogeriatria (AIP).

    Volendo invece condensare in pochi concetti una sintesi dei più attuali filoni di ricerca, si può ricordare che nell’età senile assistiamo ad adattamenti talora complessi, svincolati dalla dimensione anagrafica e che in ogni condizione è possibile scoprire e sfruttare risorse e potenzialità.

    Si tratta di riconoscimenti di non poco conto: esiste sempre un traguardo da raggiungere, che valga la pena di essere raggiunto, anche nelle condizioni di fragilità estrema.

    Ciò comporta un’attenzione etica e deontologica di tutti i professionisti coinvolti, giacché il criterio utilitaristico non può mettere in ombra la richiesta di rispetto e dignità che ci perviene da ogni anziano, quali che siano le sue condizioni.

    Lo sviluppo della psicologia dell’invecchiamento ci ha portato sulla strada del miglioramento della qualità di vita delle classi più anziane della popolazione perché, come era affermato nel 1998 (Cesa‐Bianchi e Cristini, 1998) e resta ancora attuale, i vecchi che sanno vivere serenamente e compiutamente la loro esistenza rappresentano la chiave semantica per ogni prospettiva di crescita della psicogerontologia.

    Perché si vive di più?

    La prima ipotesi chiama in causa il notevole miglioramento nel campo dell’alimentazione;

    c’è poi un consistente miglioramento delle condizioni sanitarie;

    infine si presta maggiore attenzione al controllo delle malattie infettive.

    Allo stesso modo, però, si sente spesso parlare dell’Italia come di un paese vecchio: questo a causa dell’aumento delle persone anziane rispetto ai giovani, dovuto all’eliminazione della natalità indesiderata (contrazione della natalità) e alla riduzione della mortalità, che dà vita, in modo diretto, al fenomeno Old Age: il nostro paese, insieme a Svezia, Regno Unito e Danimarca, presenta la percentuale più alta di ultra settantacinquenni, che sono raddoppiati negli ultimi trent’anni (Baccella, 2011).

    Cosa fanno gli anziani sul territorio

    Un’indagine del Censis svolta nel 2007 con interviste su un campione di 1000 anziani afferma che:

    il 42% cerca la continuità nelle attività svolte prima di andare in pensione;

    il 20% si affida alla casualità;

    il 38% vede nella vecchiaia la possibilità di riprogettarsi;

    il 32% si impegna in attività sportive;

    il 20% usa Internet per 80 minuti (circa) al giorno;

    il 26% è impegnato nel volontariato;

    il 92% si dichiara soddisfatto dalla possibilità di aiutare gli altri (di cui il 63% assiste i nipoti);

    il 95% ritiene che condurre una vita piena di impegni e relazioni incida positivamente sulla salute (il 43% afferma di aver sperimentato che le relazioni riducono l’uso di farmaci).

    Da questi dati si può ritenere fondamentale la capacità di adattamento dell’anziano, che può portare a opportunità e/o a problemi.

    Per inquadrare in modo completo l’argomento necessitiamo, però, di una serie di definizioni.

    La piramide dell’età

    Il grafico seguente, detto piramide delle età, rappresenta la distribuzione della popolazione residente in Italia per età, sesso e stato civile al 1° gennaio 2011.

    La popolazione è riportata per classi quinquennali d’età sull’asse Y, mentre sull’asse X sono riportati due grafici a barre a specchio con i maschi (a sinistra) e le femmine (a destra). I diversi colori evidenziano la distribuzione della popolazione per stato civile: celibi e nubili, coniugati, vedovi e divorziati.

    Grafico rappresentante la priamide dell'età

    In generale, la forma di questo tipo di grafico dipende dall’andamento demografico di una popolazione, con variazioni visibili in periodi di forte crescita demografica o di cali delle nascite per guerre o altri eventi. In Italia ha avuto la forma simile ad una piramide fino agli anni ’60, cioè fino agli anni del boom demografico. Da notare anche la maggiore longevità femminile degli ultra‐sessantenni.

    Cos’è la vecchiaia?

    Con questo termine si può definire un fenomeno caratterizzato da mutamenti fisici e psichici, non dovuti alla malattia, che comportano una ridotta capacità di adattamento allo stress e di mantenimento dell’equilibrio omeostatico, causando un aumento della morbilità e della mortalità (Beck, 1992).

    Nelle società tradizionali la vecchiaia, ora chiamata eufemisticamente terza età, era considerata con grande rispetto e gli anziani erano ritenuti i depositari della saggezza e dei valori su cui si basava quella determinata cultura. Nelle società in cui la vecchiaia è accettata come parte della struttura sociale, gli anziani rimangono estremamente vigorosi.

    Molto spesso gli anziani nelle nostre società altamente progredite hanno abdicato al loro ruolo di guide, perché essi stessi sono cresciuti in una società che li espropria del proprio valore, e li educa a sentirsi inutili, già prima della fine del ciclo produttivo. Così i pensionati si creano degli hobby, ma implicitamente accettano il ruolo marginale che viene loro assegnato dalla società. Purtroppo, nella nostra cultura è diffusa

    l’idea che la vecchiaia sia un tempo inutile, che ha nella morte il suo fine, in attesa della quale, grazie alla medicina e ai servizi sociali, sopravvivono mummie animate, paradossi sospesi in una zona crepuscolare.

    Nel libro di Riccardo Coler Eterna giovinezza leggiamo che nelle culture degli Hunza del Pakistan e dei Vilcabamba in Ecuador gli anziani continuano ad essere attivi fisicamente e mentalmente, e contribuiscono validamente allo svolgimento dei vari compiti di una famiglia allargata, di cui essi sono parte integrante. A livello sociale i rapporti tra i vari membri della comunità sono basati su principi di cooperazione e scambio, con valori sociali, etici e religiosi generalmente condivisi.

    Don Miguel Ruiz, maestro della scuola segreta tradizionale dei Toltechi, nel suo libro Mastery of love — Il dominio dell’amore scrive che le persone in genere rifiutano l’idea dell’invecchiamento, perché credono che i vecchi non possano essere belli. Dice Don Miguel Ruiz:

    Un bambino appena nato è bello. Anche un vecchio lo è. Il problema è l’emozione che abbiamo negli occhi, che ci porta a giudicare e stabilire che una cosa è bella e un’altra non lo è. Siamo quello che crediamo di essere. L’unica cosa che dobbiamo fare è essere quello che siamo. È nostro diritto.

    Continua:

    Bisogna anzitutto imparare ad amare il nostro corpo e permettergli di essere libero di dare, di ricevere, senza timidezza, perché essere timido significa avere paura. La bellezza è un concetto che acquisiamo. L’opinione degli altri ci influenza e noi abbandoniamo il controllo della nostra vita, quando dipendiamo dal giudizio degli altri. La bellezza non è altro che un concetto, niente di più che una credenza.

    Sostiene ancora:

    Se siete una donna e credete in questo concetto, basate tutto il vostro potere sulla bellezza. Ma il tempo passa, si invecchia. A questo punto iniziano le chirurgie plastiche, come lotta per mantenere il potere, se la donna ritiene che il suo potere risieda nella bellezza si domanderà se il suo uomo la ami ancora, adesso che non è più così attraente. La pubblicità sfrutta il desiderio delle donne di sembrare attraenti. Fa leva sui desideri consci o inconsci, che esistono negli esseri umani e si impegna al massimo per crearne dei nuovi. Ma, osservando bene, la pubblicità finisce per danneggiare le donne, perché le immagini pubblicitarie focalizzano l’attenzione sull’aspetto fisico, trascurando altre qualità come intelligenza, personalità, cultura, ecc.

    Nell’articolo Facciamo un lifting alle nostre idee del settimanale «l’Espresso» n. 20 del 24 maggio 2007, il prof. Umberto Galimberti, sulla moda crescente di ricorrere alla chirurgia plastica nel tentativo di prolungare la giovinezza e scongiurare la vecchiaia, cita Hillman, secondo cui per il bene dell’umanità,

    bisognerebbe proibire la chirurgia cosmetica, perché ciò finisce per dar corda al mito della giovinezza, che vede la vecchiaia come un tempo inutile.

    Scrive Galimberti:

    La faccia del vecchio è un atto di verità, mentre la maschera dietro cui si nasconde un volto trattato con la chirurgia, è una falsificazione, che lascia trasparire l’insicurezza di chi non ha il coraggio di esporsi alla vista con la propria faccia. L’obiettivo più significativo per cui vivere è raggiungere pienamente le proprie potenzialità. Gli ultimi anni della vita dovrebbero essere il momento dell’interezza, il cerchio si chiude e lo scopo della vita è compiuto.

    Sarebbe auspicabile che gli anziani prendessero coscienza del proprio ruolo e facessero sentire la propria voce, per influenzare le scelte politiche e gli indirizzi produttivi delle società in cui vivono. Purtroppo c’è la tendenza ad accettare l’idea che la malattia e la decadenza siano un destino inevitabile, che la sclerosi ed altre forme degenerative siano un processo ineluttabile. Non è così invece, come hanno dimostrato molte culture tradizionali che vivono a contatto con la natura, come ad esempio: i Vilcabamba in Ecuador, gli Hunza nel Pakistan, i Tarahumara in Messico. In queste culture gli anziani continuano ad essere attivi fisicamente e mentalmente, grazie ad un’alimentazione semplice, un’attività lavorativa intensa ed espletata nel rispetto della natura e dei suoi cicli. Le relazioni sociali e familiari sono improntate al rispetto di certi valori condivisi. L’augurio è che almeno in quei luoghi continui così e che non siano distratti dalla nostra cultura occidentale!

    Per garantire e sostenere le potenzialità degli anziani è necessario che si sviluppino una nuova cultura e un nuovo interesse nei loro confronti, riconoscendo nella persona che invecchia un individuo con bisogni e risorse, una persona inserita in un contesto e legata ad altri individui, famiglia e società. Che cosa significa essere vecchio: le rughe? la pensione? diventare nonni? il corpo che si modifica? Solitamente per rispondere a queste domande si tende a considerare l’anziano come un universale, una categoria e non un essere umano e quindi un unico. L’orientamento di questo manuale è di cogliere l’anziano come un individuo, un soggetto al quale si può finalmente offrire la certezza di essere ascoltato.

    Chi è l’anziano?

    Anziano viene definito chi presenta un’età superiore ai 65 anni, ma si tratta di un limite imposto socialmente e non di un marcatore di decadimento psico‐fisico (va fatto notare che i 65 anni li aveva indicati il Cancelliere tedesco Bismarck a fine ’800 per stabilire l’età del pensionamento; allora la prospettiva di vita era di 54 anni).

    La parola vecchio, negli anni, è stata sostituita con quella di anziano. I vecchi erano soggetti familiari (il vecchio Laerte), l’anziano è impersonale, rappresenta una fascia di persone che ha più di 65 anni, una categoria che rischia di perdere l’individualità, innestando processi di emarginazione. Questo è successo quando i vecchi sono diventati tanti, un processo iniziato alla fine degli anni Sessanta, quando si era raggiunto il benessere economico. La vita si allungava per tutti. Alcuni provvedimenti legislativi avevano esteso la copertura pensionistica a numerose categorie di lavoratori. Un nuovo soggetto sociale, così, andava sempre prima in pensione con tante energie da spendere. Si istituiva una specie di riserva indiana che allontanava dalla società una grande rivoluzione demografica in atto. Quando si è cominciato a parlare della categoria anziani, statistici e ricercatori hanno cominciato a dubitare di questo modello pensionistico che incideva sulla spesa pubblica. I responsabili della salute dicevano però che gli anziani dovevano stare a casa o in struttura, dimenticando troppo spesso di chiedere l’opinione dei diretti interessati, anche perché la famiglia patriarcale contadina, da decenni, non esiste più. Dai 60 ai 70 anni le coppie di anziani rimangono sole. Dopo i 75 anni questa condizione evolve in una riduzione della famiglia a un solo componente, per lo più donna. Dall’incongruenza dell’organizzazione sociale e dai suoi schemi ormai inidonei, esce la definizione di tempo libero come tempo di non lavoro, in riferimento ad una persona che ha lasciato l’occupazione. Sarebbe molto più semplice, e forse anche più economico, se l’occupazione potesse durare tutta la vita e il valore della persona declinarsi anche su segmenti più lunghi.

    Quali sono le principali caratteristiche dei centenari?

    L’articolo prende spunto e riflessioni dal libro Psicologia dell’invecchiamento della prof.ssa Rossana De Beni. Gli studi su soggetti centenari si pongono da tempo l’obiettivo di costruire un modello teorico e concettuale che considera la centenarietà come risultato dell’interazione di molteplici fattori, in primis quelli genetici e ambientali.

    Fattori genetici. La componente familiare è forte nella centenarietà: esiste infatti, secondo ipotesi scientifiche, un pool di geni condivisi all’interno della stessa famiglia in grado di favorire la longevità e un’immunità, almeno parziale, dalle malattie tipiche dell’età adulta avanzata. Tra questi geni i più studiati sono quelli che giocano un ruolo fondamentale nei disturbi cardiovascolari o che regolano lo sviluppo della disabilità: per esempio nei centenari sono meno frequenti mutazioni a carico dell’apolipoproteina E (che sono riscontrabili invece nella demenza di Alzheimer), della proteina di tranferasi microsomiale e della proteina di trasferimento degli esteri del colesterolo. Tuttavia la predisposizione genetica non basta a garantire da sola la centenarietà: soltanto il 30% dei motivi che portano alla longevità può essere spiegato da fattori genetici.

    Alimentazione. I centenari a tavola prediligono una maggior quantità di frutta e verdura e una dieta più ricca del 20–30% di carotenoidi e vitamina A rispetto agli anziani più giovani. Chi ha raggiunto il secolo mangia molto poco, introduce poche calorie e dunque ha, secondo i nutrizionisti, un minor numero di radicali liberi in circolazione.

    Caratteristiche di personalità e strategie di coping. I centenari sono individui energici, dinamici, loquaci e con punteggi alti al Big Five sulle scale di estroversione, apertura e coscienziosità. Le loro modalità di coping sono di tipo cognitivo: difficilmente parlando di un problema rispondono: «Ho messo in atto una serie di azioni per risolverlo...» ma piuttosto: «Mi sono detto una serie di cose che mi hanno fatto sentire meglio...». Riconoscono dunque l’emergere di un problema, ma per risolverlo cercano di far conto sulle proprie risorse.

    Stato di salute. A domande sul loro stato di salute i centenari riportano con più frequenza sintomi fisici rispetto a quelli psicologici. Sulle scale di depressione hanno punteggi più alti degli anziani più giovani ma hanno punteggi più bassi sulle scale di valutazione dell’ansia perché dotati di una maggiore capacità di reagire agli eventi stressanti. Questo dato positivo può essere spiegato dalle strategie di coping e dalle caratteristiche di personalità dei centenari rilevate con il Big Five (il 65% dei soggetti è estroverso, il 50% è caratterizzato da apertura mentale e il 34% ha una buona stabilità emotiva).

    Sostegno ambientale. Anche i centenari hanno un confidente, qualcuno che fa loro visita quotidianamente, che si cura di loro. Tuttavia si riscontra negli anni una diminuzione delle visite e delle telefonate. Jopp e Rott nell’Heidelberg Centenarian Study del 2006 hanno evidenziato quanto una fitta rete sociale, senso di autoefficacia e uno sguardo positivo verso la vita siano fondamentali per il benessere e la felicità dei centenari.

    I processi cognitivi dei centenari. Per quanto riguarda le capacità in genere nei centenari restano intatte le conoscenze generali e procedurali, mentre quelle più fluide risultano maggiormente danneggiate.

    I processi sensoriali. Modifiche importanti riguardano soprattutto vista e udito (cataratta, retinopatie, degenerazione delle cellule cocleari) che diventano debilitanti sulla soglia dei 100 anni rendendo difficoltosa la somministrazione di test cognitivi senza l’aiuto di protesi speciali o dei familiari. Un gruppo di ricercatori italiani (Receputo et al., 1996) ha studiato i cambiamenti che si verificano nei sensi del gusto e dell’olfatto dei centenari: diminuzione della sensibilità del gusto (anche se si conserva la capacità di distinguere i vari sapori, in particolare il dolce) e riduzione della sensibilità generale a carico dei processi olfattivi mantenendo anche in questo caso la capacità di discernere odori differenti.

    La memoria. Le capacità rievocative del centenario vengono indagate attraverso la loro abilità ad orientarsi nel tempo e nello spazio e a svolgere attività della vita quotidiana e di cura personale (memoria procedurale). Fromholt e colleghi in uno studio del 2003 valutarono la memoria in modo diretto: erano interessati a esaminare la cosiddetta memoria autobiografica in un gruppo di centenari danesi. Chiesero loro di raccontare liberamente gli eventi più importanti della loro vita e successivamente di associare a ogni parola di una lista un ricordo autobiografico preciso e databile. Tali studi dimostrarono come nei centenari si riscontrasse una distribuzione di ricordi simile a quella di anziani più giovani: tra i fenomeni rilevati troviamo l’amnesia infantile (presenza di pochissimi ricordi provenienti dall’età infantile), il balzo del ricordo (gli anziani riportano soprattutto ricordi delle prime fasi dell’età adulta giovane ipoteticamente per via delle due guerre mondiali che segnarono i loro 15–30 anni) e l’effetto di recenza (tendenza a ricordare gli ultimi eventi della loro vita). Un altro dato importante deriva dall’analisi degli aspetti emotivi dei ricordi: i centenari riportano con maggiore frequenza eventi a valenza neutra piuttosto che a valenza emotiva (sia negativa che positiva). Una delle spiegazioni di questo dato è la cosiddetta gerotrascendenza, secondo la quale gli anziani nell’ultimo periodo della loro vita si sentirebbero più contemplativi, in comunione con l’universo e più vicini a un’altra vita, permettendo al loro ricordo di essere dunque più oggettivo e distaccato.

    Il linguaggio, l’attenzione e il ragionamento. Non esistono ancora studi sistematici sui processi del linguaggio, dell’attenzione e del ragionamento dei centenari. Per le ricerche sul linguaggio vengono solitamente somministrati test di denominazione (serie di oggetti di cui l’anziano deve dire il nome): in genere i soggetti fanno più fatica con i nomi degli oggetti poco frequenti, ma in generale mostrano un’abilità di denominazione simile ai gruppi di anziani più giovani. Uno studio più accurato fu quello di Searl, Gabel e Fulks interessati ai cambiamenti di velocità e fluenza del linguaggio: non si riscontrarono grandi differenze nella fluenza verbale tra i centenari e i più giovani, ma il linguaggio diventava sempre più lento con errori tra i vocaboli all’interno della frase e nelle revisioni e ripetizioni della parola stessa. Per quanto riguarda l’attenzione, le prove hanno valutato soprattutto l’abilità di mantenerla focalizzata su un’attività o di alternarla tra due compiti diversi: per esempio l’anziano viene invitato a tracciare un percorso seguendo dei numeri in ordine crescente o alternando ai numeri delle lettere. Il ragionamento viene infine valutato con test di calcolo matematico. In nessuna di queste prove i fuggitivi mostrano particolari difficoltà di esecuzione.

    Un cocktail per la longevità cognitiva. è risaputo quanto uno stile di vita sano e un’alimentazione corretta contribuiscano a preservare i processi cognitivi dal deterioramento e da malattie e disturbi che l’invecchiamento porta con sé. Conosciamo meno quali siano i processi che determinano la longevità dei processi cognitivi e perché i cosiddetti centenari fuggitivi mostrino abilità intatte. Nel 2004 Kliegel, Zimprich e Rott hanno evidenziato in uno studio come gli anziani che non avevano smesso di dedicarsi ad attività intellettive (mantenere un libretto di assegni, apprendere una lingua straniera, viaggiare, tenere un diario, scrivere romanzi, dipingere...) ne ricavassero un vantaggio importante per il loro stato cognitivo generale. Tuttavia vivere molto a lungo non dipende soltanto da fattori di tipo cognitivo, ma anche da aspetti emotivi e di personalità: tutti i centenari che hanno mostrato atteggiamenti positivi, voglia di fare e capacità di modificare il comportamento in base a richieste fisiche e ambientali ottengono buone prestazioni in tutti i test.

    Nel tentativo di fornire un identikit del centenario si è dimostrato come variabili quali stato di salute autopercepito e rete sociale possano influenzare in modo importante questa età adulta avanzata. Ruoli importanti hanno la componente genetica, le abilità cognitive e le funzioni di memoria. Studi successivi dovranno ampliare ancora le conoscenze sull’influenza di variabili emotive, motivazionali e di personalità nel diverso atteggiamento del centenario nell’affrontare le sfide quotidiane.

    Le teorie dell’invecchiamento

    L’invecchiamento si può riferire a tre tipologie di teorie, che si suddividono in:

    teorie genetiche: hanno un peso pari al 20–30%, il numero delle divisioni cellulari è limitato ad un massimo di 120 anni e nel nostro DNA si trova scritto il numero delle duplicazioni possibili delle cellule (Hayflick e Moorehead, 1961);

    teorie ambientali: l’invecchiamento è dovuto ai problemi causati dall’ambiente e non riparati in tempo. Tra queste ritroviamo la Teoria dello Stress Ossidativo, secondo cui l’invecchiamento sarebbe causato dall’accumulo di radicali liberi (Harman, 1956), che a sua volta incide sulla capacità di ristabilire l’omeostasi, rendendola pressoché impossibile, e sulle difese immunitarie che diminuiscono e si va incontro a maggiori malattie;

    ipotesi multifattoriale: prende in considerazione sia i fattori biologici che quelli ambientali, a causa della forte variabilità (Baccella, Annoni, Università degli Studi di Milano — Bicocca).

    Un’ipotesi biochimica riguardo all’invecchiamento

    Tra le ipotesi formulate riguardo l’invecchiamento, viene vista con notevole interesse quella che pone il Sistema Nervoso Centrale alla base di

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