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Storie dell'Anonima Piloni: Storie di rugby, di viaggio, di avventura.  E di vita vera.
Storie dell'Anonima Piloni: Storie di rugby, di viaggio, di avventura.  E di vita vera.
Storie dell'Anonima Piloni: Storie di rugby, di viaggio, di avventura.  E di vita vera.
E-book126 pagine1 ora

Storie dell'Anonima Piloni: Storie di rugby, di viaggio, di avventura. E di vita vera.

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Info su questo ebook

Le storie dell'Anonima Piloni non sono semplici racconti di rugby. Sono storie di rugbisti che hanno faticato, girato il mondo in lungo e in largo, cercato e trovato nuovi orizzonti ovali. Sono giocatori che hanno qualcosa da raccontare, preferibilmente davanti ad una birra e a qualcuno che vuole sentirsi proiettato in un mondo diverso, strano a volte, proprio come un pallone ovale, a volte, può sembrare.
LinguaItaliano
Data di uscita4 nov 2019
ISBN9788834196175
Storie dell'Anonima Piloni: Storie di rugby, di viaggio, di avventura.  E di vita vera.

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    Anteprima del libro

    Storie dell'Anonima Piloni - Cristian Lovisetto

    TEMPO

    INTRO

    Ho riunito l’Anonima Piloni in un freddo giorno di gennaio del 2016.

    Sarà stato il tempaccio fuori, sarà stata quella voglia di raccontare qualcosa, sarà stato quello strano prurito alle mani che voleva sfogarsi su una tastiera, sta di fatto che da quasi quattro anni l’Anonima si riunisce nella sua ideale club house, spilla qualche birra e si ricorda dei bei tempi ovali.

    Tempi passati, presenti e futuri.

    Ora queste esperienze diventano un volumetto.

    Il primo, si spera, perché è giusto che certe storie facciano il giro largo, passino di bocca in bocca, di boccale in boccale.

    Spero questi racconti possano divertirvi e allietare il vostro tempo più utile, quello cioè dedicato alla lettura.

    Ad maiora.

    Cristian Lovisetto

    AVEVO VOGLIA DI CORRERE

    No, non credo di essermi mai sentito più inutile di così.

    Stanco, sfatto, la camicia sporca, i pantaloni sdruciti e sangue che fa capolino da dove poi dovrò cucire una toppa.

    Deve essere stato Smith, lui e le sue dannatissime scarpe rinforzate. O forse il ruzzolone nel tentativo di prendere la palla, un paio di azioni fa. Non ci volevo giocare. Non volevo nemmeno venire qui oggi. Hanno insistito, dai che stavolta vinciamo, dai che è la volta buona. Il sangue irlandese ereditato da mio padre, intriso di orgoglio, ha fatto il resto. Forse lui ne sarebbe orgoglioso, di sicuro lo sarà, ovunque lui sia, da qualche parte lassù. Ma io odio il calcio. Oddio, odio. Non lo amo particolarmente. Preferisco il cricket, ma forse è solo perché lì sono più bravo. O forse perché, ogni tanto, riesco a battere quel maledetto Southgate. Non lo sopporto quando lo incrocio nei corridoi della scuola, né lui né la sua spocchia. E nemmeno i suoi amici, quelli che vogliono sempre giocare a calcio, quelli che ci sfidano sempre. Quelli che ci battono, quasi sempre. Anche oggi, 1 novembre 1823. Oh, non tocchiamo palla. E poi ve l’ho già detto, non sono capace. Non come loro, almeno.

    Fanno un altro gol. Noi riusciamo solo a dispensare qualche generosa pedata.

    Palla o tibia, quel che viene.

    Ah, capiamoci: è permesso colpire l’avversario sotto il ginocchio. Nessuno si lamenta. È permesso afferrare e/o afferrare la palla con le mani. Ma si può avanzare solo calciando. Ne consegue una discreta serie di mischie furibonde nelle quali una buona metà dei giocatori non sa dove sia finito il pallone, ma nel dubbio calcia. Palla o tibia, quel che viene. Poi loro calciano la palla, avanzano e segnano. Facile. Per loro.

    Io non ne posso più.

    Non è il mio posto.

    Questo campo non è casa mia.

    Mi sento in gabbia, ma non ho il libretto delle istruzioni per fuggire.

    Ho davanti Southgate, biondo e tozzo. Naso largo e risata singhiozzante lo fanno assomigliare incredibilmente ad un suino. Ma quanto è forte con la palla, ha già segnato due gol. Calcia la palla, è più veloce e vuole superarmi. Non so che fare. Vorrei tirarlo giù dalle spese, buttarlo giù a mangiare un po’ di fango e terra, ma sarebbe una dimostrazione di inferiorità. Fermo la palla con le mani, Southgate mi è addosso. Spinge, si può. Non riesco a calciare, non ho nessuno dei miei a fianco, né dietro.

    Non voglio perdere.

    Sento le gambe pulsare, mi dicono qualcosa. Scalpitano, le seguo, corro.

    In avanti.

    Al diavolo che non si può, mi sono stufato.

    Southgate non capisce e si ferma. Si fermano tutti, anche i miei, anche Smith e le sue scarpe rinforzate. Quanto siamo di riflessi lenti, noi britannici. Ligi alle regole, quasi mai un guizzo che non sia ben dentro la legalità. Io continuo a correre, i pali si avvicinano sempre di più, poi appoggio la palla.

    Mi guardano tutti strano, uno mi spinge.

    Che diavolo fai?

    Non sono queste le regole

    Sei pazzo?.

    Stop.

    Quanto tempo è passato da quel pomeriggio.

    Ero un povero pazzo, anche un po’ frustrato. O almeno, così mi avranno considerato gli altri attorno a me. Mai più giocato a calcio, finii gli studi e presi gli ordini. Fui cappellano e parroco, protestante. Poi terminai il viaggio terreno e arrivai qui. Ogni tanto passo e vengo a rivedere i miei anni giovanili, tutto registrato. Sono un po’ nostalgico, lo so. Poco tempo dopo di me è arrivato qui un antiquario, tale Bloxam. Lui si ricordava di me, ero quello che corse via con la palla in mano in un pomeriggio di novembre. Non credevo di essere così famoso. Sembra però che qualche anno dopo qualche altro ragazzo abbia cominciato a giocare portando avanti la palla con le mani, così come feci quel giorno. Sembra anche che però nessun altro, quel pomeriggio, mi abbia visto fuggire con la palla in mano. Non mi stupisco, nel 1823 in un college era doveroso seguire le regole, se non lo facevi eri un trasgressore, uno da dimenticatoio.

    Ma la storia di Bloxam, la mia storia, sembra abbiano fatto breccia qualche tempo dopo.

    Il mio college, il Rugby College, ha dato il nome ad uno sport in cui si corre con la palla in mano.

    Il trofeo per la squadra più forte al mondo, da decidere una volta ogni quattro anni, reca il mio nome.

    Eppure quel giorno ero stanco, volevo solo andare via.

    Via da Southgate.

    Via dal campo di calcio.

    Via da tutto, anche senza libretto di istruzioni.

    Mi chiamo William Webb Ellis, e quel giorno non credevo di inventare un nuovo sport.

    Avevo solo tanta voglia di correre.

    FRONTE DEL RUGBY

    Carajo , in che casino sono finito stavolta? Tra camalli torvi e ubriachi, tra nebbia fuori e dentro il locale, tra prostitute che non prendono iniziativa alcuna. Davanti ad un massiccio esemplare di essere umano, pezzo unico nel senso che non ci vedi torace ed addome. So solo che si è tolto le scarpe. Mocassini, per la precisione. Uno l’ha lasciato lì, l’altro lo tiene in mano. Stretto, entrambi i palmi esercitano una notevole pressione su quel brandello di bovino morto e trattato.

    Mi guarda, torvo pure lui.

    Il tizio, intendo, non il bovino.

    Bravo, così imparo a tenere la bocca chiusa.

    Sapete, nel serrare le mascelle, a volte, ci sono due vantaggi non indifferenti: il primo è che non si parla, e quindi si evita il rischio di parlare a vanvera. Il secondo è che non si introducono sostanze.

    Ecco. Stasera, come le altre sere, ho fatto uno zero su due così netto e inequivocabile che nemmeno se mi fossi impegnato.

    Ho bevuto come una cloaca e ho parlato troppo.

    E no, non è la prima volta.

    Certo che mi hanno provocato, tutto quel che volete, ma se avessi bevuto e basta tutto questo non sarebbe successo. Sarei passato per uno dei tanti porteños di passaggio qui al porto di Genova. Uno dei tanti marinai che passano di qui, sfatti per il viaggio o con la schiena spezzata dal duro lavoro giornaliero. Uno di quei personaggi avvolti da un alone di mistero, con un nome italianissimo, Roberto Matarazzo, e un cuore che più argentino non si può. Uno di quelli che, solitari e taciturni, in mancanza di amicizie e compagnie avrebbe preso nota sul dove e sul come racimolare un po’ di amore dentro a un bar. Ne circola più di qualcuna, qui in zona. Certo che potrei, ma non mi interessa.

    Non, qui almeno. O forse non così.

    No, mi sono bevuto parecchi soldi di birra e, come tanti, ho cominciato a straparlare. Ma mica per cattiveria.

    Sono di Buenos Aires, ve l’ho già detto, nome e cognome sono italiani, e vi ho detto pure questo.

    All’inizio mi hanno preso pure in simpatia. Poi ho continuato a menar la bocca.

    Ho parlato della mia città, del mio porto, di quel che faccio lì.

    E di rugby. Capita, ogni tanto, quando la luce ovale la irradi senza consapevolezza.

    Ho scoperto che a Genova c’è una discreta squadra e allora ho detto a tutti che sono un giocatore.

    E che gioco con i Pumas.

    Hanno cominciato a prendermi per il culo. A pensarci bene, è la prima cosa che avrei fatto anch’io.

    Señores , mica dico un bugia. Ho giocato centro per la Nazionale Argentina.

    Più di una volta.

    Ho segnato pure tre mete in una sola partita. D’accordo, era il Paraguay, il rugby da quelle parti è qualcosa che hanno visto troppo poco, ma sono finito pure in Sudafrica, contro le Gazzelle. Che sarebbero gli Springboks, ma sono gli anni dell’apartheid e nessuno gioca (ufficialmente) contro la Nazionale Sudafricana.

    Ho giocato centro dietro ad Hugo Porta, carajo, lo conoscete Hugo Porta? Un fenomeno, un gran fenomeno. Da avversario, quando gioca col Banco Nación, ci massacra ogni volta. Hijo de puta . E pure per noi centri, in Nazionale, era durissima: la palla la vedevamo poco, calciava tantissimo, ma di giocatori così ne nascono due o tre in un secolo.

    Nel mondo, claro .

    Un onore sacrificarsi per lui, a volte. E mica ho indossato solo quella maglia: sono un giocatore del SIC, il San Isidro Club. Ne sono passati tanti, di fenomeni, da queste parti. Mi raccontava mio padre che con questa maglia ha giocato pure il Che. Che Guevara, sì, proprio lui. Un bel mediano di mischia, mi diceva. Grintoso, non un gran fisico, ma gran placcatore. Ha smesso presto, il resto

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