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Baseball & Autismo. Due storie vere.: L'impossibile non esiste.
Baseball & Autismo. Due storie vere.: L'impossibile non esiste.
Baseball & Autismo. Due storie vere.: L'impossibile non esiste.
E-book266 pagine2 ore

Baseball & Autismo. Due storie vere.: L'impossibile non esiste.

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Info su questo ebook

Due libri, un Ebook. 
Il sogno americano del TOMATO BASEBALL CLUB & Sono Cesare ... tutto bene  
Due storie definite impossibili, che diventano realtà grazie al potere fecondante di quelle relazioni che ognuno di noi avrebbe il diritto di vivere almeno una volta nella vita. L'Altro che rapisce con la passione per un sogno da vivere assieme. L'Altro che conduce il passo di un percorso che trasforma e porta ad una crescita  impensabile all'inizio del cammino. Per riuscire finalmente a vivere con un unica piattaforma di riferimento. La realtà. Il Baseball altro non è che una meravigliosa metafora della vita. Non sarà necessario conoscere le regole di questo sport per vivere pienamente, durante la lettura dei racconti, l'avventura del TOMATO BASEBALL CLUB. Un particolare "viaggio dell'eroe" che darà gli strumenti relazionali ad uno dei protagonisti per poter affrontare l'autismo di Cesare. Il baseball e l'autismo. Due mondi all'apparenza incomprensibili che, dimenticandosi di se stessi, per vivere nell'accoglienza, nell'attenzione e nell'ascolto di queste realtà sconosciute, permettono di entrare in un nuovo modo di vivere il Noi. Mettendo in comunicazione il Sentire e il Capire. Una volta che avrete finito di leggere queste due storie capirete perchè "l'impossibile non esiste".
LinguaItaliano
Data di uscita14 ott 2019
ISBN9788835312819
Baseball & Autismo. Due storie vere.: L'impossibile non esiste.

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    Anteprima del libro

    Baseball & Autismo. Due storie vere. - Giovanni Tommasini

    Note

    Baseball e Autismo

    Due storie vere.

    I L S O G N O A M E R I C A N O

    D E L

    T O M A T O B A S E B A L L C L U B

    E

    A L T R I R A C C O N T I

    a Matteo

    Prefazione

    di Giovanni Colantuono

    creatore e direttore editoriale di Baseballmania,it

    Chi ha giocato a baseball, a mio giudizio, è una persona per certi aspetti speciale. Il baseball non è uno sport qualunque, il baseball non forma solo atleti veri. Il baseball forma uomini particolari. Come Giovanni Tommasini. Giocatore di baseball e oggi scrittore. Lui è passato per quel campo di forma particolare che si chiama diamante. Il verde dell’erba, la terra rossa; metti il caschetto, impugni la mazza e ti appresti a entrare nel box di battuta. Tu contro tutti: su quella collinetta c’è il lanciatore pronto a sfidarti; intorno a lui, i suoi compagni di squadra pronti a eliminarti se non ci riesce quel lanciatore.

    Giovanni Tommasini l’ha vissuto sulla sua pelle, ha provato cosa significa scivolare su quella terra rossa per arrivare in base prima che i difensori avversari riescano ad eliminarti.

    Una mail, una telefonata e ho conosciuto Giovanni. Dopo aver scambiato due parole ho subito capito quanto il baseball sia ancora nella sua vita. Quando poi ho letto Tomato , il suo primo racconto, mi sono reso conto quanto sia speciale questo autore ligure. Tutto il bello, tutta la magia di questo sport si ritrovano nei suoi scritti, prendendo spunto dalla nascita della prima squadra di baseball nella città di Sanremo fino alla favolosa storia di Alex Liddi. Il primo vero professionista da Major League italiano. Di Sanremo.

    Quelli di Tommasini non sono semplici racconti. Con le sue citazioni di grandi scrittori, di grandi compositori e di grandi poeti, riesce a fare del baseball un insegnamento di vita. Il baseball non solo come sport di squadra ma come vera e propria palestra di vita. In ogni suo ruolo, dal lanciatore al ricevitore, dall’interbase all’esterno, questo sport ha qualcosa da dare.

    Scrive Tommasini parlando del lanciatore in Nove Le Punte Di Diamante : " La traiettoria richiesta dal ricevitore, una possibilità di attracco per il battitore; l’incontro della mazza con la pallina lanciata, lo sbarco sognato sul nuovo mondo.

    Eroi. Possiamo essere eroi, per un solo giorno e per sempre ".

    Da lì sono arrivare le pubblicazioni sul mio sito Baseballmania, perché ho creduto subito in quello che Giovanni mi stava proponendo. Mai nessuno in Italia aveva scritto di baseball nel modo in cui lo ha fatto lui. Dai primi racconti a quelli che Giovanni ha iniziato a scrivere in seguito, qualcosa è nato anche dallo scambio delle nostre idee, come lo splendido racconto della vita di Agostino Liddi. L’origine di Alex Liddi.

    Poi tutto è successo in poco tempo, perché i racconti di Tommasini volano veloci, come una dritta oltre le 90 miglia di un pitcher di Major League. Fino ad arrivare a questo libro che raccoglie, con un filo conduttore unico, tutti i racconti di questo grande scrittore ligure. Il primo grande scrittore di baseball in Italia.

    Chi ha giocato a baseball è una persona speciale.

    Quando avrete finito di leggere questo libro avrete capito anche il perché.

    Introduzione ai racconti sul baseball

    Questi racconti, che letti insieme possono essere visti come un trattato sul gioco del baseball, vi introdurranno nel particolare e affascinante mondo del battiecorri.

    Si narrano le vere vicende di una quindicina di ragazzini che, dai sotterranei di un parcheggio nel centro della spettacolare Sanremo di fine anni Settanta, appena undicenni, inizieranno a far propri i segreti di quest’arte.

    L’Arte Del Baseball raccoglie dodici capitoli di questa fantastica avventura che, in pochi anni, porterà questi adolescenti dalle catacombe alla serie A.

    Il baseball è narrato come grande metafora della vita. Uno sport che, contemplando sia la sfida individuale sia il coinvolgimento di squadra, dà la possibilità – a chi ha la fortuna di apprenderne i segreti e la più sincera filosofia – di cambiare per sempre il proprio rapporto con la realtà, richiedendo una grande capacità di articolare e prevedere le infinite possibilità che lo sviluppo del gioco consente.

    Due grandi maestri accompagneranno in questa crescita interiore i quindici piccoli inconsapevoli eroi del baseball, trasmettendogli, ciascuno, la propria unica e irripetibile visione del gioco, ma anche della vita.

    Questo è ciò che io ho vissuto in quegli anni, e nelle pagine di questo libro si potranno assimilare regole (le regole per la libertà) e trame di gioco, ma soprattutto l’esperienza di questa squadra che è una grande testimonianza dei più veri, autentici e puri valori dello sport e delle relazioni umane.

    Si prende spunto da questa esperienza unica vissuta a Sanremo tra il finire degli anni Settanta e la metà dei Novanta per descrivere le diverse e innumerevoli situazioni che, a partire da precise regole, possono prendere vita e coinvolgere tutti coloro che hanno la fortuna di approcciare il baseball. Una disciplina paragonabile a nessun’altra, che prevede, al di sopra del coach, dell’allenatore, la figura del saggio. Per molti aspetti si avvicina alla filosofia e mentalità degli indiani. Segnali segreti, strategie appropriate secondo le diverse individualità degli avversari…

    Una volta fatta propria l’essenza profonda di questo affascinante sport, non è più possibile dimenticarne l’esistenza.

    Nel corso della lettura, senza fatica si approcceranno i momenti più importanti di questa disciplina per capirne le regole e lo svolgimento di una partita. Per poi uscire di casa, tracciare un quadrato 18 per 18 [¹] , decidere l’angolo sul quale piazzare la casa base e, di conseguenza, le altre tre basi necessarie per tornare all’origine… e iniziare a giocare.

    Non rimane che augurarvi una buona lettura.

    Giovanni Tommasini

    Tomato.

    Piccoli e Inconsapevoli

    Eroi del Baseball

    Era così che ci chiamavamo. Le casacche erano gialle e arancioni con scritto sul petto TOMATO.

    A me Tomato faceva venire in mente quelle belle scatole di pomodoro che avevano ispirato Andy Warhol. Noi eravamo così, piccoli contenitori pieni di polpa rossa vivissima.

    Avevamo deciso di giocare a baseball e chiesto una palestra al Comune.

    E il Comune (che probabilmente avrà pensato: Baseball? Che roba è?!) ci aveva dato i sotterranei di un posteggio nel centro della città dei fiori. Il piano zero di tre piani, dei quali già i primi due sotto il livello del suolo.

    Noi chiamavamo la nostra palestra le catacombe.

    Insieme a noi, in quel luogo dalle pareti rocciose completamente e sempre grondanti umidità, c’erano quelli che si bucano. Noi da una parte a perderci dietro a una maledetta pallina, loro al lato opposto, presi da una maledizione, persi in labirinti di dolore.

    C’era una reciproca indifferenza mista a rispetto, tra i due gruppi: nessuno voleva perdere quel posto.

    In strada, aspettando che arrivassero tutti i compagni, senza i quali mai avremmo voluto scendere laggiù, spesso iniziavamo a lanciarci la palla, per scaldare il braccio… e ogni tanto una cadeva lì sotto.

    In quel caso, al responsabile della mancata presa o del lancio sbagliato (erano discussioni infinite, surreali) toccava andare a recuperarla, da solo, con la consapevolezza di poter incontrare faccia a faccia quei ragazzi che, al posto del braccio, scaldavano un cucchiaio al quale chiedevano la restituzione di un calore mai provato.

    Una volta arrivati tutti, si scendeva insieme. Dovevamo ancora imparare l’arte del baseball, ma eravamo già una vera squadra, sicuri che niente ci sarebbe capitato e che i nostri vicini avrebbero capito la nostra missione. Era una relazione di reciproca comprensione. E quando una pallina li raggiungeva, con un sorriso come per scusarsi, ce la rilanciavano.

    Stava nascendo il Sanremo Baseball Club.

    La paura di una discesa in solitaria si trasformava in un entusiasmo sordo scandito dal secco incontro della pallina con il guanto durante i lanci che aprivano ogni allenamento.

    Uno di fronte all’altro, alternavamo il lancio alla ricezione, guardandoci negli occhi per cercare di capire che ci stavamo a fare, in quel luogo: dieci anni appena compiuti e la mano spaccata in due dalla pallina appena ricevuta.

    Ho la mano ghiacciata, come faccio a ricevere ’sta pietra che lei ci dispensa manco fosse un’ostia?! pensavamo guardando il nostro maestro. Solo lui sapeva.

    Lo avremmo capito anche noi una volta iniziata la primavera, quando avremmo fatto gli stessi esercizi con il caldo e sul diamante nell’unico campo da baseball tra Liguria e Costa Azzurra, e la sensazione provata sarebbe stata come quando, dopo dieci ore di sci, dagli scarponi si passava ai moon boot: una sensazione di liberazione, come volare.

    Ma tutto ciò, per il momento, non potevamo neanche sognarlo.

    E non era permesso lamentarsi.

    Infatti, dopo le prime ricezioni, il dolore si scioglieva in calore e la pallina diventava un tutt’uno che andava dal nostro guanto al braccio del nostro compagno, il quale, lancio dopo lancio, ne avrebbe ricevuto uno più violento di quello da lui appena eseguito.

    Ci davamo dentro come matti.

    C’erano solo due guantoni completamente diversi dagli altri. Quello del prima base e quello del ricevitore. Entrambi molto ambiti, soprattutto perché permettevano difendersi al meglio dalla bastardaggine di quella pietra che non avevamo ancora deciso se amare o odiare.

    Il più bello era quello del ricevitore. Tondo, con i bordi spessi e morbidi, due grandi labbra magiche, risucchiava la palla senza far provare alcuna sofferenza a chi lo usava. Tutti lo volevamo, ma solo uno lo poteva avere.

    A chi, questo privilegio? Che qualità doveva avere il ricevitore? Quali la prima base?

    Per il momento ci si alternava in tutti e nove i ruoli, ma per ciascuno era prevista una personalità e delle abilità uniche e differenti. Non ne eravamo ancora consapevoli, facevamo solo ciò che ci veniva indicato dai nostri due allenatori.

    Marcello e Fulvio

    Erano lì con noi e un progetto comune: creare una squadra di baseball, la migliore della Liguria.

    Il fatto che per il momento non ce ne fossero altre permetteva loro di aver la sicurezza che solo i grandi ideali possono assicurare.

    Due personalità opposte. S’integravano perfettamente.

    Volevano la stessa cosa, ma per realizzarla partivano da punti diversi.

    Era il loro personale rapporto con la realtà a essere differente.

    L’uno, Marcello, del tutto curava in modo maniacale le varie parti. L’altro, Fulvio, prendeva queste parti e le disponeva sul diamante per farci vivere un fantastico assemblaggio che assicurava il tutto.

    Le parti erano i fondamentali.

    Il tutto, la strategia di gioco.

    Non si erano divisi i compiti, era una loro profonda esigenza.

    Due approcci diversi alla vita.

    Era una risposta alla Mancanza. Quella più antica, eterna, nata con lo sbarco dal perfetto e saturo mondo prenatale.

    Come affrontarla?

    Due modi, due possibilità, due strade diverse.

    Tentare l’impresa impossibile che lasciava ogni volta rabbia e delusione e cercare di riempire quel vuoto.

    Era ciò che tentava di fare Fulvio.

    O accettarla, questa irrisolvibile mancanza. Scontando la vittoria della realtà sul progetto ideale, girare attorno al vuoto come un satellite in una continua e vitale ricerca del gesto perfetto. Giorno dopo giorno, allenamento dopo allenamento, lancio dopo lancio, ricezione dopo ricezione, faceva i conti con la sua Mancanza, curava ogni particolare perché per lui la vita era una allenamento alla sofferenza, non una partita con questa.

    Marcello aveva scelto la cura dei fondamentali, il particolare. Lui era così.

    Asciutto, spigoloso, essenziale… non ci raccontava storie.

    Voleva renderci unici, farci sentire la fiducia che aveva in ognuno di noi: tutti potevamo dare il meglio di noi stessi, esprimere la nostra autenticità. Era un fuoriclasse. Anzi, fuori competizione: era fuori dalla logica di vinti e vincitori.

    Per lui il baseball era un’arte.

    Infatti, alle partite aveva rinunciato a venire. Soffriva troppo, non ce la faceva. O forse, semplicemente per lui non contava il risultato finale, troppo volgare. L’importante era esprimere noi stessi nel gioco, nel gesto, nella capacità di isolarci da tutto una volta iniziata la partita. E dare tutto.

    Per aver la sicurezza, una volta rientrati negli spogliatoi, di aver fatto il proprio dovere sino in fondo.

    Avrebbe voluto farci sentire, capire, far diventare anche nostro il suo modo di vedere. E noi, alla fine di ogni allenamento, sentivamo di essere strati nutriti da lui.

    Dopo, nessuno sarebbe più riuscito a cambiare il nostro modo di essere agli allenamenti e in campo.

    Avevamo appena iniziato a scrivere la nostra età in doppia cifra ma affrontavamo ciò che ci insegnava da professionisti, perché era più bello, più coinvolgente.

    Sentivamo che nulla sarebbe stato come prima.

    Io lo amavo, lo sentivo vicino.

    Sapevamo che non voleva fregarci. Voleva svuotarci, allontanare per sempre l’adulta agonia del riscatto.

    Non vi riscatterete mai, voleva farcelo capire.

    Arrendetevi, curate i particolari, godetevi ogni momento. Alla fine sarete coinvolti. La pallina battuta dall’avversario verrà come in un flash verso di voi e lì, in un attimo, non avrete che da essere unici, veri. Tutto l’allenamento fatto, i fondamentali ormai parte integrante del vostro essere al mondo… in un attimo, in automatico, o vi permetteranno di dare la risposta migliore e far vostra la palla per poi eliminare il battitore, o non la vedrete neanche passare, e avrete solo da aspettare la prossima occasione.

    Ci chiedeva ogni volta una dedizione totale, di essere parte di un’impresa.

    Avevamo da confrontarci anche con Fulvio. L’altra faccia della medaglia, si potrebbe dire. Bastava guardarlo per capire che la prospettiva era ribaltata, non solo diversa.

    Charlie Brown della riviera dei fiori, lui tentava l’impossibile.

    Tornare alla totale

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