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Pugni su Pugni
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E-book286 pagine3 ore

Pugni su Pugni

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Info su questo ebook

Sostiene Jack London che è molto meglio «essere campione del mondo dei pesi massimi piuttosto che re d’Inghilterra, presidente degli Stati Uniti o kaiser di Germania». E proprio da lui, e dalla sua passione per la boxe, siamo partiti per raccontare storie di grandi personaggi che hanno reso grande il pugilato. Si va dall’epoca dei pionieri, come John L. Sullivan, Bob Fitzsimmons e Jack Johnson, all’epoca d’oro: quella di Rocky Graziano, Jake LaMotta, Sugar Ray Robinson, passando per Muhammad Ali, Nino Benvenuti, Carlos Monzon, Sugar Leonard, Mike Tyson, per chiudere con l’ultimo re della boxe: Floyd Mayweather Junior.
Questa raccolta è l’ampliamento di Diavoli e pugni (1997), arricchito di nuovi personaggi – 35 in tutto – e di una serie di classifiche che, non essendo basate su numeri ma su impressioni, sono soggettive e aperte a confronti.
Solitamente la boxe è una storia in bianco e nero: nei ricordi fotografici, nei suoi protagonisti, nel caratterizzare tutto quanto passa sul ring, attorno al ring e anche nella vita dei pugili. Secondo Albert Camus è un rito manicheo capace di semplificare ogni cosa: vi regnano il bene e il male, il vincitore e il perdente. Queste storie di vita e di boxe sembrano dimostrare che Jack London e Albert Camus avevano ragione. Ma che, soprattutto, vince la grandezza dei suoi attori e la passione che trasmettono.
LinguaItaliano
Data di uscita11 dic 2015
ISBN9788868992156
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    Anteprima del libro

    Pugni su Pugni - Riccardo Signori

    Ho incontrato la boxe

    di Jack London

    Di tutti gli sport, l’unico che ami veramente è la boxe. Certo, è uno sport che a poco a poco va scomparendo. Ma mi auguro che, nei giorni che mi restano da vivere, ci sia sempre da qualche parte un’arena in cui poter andare.

    Le regole fissate dal marchese di Queensberry dichiarano che l’incontro di boxe deve essere un incontro in cui i pugili si scambiano colpi con correttezza finché rimangono in piedi. Rimanere in piedi è il nocciolo di questo sport: star su, non andare al tappeto, non scappare, tenere il ring contro il mondo intero… Ecco lo spirito del pugilato. E, una volta che s’è detto tutto quel che si deve dire, risulta chiaro che il pugile, brutale, muscoloso e barbaro com’è, è poi di gran lunga più bello dell’esangue decadente. L’uno possiede in sé una promessa: la sua è certo una virilità eccessiva, primordiale, ma da essa si può trarre, raffinandola e disciplinandola, una nobile forza. L’altro invece non possiede speranze: dai fiacchi e dagli effeminati possono venire solo malattia e follia e morte. E allora è molto meglio essere primordiali che decadenti. E coloro che oggi sono forti e robusti, e tuttavia si ritraggono inorriditi alla vista di un incontro di boxe, farebbero bene a rammentare che discendono dai lombi di individui primordiali e che il decadente non ha prole. Conosciamo la brutalità di un campo di battaglia: agli occhi di molti, un tè delle quattro è preferibile. Ma sarebbe bene ricordare che proprio i campi di battaglia rendono possibili i tè delle quattro. E che per ogni poeta che declama c’è un soldato che combatte, e che se non ci fossero soldati che combattono i poeti potrebbero solo levar lamenti.

    Ogni pugile nasce con quel certo numero di incontri dentro di sé. Quando li ha combattuti tutti, è finito. Potrà anche tentare di combattere ancora, potrà forse cercare di tornare sul ring: ma sarà destinato alla sconfitta. Il suo spirito vuole tornare, ma la sua carne non ce la fa. […] Cosa gli è successo? I tifosi diranno che ha perso lo smalto, ma si tratta di un’astrazione equivoca perché c’è uno smalto che è direttamente legato al cervello ed è chiamato grinta, fegato. E allora quel dato pugile può essere grintoso, come è sempre stato, e al tempo stesso non essere capace di far ritorno sul ring.

    Certo, il pugilato può essere brutale. Ma, a mio modesto avviso, ci sono cose ben peggiori. Ad esempio, il pugilato ha norme di condotta molto rigide e un ferreo fair play lo regola: certi colpi sono proibiti, non è ammesso che giganti incontrino nanerottoli, ma i pesi medi si battono con i pesi medi, i massimi con i massimi, i leggeri con i leggeri. Mentre, fuori nel mondo, non funziona lo stesso fair play. Vidi uomini che soffocavano d’indignazione davanti a un incontro di pugilato, ma che si rendevano complici della fabbricazione di alimenti adulterati […] Che ogni anno uccidono più bambini di quelli che ne uccise in una sola volta il crudelissimo Erode. È vero, nel mondo degli affari la pressione fiscale è un colpo proibito: ma che dire della corruzione di legislatori e rappresentanti del popolo? Quanto di peggio può essere accaduto nel mondo della boxe si può forse paragonare al costante inganno del Governo, e dunque del popolo? Per quanto mi riguarda dichiaro di preferire un qualcosa che, forse, sarà anche a modo suo brutale, ma che al tempo stesso è profondamente corretto. Non sono poche le cose che si possono imparare dal pugilato, e se un po’ della correttezza di questo sport venisse introdotta nel mondo degli affari credo che vivremmo tutti in modo più piacevole.

    Preferirei di gran lunga essere campione del mondo dei pesi massimi – cosa impossibile – che re d’Inghilterra, o presidente degli Stati Uniti o kaiser di Germania…

    Scrittore, oltre che boxeur dilettante e autore di reportage sui grandi incontri di pugilato, che proprio in quel tempo passava dal pionierismo al professionismo, Jack London (1876-1916) pubblicò tra il 1910 e il 1911 diversi articoli, da cui sono tratte queste pagine, che riproponiamo per la loro esuberante attualità. Gli articoli, insieme ad alcuni racconti, sono raccolti in Storie di boxe e Sul ring (SugarCo, 1985 e 1986).

    L’epoca dei pionieri

    John L. Sullivan

    Un demonio a mani nude

    Ritratto di John L. Sullivan (credit: Elmer Chickering, 1857-1915)

    Ritratto di John L. Sullivan (credit: Elmer Chickering, 1857-1915)

    John Lawrence Sullivan doveva diventare un prete. Lo avrebbe voluto Katherine, sua madre, che come Michael, il padre, aveva sangue e manie irlandesi. Invece John L. Sullivan divenne il più ubriacone e donnaiolo, rissoso e rumoroso eroe sportivo dell’America del XIX secolo. Lo definirono l’uomo più forte del mondo: bastava dire John L. e tutti sapevano di chi si stava parlando. Era un pugile, ma forse qualcosa di più. Aveva il fascino magnetico di chi sa attrarre le folle, lo dimostrò in vita e anche nel giorno della morte. Guadagnò montagne di danaro, oltre un milione di dollari, e altrettanto ne sperperò e regalò. Quando morì, sotto il cuscino trovarono un biglietto da cinque e uno da dieci dollari: gli restava poco di più. Amò donne di ogni tipo e provò ebbrezze di ogni genere, con particolare esuberanza quelle alcoliche. Ma, alla conclusione del suo tempo, andò in giro per l’America a tenere conferenze sulla temperanza!

    Sullivan fu leggenda e realtà per una nazione alla ricerca di eroi di cui riempirsi d’orgoglio, divenne un’istituzione e un’ossessione collettiva: fu l’ultimo campione del mondo dei pesi massimi a mani nude, aprì l’epoca della boxe con i guantoni, accompagnò il passaggio dalle primordiali London Prize Ring Rules alle regole più moderne del marchese di Queensberry, inondò di sé l’oceano pugilistico verso il quale si rivolse decisamente intorno ai 19 anni, quando abbandonò l’idea di diventare un grande giocatore di baseball, come avrebbe potuto essere. Decise che la scuola non faceva per lui pur avendo imparato, durante i 16 mesi passati nel seminario del Boston College, recitazione e dizione, che comunque gli sarebbero servite nella vita, per raccogliere danari e popolarità. Pugni, bestialità e cattiveria sui ring, allora disegnati per terra, vagamente ottagonali e recintati da corde e pali che parevano steccati, gli diedero molto di più di quelle manciate di dollari che provò a guadagnarsi lavorando prima come idraulico, poi come lattoniere. Sullivan divenne presto The Boston Strong Boy, il ragazzo forte di Boston, città d’adozione. In realtà era nato a Roxbury il 15 ottobre 1858, origini irlandesi, sangue di gente guerriera: il nonno paterno era stato un famoso lottatore e campione nell’uso del randello.

    Allora i pugili combattevano a torso nudo, con i calzoni lunghi o a trequarti della gamba. Sullivan si adornò anche di un bel paio di baffoni che lo resero inconfondibile, costruì quel suo fisico compatto che non superava il metro e ottanta e nei periodi di miglior forma non superò mai gli 85 chili. La storia agonistica si snodò attraverso match validi per un titolo e decine di esibizioni che lo portarono in giro per gli Stati Uniti eppoi per l’Europa. Furono veri affari, in senso economico e sportivo. La fama di questo devastatore del ring divenne presto leggenda: «Posso far fuori ogni bastardo che incontro» era una delle sparate da repertorio. Rifiutò sempre di battersi con i neri, per razzismo, o forse perché l’unico pugile che poteva infastidirlo era di colore. Si chiamava Peter Jackson, veniva dalle Antille: non ebbe mai la chance. John L. glielo fece sapere con una inserzione su un giornale: «In questa sfida includo tutti i combattenti, chi primo arriva meglio si accomoda. Unico requisito: essere bianco. Non combatterò mai con un nero. Non l’ho fatto e non lo farò mai».

    Sullivan riempì di botte i più forti pugili del tempo, spesso mettendoli fuori uso in pochi round: all’epoca i match potevano durare 60-70 riprese, la boxe non era permessa in ogni stato e c’era sempre il rischio dell’intervento della polizia e conseguente galera. Cominciò a combattere da professionista nel 1880 e nel 1882 arrivò al mondiale. L’incontro venne fissato il 7 febbraio 1882, a Mississippi City. Il campione era Paddy Ryan, un irlandese soprannominato il gigante di Troia, che difendeva per la prima volta il titolo dei pesi massimi, naturalmente a pugni nudi. L’avvenimento galvanizzò e attrasse mezzo mondo. I giornali arruolarono novellieri, drammaturghi, scrittori, celebrità d’allora. Racconta la leggenda che sullo stesso treno viaggiarono il bandito Jesse James e il reverendo Henry Ward Beecher, nelle vesti di giornalista. Oscar Wilde abbandonò un ciclo di conferenze e lavorò per un giornale britannico, il drammaturgo Nat Goldwin per un quotidiano americano. Lo sfidante, più piccolo e meno pesante di Ryan, risolse il match a modo suo, abbattendosi sull’avversario, finché al nono round il campione non restò a terra, inanimato. Il match durò dieci minuti, perché le riprese avevano durata variabile. Sullivan divenne campione alla soglia dei 24 anni, incassò 5000 dollari, e cominciò a colorire la leggenda, al fondo della quale venne descritto così: mangia come Gargantua, beve come Gambrinus, ha la forza di Sansone e il talento combattivo di Achille, è un uomo di naturale stravaganza ed esagerata potenza.

    Il nuovo campione monetizzò il mondiale, grazie all’astuzia del manager che lo portò otto mesi in giro per gli States, pronto a fargli incontrare chiunque e a scommettere sulla durata del match. Proponeva da 50 a 1000 dollari a chi fosse riuscito a resistere quattro round. Non ci riuscì nessuno, tranne tal Tud Wilson che, a Filadelfia, usò l’astuzia più che la forza, lasciandosi andare a terra appena Sullivan abbozzava i colpi, evitandone la gran parte, rialzandosi e facendo passare il tempo. Intascò la sommetta e cambiò mestiere.

    Il Gran Tour pugilistico, come fu definito, portò invece in tasca a John L. 187mila dollari, che era gran prendere: Chester A. Arthur, allora presidente degli Stati Uniti, era pagato 25mila dollari; un professore universitario, se fortunato, intascava 2500 dollari. Instancabile girovago, Sullivan fu altrettanto prodigioso nel bere e nel concedersi alle donne. Fece la fortuna di ogni saloon. Non badava a spese e sfide. Esagerato in tutto: mise insieme 67 gin fizz in una seduta, provò a bere 56 bicchierini di brandy in un’ora, perse una volta soltanto un duello a base di champagne, battuto da Tessie Wal, una puttana di San Francisco. Fu introdotto ai piaceri del letto dalle prostitute di Boston e mai ne smise la frequentazione, vedendo nella donna poco più di un oggetto da usare e mostrare. Appena divenuto campione del mondo sposò Annie Bates Bailey, un tipo diverso dalla specie prediletta, e infatti se ne separò presto; lei tornò alle sue terre, il figlio che ne nacque, John Junior, morì a due anni e mezzo per difterite. Solo nella via della mezza età Sullivan avrebbe trovato pace, grazie a Katherine Harkins, una vecchia ragazza di Roxbury, il loro paese natale, che divenne sua moglie.

    Di tanto in tanto John L. affrontava ossi duri anche nel ring. Gli capitò fra le mani un inglese, Charley Mitchell, che a New York lo mise a terra, prima che la polizia intervenisse a fermare il match. Si ritrovarono qualche anno dopo (10 marzo 1888) a Chantilly, in Francia. Da quelle parti la boxe era interdetta, ma il barone Rothschild organizzò la sfida nelle sue tenute, con la compiacenza della polizia, ottenendo di rinviare ogni intervento alla fine del match. Nonostante la netta differenza di peso (Sullivan pesava oltre 90 chili, l’altro appena 72), l’incontro durò 33 round, ovvero 3 ore e 11 minuti: si chiuse in parità. Quando arrivarono, i gendarmi trasferirono direttamente i pugili nelle prigioni di Senlis. Il boxeur americano venne liberato grazie a qualche amico, ma ignorò l’invito del barone francese per una nuova esibizione.

    Dal viaggio in Europa Sullivan ebbe in eredità la conoscenza con il principe di Galles, che lo invitò a colazione alla mensa reggimentale delle guardie scozzesi e volle stringere la mano a quel campione in cui vedeva grandi qualità. Da allora negli Stati Uniti andò di moda una canzoncina che spopolò nei music hall: «Lasciami stringere la mano che ha stretto la mano del principe di Galles». La mano di Sullivan, però, cominciò a tremare per gli abusi del bere. Lo presero attacchi di epilessia, ci volle molto per guarire e tornare in forma.

    Dopo le cure John L. affrontò altri 38 match e soprattutto il mondiale, l’ultimo a pugni nudi, contro Joe Kilrain. Fu una delle più lunghe maratone della storia pugilistica. Per scampare alle ricerche di sceriffi e polizia, che avrebbero impedito il match, venne noleggiato un treno: in partenza da New Orleans si riempì di tifosi, organizzatori e pugili, a disposizione dei quali vennero destinati due vagoni postali per sgranchire muscoli e gambe. Il mattino dell’8 luglio 1889 il treno lasciò il suo carico a Richburg, nel Mississippi. L’incontro durò 2 ore, 10 minuti e 23 secondi, cominciò a mezzogiorno sotto un gran sole e un calore stremante. Sullivan rischiò la sconfitta, al 50° round fu preso da vomito provocato dall’essersi dissetato (!) con whisky ghiacciato. Alla lunga, Kilrain perse ogni forza e i secondi gettarono la spugna al 75° round. Ma la vicenda pugilistica dello Strong Boy era al tramonto. Tre anni più tardi, il campione accettò la sfida di James Corbett, impiegato di banca di San Francisco che preferì la boxe e passò alla storia come Gentleman Jim. Sullivan ormai era ricco, benestante, i pugni facevano più male. Si presentò appesantito (98 kg) e invecchiato nel fisico dopo 14 anni sul ring e avendone 34 addosso. Corbett era più giovane di cinque anni e quel giorno (7 settembre 1892) all’Olympic Club di New Orleans lo dimostrò. Usarono i guantoni, non più pugni nudi. Il match durò 21 round. Il mestiere non salvò Sullivan, che per la prima volta finì ko.

    John L. chiuse con la boxe, salvo qualche ripensamento negli anni successivi. Ma non uscì mai dal cuore della gente. Ebbe successo nelle commedie e nel music hall, provò anche con la politica (fu grande amico di Theodore Roosevelt), combatté le sue malattie con coraggio. Dissipatore e generoso, si arrese ai colpi del cuore il 2 febbraio 1918, nella sua casa di Abingdon, dopo aver subito due infarti. Al primo disse: «Che strano! È il primo attacco che subisco nella mia vita», pensava ancora al ring. Al secondo si addormentò nel silenzio. Eppure non avrebbe potuto andarsene con maggior fracasso. Nel cimitero di Boston ci volle la dinamite per far saltare la terra gelata in cui deporre la tomba, sulla quale nessuno scrisse mai che, là sotto, giaceva un campione del mondo della boxe.

    John Lawrence Sullivan nasce a Roxbury (Massachusetts) il 15 ottobre 1858. Combatte fra i professionisti dal 1880 al 1892. Disputa 47 match: 43 vinti (29 per ko), uno perso (per ko), 3 pari. Campione del mondo dei massimi a pugni nudi dal 1882 al 1889, campione del mondo dei massimi secondo le regole del marchese di Queensberry dal 1885 al 1892. Muore a Abingdon il 2 febbraio 1918.

    Jack Johnson

    Il terrore dei bianchi

    Jack Johnson (pubblico dominio)

    Jack Johnson (pubblico dominio)

    Jack Johnson era un negro. Glielo dicevano con disprezzo. Ma quella era l’America d’inizio secolo. E lui la combatté a modo suo: sul ring, stendendo tutti i bianchi che gli capitavano davanti e, nella vita, collezionando una serie di mogli bianche da far imbestialire i razzisti dell’epoca. Jack London, che allora lavorava per il New York Herald, gli scrisse di tutto, non poteva sopportare il brutto muso nero di quello «stupido africano». E quando lo vide campione del mondo sul ring, non gli restò che appellarsi all’ultimo totem dei bianchi capace di cancellare quella maledizione nera: si chiamava James Jeffries, era stato campione del mondo dei pesi massimi, pareva un invincibile, e infatti si ritirò senza perdere la corona. Ma da cinque anni preferiva coltivare la terra. «Jeff, devi uscire dall’erba medica della tua fattoria e cancellare da Johnson il suo sorriso d’oro. Jeff, dipende da te», gli scrisse Jack London allo stremo delle speranze, dopo aver visto demolire Tommy Burns, un altro bianco, l’ultimo che si era opposto all’umiliazione di avere un nero campione dei campioni, cioè dei pesi massimi.

    Jack Johnson fu il primo campione di colore della storia, una corona, la sua, di odio più che di spine, per certi versi Johnson ricorda il Tyson dei tempi nostri: arrogante, troppo spesso sul limite dell’eccesso, incurante di quel che gli può capitare, anche se allora era molto più rischioso di oggi. Finì più di una volta in galera, e sempre per quella sua pelle nera. Diventato campione dovette fuggire dagli Stati Uniti e ci tornò ormai vecchio, inseguito dal fascino della leggenda. Amò molte donne, il suo corpo bronzeo era pieno di cicatrici, ma lo usava dannatamente bene sul ring e a letto.

    Nacque 15 anni dopo l’abolizione della schiavitù a Galveston, nel Texas. Il suo nome vero, John Arthur, per qualche tempo venne storpiato in Arturino da mamma Tiny, che faceva la bidella e doveva vederlo terribilmente gracile. Per la gente della boxe, invece, Jack Johnson è diventato il gigante di Galveston, racchiuso nel suo metro e 90 e 87 chili di peso forma, un bellissimo atleta dalle smisurate braccia (un metro e 88 di allungo), un metro e 9 cm di circonferenza toracica, un cranio raso e lucido come una palla: un monumento vivente, altro che Arturino. Un’immagine folgorante, come quel sogghigno che compariva all’aprir di bocca, adornato da due denti d’oro. «Per offrire un sorriso d’oro ai miei avversari mentre li picchio», raccontò con il cinismo di un killer.

    Sul ring fu un maestro, imparò presto l’arte: usava il jab e l’uppercut con la stessa naturalezza con cui teneva forchetta e coltello fra le mani. Dicevano non avesse gran potenza, ma un giorno lasciò tutti a bocca aperta e Stanley Ketchel, un bianco detto l’assassino del Michigan, senza due denti. Era il 16 ottobre 1909, Jack Johnson difendeva per la prima volta il titolo mondiale, conquistato l’anno prima. Nel secondo round fece partire un colpo terrificante e sui guantoni gli rimasero i denti dell’avversario che non era stato ai patti: i primi round dovevano essere accomodati e accomodanti a beneficio dello spettacolo, e invece il bianco gli sparò un pugno sul muso che lo mandò a terra. La punizione fu terribile.

    Johnson era un tipo abituato a rispondere ad ogni colpo basso: glielo aveva insegnato la vita. A 10 anni cominciò a battagliare per strada, a 12 lasciò la famiglia e s’imbarcò clandestinamente su un battello per New York ma fu scoperto e dovette pagarsi la traversata lavorando. Si provò in tanti mestieri: scaricatore di porto, maniscalco, sguattero, fece anche il vicesceriffo in una cittadina del Nord, rischiando perfino il linciaggio. Preferì tornare alle battaglie di strada, fino ad approdare a quelle del ring: la carriera cominciò in un secolo (1897) e si concluse in un altro, trent’anni più tardi, al toccare dei 50 anni. Il grande Jack cominciò a far fuori avversari su avversari, diventò il re dei campioni neri, battendoli e ribattendoli uno per uno; i

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