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Dirty 10 racconti sporchi
Dirty 10 racconti sporchi
Dirty 10 racconti sporchi
E-book147 pagine1 ora

Dirty 10 racconti sporchi

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Info su questo ebook

Quattro autori, dieci racconti. Sporchi, crudeli. Tra il pulp, l’horror e la cronaca nera. Non c’è incanto, né compassione. La prosa è diretta, secca, violenta. Non sembra esserci spazio per la speranza in una città corrotta, che al tempo stesso è sfondo e protagonista: tra ostelli popolati da un’umanità selvaggia e costantemente al limite e luoghi di periferia dove non può esistere compromesso, la pietà si trasforma in debolezza, la vendetta in necessità. Dirty10 è la disamina di una crisi morale e sociale, etica e civile, un’indagine sull’orrore dell’abisso umano, su quell’attimo che tramuta l’uomo in bestia.
LinguaItaliano
Data di uscita26 giu 2014
ISBN9786050310009
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    Anteprima del libro

    Dirty 10 racconti sporchi - Daniele Sforza

    SCONOSCIUTO

    MATTEO DONZELLI

    Nasce per sbaglio una notte d’inverno nel ghetto di Baranzangeles, nel bel mezzo degli anni di piombo. Scrittore per necessità, fotografo per passione, viaggiatore per natura. Dopo una laurea in Economia ritenuta inutile ha effettuato in otto mesi il giro del mondo in solitaria. Ha diverse pubblicazioni al suo attivo tra cui, nel 2012, il volume Dal Cielo alla Terra per Tempovissuto Edizioni. Da qualche mese non si hanno più sue notizie. Voci incontrollate lo danno attualmente impegnato in Ungheria...

    HOST(i)LE WORLD

    Parte I: Il cuore putrido d’Italia

    Comprai il biglietto più economico, lo obliterai e raggiunsi il binario indicato sul pezzo di carta.

    Binario numero 21: lo stesso utilizzato durante la seconda guerra mondiale per la deportazione degli ebrei verso il campo di concentramento di Auschwitz.

    Forse avrei dovuto interpretarlo come presagio, chissà. Invece non me ne curai e salii puntuale sulla carrozza.

    Il puzzo di urina era così pungente da rappresentare un deterrente per qualsiasi passeggero convenzionale, un vero e proprio schiaffo all’olfatto umano e non solo. All’interno della carrozza, l’esperanto di lingue che abbracciava svariate longitudini terrestri palesava il fatto che ero l’unico italiano a bordo ad eccezione di un venditore ambulante partenopeo che passava in rassegna i vagoni sbraitando la sua offerta: Calzettoniiii! Calzettoni, signo’, due euro soltanto! Calzettoni…

    Il treno – l’espresso notturno Milano-Napoli – avrebbe viaggiato tutta notte e alle prime luci dell’alba avrebbe fatto scalo a Roma, la mia destinazione ultima.

    Presi posizione e sprofondai nel mio posto a sedere vicino al finestrino. L’opzione più economica non contemplava infatti alcun tipo di cuccetta né ne avrei avuto bisogno per una notte.

    Quando gli ingranaggi del rottame si misero in moto e le navate in ferro battuto della stazione centrale cominciarono a scivolare lungo i finestrini opacizzati dalla polvere, all’odore di piscio si unì quello degli effluvi podologici dei passeggeri che si preparavano alla notte liberandosi dal fastidioso impiccio delle loro scarpe.

    Il controllore si assicurò che la porta dello scompartimento fosse ben chiusa, così da essere certo di ricreare, nel giro di pochi minuti, una atmosfera tiepida ed accogliente quanto una camera a gas.

    Visto che la situazione era ormai compromessa, i miei cinque compagni di viaggio optarono per la soluzione anarchica: allungarono le file di sedili fino a congiungerle, si sdraiarono, quindi si strinsero in una sorta di orgiastico intrico di gambe, teste e piedi, quasi si trattasse di un unico grande materasso comunitario in movimento.

    Fortuna volle che al mio fianco c’era una deliziosa ragazza albanese che stava andando a Roma per far visita ai parenti. Sfiga volle, invece, che la stessa deliziosa ragazza albanese era terrorizzata dalla situazione equivoca venutasi a creare in quello scompartimento ermetico di soli uomini. E, pertanto, trivellava imperterrita con le sue lagne i timpani del sottoscritto che, all’una e quarantacinque, le ricordò spazientito che era tempo di dormire. Quella gentile richiesta servì a ben poco.

    Posso offrirti qualcosa da mangiare? disse lei - all’una e cinquanta.

    No, grazie.

    Ma guarda che è buono!

    Da te non voglio cibo, voglio altro feci io - all’una e cinquantuno - mentre le allungavo una mano sulla coscia.

    Finalmente lei ammutolì. Ed io riuscii ad appisolarmi.

    Il tempo sferragliava veloce in quella notte di metà settembre. A parte qualche inaspettato contrattempo – come il ragazzo di colore che provava a dormire sullo strapuntino del corridoio accanto al mio scompartimento e che si accasciò al suolo rimanendo privo di sensi fino all’intervento dell’ambulanza di Prato – i primi raggi di sole iniziarono a illuminare il cielo e, con essi, il convoglio fece il suo ingresso trionfale alla stazione Termini di Roma.

    Cominciò tutto così.

    Mi trovavo nella capitale per lavoro, avrei dovuto iniziare in ufficio il pomeriggio stesso. E non avevo la benché minima idea di dove trascorrere la notte.

    Lontano dagli amici, dagli affetti più cari, dalle strade che mi avevano visto crescere – emigrante – con un lavoro, ma senza un tetto da poter chiamare casa. Un ritratto d’altri tempi, un’immagine romantica, bucolica, il manifesto di chi insegue strenuamente la chimera di una libertà fittizia e fa dell’improvvisazione virtù.

    In realtà, un’idiozia monumentale.

    La conferma dell’assunzione mi fu comunicata solo pochi giorni prima, impedendomi di fatto di cercare un alloggio compatibile alle mie tasche. Il contratto prevedeva tre mesi di prova iniziale, senza alcuna garanzia riguardo il futuro. Avevo quindi bisogno di una sistemazione a breve termine. E non sapevo dove o a chi rivolgermi. Non conoscevo nessuno in città.

    Anzi no, qualcuno forse lo conoscevo. Anni prima, in Alaska, avevo conosciuto un ragazzo di Roma e il suo numero di telefono campeggiava ancora nella memoria del cellulare.

    Ciao Martino, ti ricordi di me? Juneau, l’Alaska, l’autostop?

    Ah, sì! Bé, come va?

    Tutto bene, tutto bene. Senti Martino, io sono qui a Roma… non è che avresti un divano dove posso sistemarmi qualche giorno? Sai, mi sono appena trasferito e sto cercando casa.

    No problem, amigo.

    Perfetto.

    Dove abiti?

    Colleferro.

    Ah, ok. Che cos’è?

    È a una cinquantina di chilometri dal centro di Roma. Prendi il treno, ce ne è uno ogni ora. Quando arrivi fammi uno squillo, vengo io in stazione. Ciao.

    Arrivai a Colleferro ed eccolo lì – Martino – puntuale come un metronomo, alto più che mai, magro più che mai, con i suoi capelli lunghi, gli occhi stralunati e quell’inconfondibile lacrima nera tatuata all’estremità dell’occhio sinistro.

    Per le popolazioni latino-americane, tatuarsi una lacrima sotto agli occhi è un premio che si conquistano in prigione i galeotti rei di essersi macchiati di omicidio. Per Martino era solo un modo di darsi un tono. Credo.

    Mi sistemai nella stanza sgombra del fratello che si era trasferito di casa e iniziai così la prima settimana a Roma, a Colleferro per la precisione – amena località che mi obbligava ad un percorso di pendolarismo verso il centro della capitale che raggiungeva anche le tre ore al giorno, tra andata e ritorno.

    In compenso convivere con Martino era uno spasso.

    Ogni giorno adescava nuove turiste da invitare a casa e l’alloggio assumeva sistematicamente l’aspetto e la spensierata allegria di un ostello.

    Passammo serate in compagnia di tedesche, giapponesi, americane. Tutte finite lì per caso, tutte attirate nella tana del lupo con la promessa di una sistemazione gratis in nome dello spirito di accoglienza italiano.

    In realtà, Martino, non era proprio quel benefattore che voleva dare a credere. Se le ospiti – rigorosamente di sesso femminile e rigorosamente in viaggio da sole – non avessero ceduto alle sue lusinghe nel giro di poche ore, la sua vendetta era spietata.

    Guarda cara, sono desolato, mi ha appena chiamato mio fratello per avvisarmi che mio nonno è stato ricoverato in ospedale in condizioni critiche. Purtroppo devo stargli vicino, quindi ti chiedo di lasciare subito l’appartamento.

    Questa era la scusa più gettonata. In altre parole, le scaricava a cinquanta chilometri dal centro di Roma senza uno straccio di prenotazione o indirizzo dove potersi rivolgere per trascorrere la notte.

    Non sono problemi miei – diceva – oltretutto che le ho ospitate fanno pure le difficili, ma in che mondo viviamo??? e, solitamente, enfatizzava subito dopo tutto il suo disappunto con una raffica sonora di bestemmie che avrebbero fatto impallidire un mercenario uzbeko.

    Una notte irruppe nel buio della mia stanza con un misterioso binocolo tra le mani:

    Corri, corri! Vieni qui a vedere, presto!

    Che succede? gli chiesi, mentre accendevo la luce per alzarmi dal letto.

    Ma che, sei pazzo??? Cosa fai, spegni subito quella luce!

    E perché?

    Vieni qui a vedere, cazzo! C’è la ragazzina del condominio accanto che si sta facendo la doccia! È tutta nuda, completamente nuda!

    Martino infatti si dilettava a spiare col binocolo le sue vicine di casa, trastullando in questo modo adolescenziale il tempo libero che aveva a disposizione. Peccato che di anni ne avesse trentacinque, non quindici.

    Mi passò in rassegna una valanga velenosa di queste sue prodezze.

    Amava masturbarsi spiando le sue ospiti, mentre facevano la doccia, attraverso il buco della serratura. Per far questo, aveva costruito un intricato sistema di specchi che riflettevano l’immagine della malcapitata di turno nei punti strategici. Si era anche costruito un piccolo palco in bagno con gli elenchi del telefono, così da elevare la zona pelvica oltre il parapetto e mostrare le sue acrobazie alla solita sventurata ragazzina del condominio adiacente. Quando la trovava chinata sui libri scattava come una molla: giù la tapparella a metà, lui in piedi sul palco, e via di mano.

    La cosa pareva entusiasmarlo.

    Non solo, quando una sua ospite lo faceva particolarmente arrabbiare non si limitava a mandarla via di casa. In quel caso, aspettava che uscisse, le sottraeva lo spazzolino da denti e lo farciva con il suo dentifricio biologico.

    Così, in un modo o nell’altro, sarò entrato in lei era la tesi che sosteneva. Proprio come sosteneva la legittimità di una delle sue fantasie più ricorrenti: stuprare una minorenne.

    Avevo sentito abbastanza.

    Forse mi stavo sbagliando, quella lacrima nera tatuata in volto non aveva solo una funzione estetica.

    Decisi di togliere il disturbo qualche giorno dopo.

    Dovevo trovare una stanza in affitto al più presto, e sarebbe dovuta essere in centro, o comunque sufficientemente vicina all’ufficio da consentirmi di raggiungerlo a piedi. Ero stufo della vita da pendolare che, da sempre, aveva scandito il ritmo della mia vita.

    Cercai su internet un ostello in zona Termini. I primi della lista erano tutti costosissimi, poi calarono di prezzo fino a raggiungere il compromesso che stavo cercando.

    Freaky Hostel: letto in camerata da dieci, colazione inclusa, cena inclusa, nove euro al giorno.

    Perfetto. Prenotai due settimane.

    Lo raggiunsi oltrepassando Via Giolitti, il quartiere cinese e una piccola piazzola lungo i cui marciapiedi ci si poteva esercitare nella disciplina dello slalom fecale – animale e non.

    Il Freaky Hostel era poco più avanti, vicino via Principe Umberto, laddove stazionavano cassonetti in grado di rigurgitare spazzatura un po’ ovunque, laddove i sorci presenti al

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