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La città
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E-book349 pagine5 ore

La città

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Info su questo ebook

Mario Red subisce la vita invece di darle una direzione. Soffocato dal contesto familiare e sociale, appare il riflesso della sua contraddittoria ma bella Città. Entrato giovane nell'azienda di trasporto pubblico, si trova improvvisamente a guidare una lotta contro le ingiustizie della perversa associazione datorial-sindacale, con gli altri coprotagonisti Alex e Tony a cui, nonostante le profonde diversità, è legato da un affetto fraterno. Dotato di una rara sensibilità per il mondo letterario, Mario, che nella lotta ha trovato il coraggio di assecondare le sue aspirazioni e nondimeno ha intravisto una trama, compone l’Opera. Le sue vicissitudini sono legate alle sorti della Città che pian piano diventa attrice principale, in un viaggio attraverso i vicoli, i quartieri e le piazze delle anime urbane.

Pietro Rocco, napoletano, lavora come autista per il trasporto urbano della sua città. È sempre stato lettore vorace e non ha mai pensato di scrivere fino a quando qualche anno fa vinse due contest con due racconti per una piccola casa editrice con premio la pubblicazione. A parte scrivere sopravvive per il mare, per praticare il nuoto, per guardare basket e viaggiare. "La Città" è il suo esordio editoriale.
LinguaItaliano
Data di uscita21 feb 2024
ISBN9791223009963
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    Anteprima del libro

    La città - Pietro Rocco

    Pietro Rocco

    La città

    UUID: 3f7cd788-6fd6-4f32-8fc5-634054c7577e

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

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    Indice dei contenuti

    COLLANA

    Rocco Pietro

    LA CITTÀ

    MONTAG

    1

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    Montag

    COLLANA

    Le Fenici

    Rocco Pietro

    LA CITTÀ

    MONTAG

    Edizioni Montag

    Prima edizione febbraio 2024

    La Città

    © 2024 di Montag

    Collana Le Fenici

    ISBN: 9788868927592

    Copertina: S. Freemind, Unsplash.com

    Quest’opera è esclusivamente frutto della fantasia dell’autore. Ogni riferimento a persone esistite, esistenti o a fatti accaduti è

    puramente casuale.

    A Luca

    Il sole malato

    Enzo come sta? E Ciro? E Ignazio?

    Luca?

    Luca?!! Ma Luca come vuoi stia? Ride sempre, e lui che mette di buonumore tutti. È il nostro sole.

    Un mattino Luca smise di sorridere, si sollevò il cappuccio e si buttò sotto un treno in corsa.

    Ma il sole non può morire, continuerà a scaldare i nostri cuori.

    1

    Dicembre 2014

    Il mattino mi svegliai con tre frasi in testa: Essere felici. Stare bene. Comporre un’Opera.

    Sì, componevo un’Opera, con la maiuscola: lirica. Si dice che l'Amnesia abbia effetti psichedelici.

    L'avevo fumata, la sera prima, questa specie di ibrida (nome arrapante) che si diceva avesse un effetto intenso, leggevo su internet mentre mi rendevo conto che stavo componendo un’Opera (sì, quella con tutti gli strumenti e tutto a posto). Ed io mi ripetevo queste frasi. Essere felici. Stare bene. Poiché in realtà mi sentivo un genio si, che sta componendo un’Opera lirica ma allo stesso tempo mi sentivo pure sull'orlo di un baratro non meglio definibile, ma me lo sentivo. Essere ottimisti, mi ripetevo, perché ero convinto, come ogni tanto mi capita, naufragando nella mia instabilità, che con la mente si potesse fare tutto, convincersi di tutto. E poi per il primo tratto questo viaggio era stato bellissimo, molto intenso, top, addirittura comporre un’Opera, top, lirica, maiuscola, e infatti non fu per quello che al mattino googlai, tuttavia fu proprio mentre annotavo sul mio taccuino le frasi in questione che ebbi un collasso totale circolatorio nervoso, anzi per l'esattezza proprio quando pensai che stavo componendo un’Opera e anche perché in quel periodo leggevo Oliver Sachs che mi convinsi che stavo stra-usando la parte sinistra del cervello, o la destra? Non ricordavo in effetti e questo dubbio come un grimaldello, che fa leva su un affidabile spiraglio, tirò giù la saracinesca, nel mio caso già mezzo schiavardata, e mi ritrovai dopo il mezzo collasso all'esatto contrario e cioè a una follia circolatoria che rimbalzava da destra a sinistra non solo nel cervello ma in ogni cavo venoso. E mi si addormentavano alternativamente braccio destro gamba sinistra pettorale sinistro in ordine sparso e così via. Poi mi misi a fare flessioni, steso a letto, affondando nello scorretto morbido, e tutto a posto, alla fine mi addormentai. E mi risvegliai quasi subito.

    Ma che mattino questo mattino (?) svuotato ma convulso di un nulla concussivo, come il cielo, cellophane che sventolava fiacco e palloso, e come spiegare ciò a Tony: infatti mi limitai a recriminare sull'amnesia sostenendo che non era erba e non sapevo in realtà cosa fosse ma avrei potuto giurare che la cara Maria non mi aveva mai provocato quegli effetti. Non avevo neanche mai scritto un’Opera. Non dico che Tony non se fottesse proprio - ci teneva alla sua merce e che i clienti fossero soddisfatti, e poi erano quasi le cinque - a ogni modo salì sulla mia auto, con un guizzo gaudioso degno di un umore frizzante, confermato poi con un sorriso, lasciando intravedere tanta luce tra i due denti centrali, giulivo, pieno di affetto, almeno sembrava. Negli ultimi giorni passavamo tanto tempo insieme, mi guardava con un filino d'occhietto da cinghiale e mi diceva spesso: – Tu mi fai morire – perché ero strano, e poi mi chiamava fratello e sosteneva di volermi bene, forse perché ero l'amico più strano che avesse mai avuto. Del resto quel mattino nonostante la mia bislaccheria avremmo dato una dimostrazione di chi eravamo, cos'eravamo già diventati, a quel punto, dopo tre settimane, scarse.

    Era tutto nuovo per me, anche il mattino. Non sognavo più. Di buon’ora saltavo giù dal letto come un pupazzo a molla, e vibravo per ore, rimpinzandomi di caffè (e qualche pasticca di amfetamina), nei bar degli appuntamenti, per i consulti, per le ambasciate, per i consigli, dinnanzi ai tavolini, arrivavo a gambe svelte, cuore rapido, pensieri luminescenti. Come se stessi componendo un’Opera; non avevo nessuna remora, nessun limite, mi sentivo forte e non contemplavo fallimento. Sentivo schiudermi come un bocciolo dal quale esce un mostro con gli occhi spalancati, le orecchie aguzze: improvvisamente sniffavo pettegolezzi, rubavo informazioni da chiunque per poi inglobare ogni dettaglio. Mi ero risvegliato predatore e sapevo glacialmente dove colpire. Volevo l'unione, la categoria compatta, volevo vincere.

    E proprio quel mattino, nel buio di quelle ore piccole fredde sporche umide e traditrici, mentre guidavo la mia auto attraverso il vuoto che rimbombava per la Città mai silente, il telefono di Tony squillò. Giunti all’angolo del Pinco notai i soliti i tre sulla prima fermata che attendevano il primo bus della giornata che già era in ritardo.

    Dopo cinque minuti, eravamo sulla collina fuori al locale di Omar, dove già ci aspettava Jenni con una faccia che diceva tutto. Non ci salutò nemmeno, cacciò le chiavi dalla tasca destra di una lunga giubba nella quale ci sarebbe entrata tre volte. Jenni continuava a lamentarsi, diceva di avere anche sonno, in effetti già aveva cominciato la settimana scorsa, dopo qualche ora che gli avevamo presentato la nostra sede, il locale di Omar, sulla collina. Aveva cominciato a lamentarsi della vittoria della destra, come se a noi cambiasse qualcosa, con i problemi che ci ronzavano in testa, poi asseriva isterica che la sala era diventata presto punto di ritrovo per tutti quei debosciati.

    Entrammo con il collo chino sui nostri telefoni che erano piuttosto attivi già da qualche ora. Dalla sala potevamo coordinare tutto il disservizio: alle cinque e dieci del mattino fu chiamato il primo guasto, la giostra ebbe inizio. Era una linea principale, i capi dovettero correre ai ripari: mandarono un autobus, sottraendolo alle già esigue risorse di un’altra linea, per sostituirlo. Durante il viaggio l'autista del bus chiamato al rinforzo inviò un messaggio a Tony. Arrivato allo stazionamento gli andò incontro un capo chiamato in fretta e furia per arginare quel grave vuoto mattutino: – Devi partire subito! Già ti aspettano da un sacco di tempo!

    - Mi dispiace il bus è guasto – rispose l'autista. Al capo venne quasi un coccolone e sbraitò pesantemente contro il collega, ma già era pronto Giorgione che prese il capo per il braccio e lo fece calmare. Verso le sette la Città era paralizzata, chi doveva andare a lavorare con i bus o ci aveva rinunciato oppure, come fece la maggioranza, si era messa in auto congestionando completamente la circolazione. Gli autisti, che rientravano con ogni specie di anomalia esistente, dovevano fare una foto al registro guasti: fu un’idea di Tony, dovevamo essere sicuri che nessuno agisse esclusivamente a chiacchiere. Poi prendevano un altro bus. Uscivano. Arrivati allo stazionamento telefonavano un’altra volta al centro guasti segnalando un’altra anomalia e rientravano di nuovo al deposito.

    Adottammo questa strategia per dare una risposta immediata, in attesa che fossimo pronti per il blocco totale, approfittando del fatto che nessuna vettura era a norma di legge per poter circolare. Dopo mezz'ora arrivammo al deposito e sembrava il mercato del pesce il sabato mattina. C'era anche Alex, e tutti aspettavano noi: i capi, accodati in processione dietro al paraculo Presutti, i colleghi che giravano come in un girone dantesco e i meccanici, i pulitori, i capi operai, i capi meccanici che correvano dietro agli autisti, in un girotondo caotico che non avrebbe portato a nulla. Quel nulla che ci serviva.

    Erano anni che calpestavo quel lercio pavimento rosso di linoleum sdrucito disseminato di macchie di olio, di grasso, di sputazzate, di sgommate, di cacate di piccione, per attraversare quello spazio compreso tra i musi dei primi bus della colonna e una ringhiera piegata dalle testate prese dai mezzi in manovra, un corridoio fumoso di gas di scarico che ogni santo giorno a testa bassa mi avvelenava fino a condurmi in quel maledetto ridondante ufficio movimento, ma in quell’illuminante mattino mi sembrava una passerella di un lungo palco e io mi sentivo come se il petto mi arrivasse fino a sotto al reticolo di sbarre e vetrate e da lì sovrastasse tutti e tutto, come il Papa che sta per affacciarsi al balcone, o Mick Jagger che sta per entrare sul palco, perché forse il rock'n'roll non era ancora morto caro Jona, e con esso neanche la rivoluzione e forse tutto si sorreggeva sulla rabbia e l'odio, come ogni guerra che si rispetti.

    Si avvicinarono a noi tre come se avessero la febbre gialla e fossimo gli unici dotati dell'antidoto. Un capo, con ogni probabilità più coglione degli altri, per farsi bello con Presutti non poté trattenersi dallo scagliarsi deciso contro di me. Feci come se non esistesse, non risposi, né voltai la testa nella sua direzione, e tirammo dritto verso la celeberrima sala dell'ufficio movimento facendo schizzare la bile del viscido leccaculo che continuò a urlare per un bel po'.

    Rimasero tutti fermi a parte l'ingegnere che ci venne dietro, visibilmente intimorito dalla piega che stava prendendo la sua giornata lavorativa e appena ci raggiunse disse con un certo affanno ma con la sua consueta educazione e falsa disponibilità: – Ragazzi! Ma insomma, mi spiegate cosa volete!?

    Ci voltammo. Tony e Alex guardarono me, io parlai: – Già ve lo abbiamo detto. Siamo stanchi. Vogliono... i ragazzi, gli autisti, gli unici che lavorano, gli unici che si scassano la schiena, che vengono aggrediti e minacciati, gli unici tartassati dalla disciplina, vogliono il ritiro dell'accordo. È inutile che venite dietro di noi: facciamo solo parte della categoria, contiamo quanto gli altri.

    Il paraculo si disegnò sul volto un ghigno furbesco come uno che ha capito (e avrei voluto anche vedere...): – Ma dovete prendervela con i Sindacati! Loro hanno firmato... e la maggior parte di voi è ancora iscritta.

    – Ancora per poco... Ci voglia scusare...

    Gli mostrammo di nuovo le schiene mentre di faccia trovammo Manolo gaio come un bimbo ad una festa:

    – Ragazzi tutto procede alla perfezione

    Ci bastò solo farci vedere, qualche cenno di Alex a Manolo, di Manolo a Darietto, di Cris che si stringeva sempre più forte la patta dei jeans, di RoccoSmitti seppur scettico che dava pacche sulle spalle degli autisti in servizio e tutti scivolarono senza eccessiva fretta ma con pratica solerzia davanti a quel tavolone stretto e lungo dove tutto era cominciato.

    Lele ci aprì la porta, ci fece entrare e poi la richiuse prontamente davanti all'ingegnere e al suo seguito nel tripudio generale. Anche Hamilton ed Emiliano con le due Ramona erano dentro e con fatica cercavano di sistemare, come se si fosse sugli spalti di un teatro, le decine e decine di colleghi che erano arrivati per quell'appuntamento. Alex era più nervoso di un animale selvatico in gabbia, andava silenzioso avanti e indietro, fumava di continuo e non parlava. Tony cominciò a urlare... Fred aiutò Tony ed ottenne il silenzio.

    Come vi sentite adesso?

    Avete visto questi cazzoni qui fuori! Stanno ai nostri piedi, ci implorano di far camminare i bus! Non vi preoccupate non possono farci nulla: stiamo solo evidenziando la realtà: nessun autobus è nelle condizioni di circolare. Possono solo ringraziarci per ciò che abbiamo fatto fino a ieri. E invece come ci volevano premiare? Con questo accordo di merda che a tutti i costi vogliono far firmare, e che alla fine hanno firmato insieme ai sindacati. Riunendosi di notte! Contro la nostra volontà. Alle nostre spalle! Per l'ennesima volta. Ma se lo ficcheranno su per il culo il loro accordo di merda!! E ancora non ci fermeremo! Non ci basta! Oggi abbiamo preso coscienza della nostra forza. Adesso vogliamo di più. Ci hanno lasciato nella morsa: quattro gatti con la schiena rotta, a guidare autobus scassati mentre i loro amici e parenti venivano messi in posti di comodo. E ci va pure bene! Vogliamo continuare a guidare. Ma da domani gli stracceremo tutte le tessere sindacali in faccia! Non solo non vogliamo questa merda di accordo, ne vogliamo un altro dove ci sia un reale e cospicuo aumento salariale solo per Noi! L'unica colonna portante di quest'azienda.

    L'ingegnere e i capi appollaiati fuori alla porta serrata origliarono tutto. Compresi i circa dieci minuti di applausi. E tra poco sarebbe arrivato il Santo Natale.

    2

    Un mese prima

    Oramai il mio corpo era in simbiosi con il mezzo, il bus, come se le sue ruote fossero le mie gambe. Quando ero lì, voglio dire, davanti all'ampio sterzo, svoltare a destra era farlo quasi con assoluta certezza di non avere nessuna sorpresa, e andare tranquilli perché quelle azioni le avevo fatte milioni di volte, facevano parte di me, di noi tranvieri, come camminare. Se malauguratamente urtavo qualcosa, intendo col bus, e ciò accadeva molto di rado, sentivo dolore fisico.

    Chiusi dolcemente una curva, mentre Lele mi seguiva facevo il leprotto. Diedi la giusta confidenza a un motorino, rendendo facile il suo sopravanzare alla mia sinistra. Tutto bene.

    Quel giorno mi sentivo in forma. Lasciai il giusto spazio a destra, tanto da evitare l'improvviso spalancarsi di uno sportello d'auto e abbastanza da non farmi infilare dai motorini sospesi su fendenti sciami di mefistofelici sbalzi di equilibrio. Sapevo esattamente quanto accelerare per far filare docile questo mezzo di plastica economica e sospensioni elettroniche spaesate su queste strade pustolose, per scivolare sull'inerzia, lubrico roboticamente fino al verde del semaforo. Il piede scendeva con calibrata precisione, il fumo di scarico saliva funesto, nero, come un male incurabile, ma si doveva andare senza frenare, evitando di spezzare flussi da spettro autistico per lo più superflui, che altresì mi perseguitavano e che dovevo assecondare, vere e proprie manie, da stress forse.

    Lasciarsi trasportare: destra, sinistra, le mani sul tarallo, la ruota gira, freccia, stop, porte succedanee, gradini in ferro traslucido, specchietti tremolanti, parabrezza offuscati trasmettono strade tutte uguali. Modelli 490 di antiquariato su determinate linee in determinati giorni, statistiche mensili scritte su tipologie di guasti a seconda della tipologia di materiale rotabile. Turni: mattino dieci per cento, intermedio venti per cento, sera il rimanente per cento. La media oraria per chilometro in determinate fasce orarie, l'importante numero di pazzi che montavano su con angosciante frequenza, il modello delle vetture che incontravo per strada ordinate in apposite classifiche, la sequenza matematica dei semafori. Considerate pure che indossavo un’apposita mutanda per ogni giorno specifico o addirittura ero follemente convinto che il lunedì girasse tutta la settimana e cioè se il lunedì fosse stato schifoso sarei stato risarcito con il resto dei sei giorni e viceversa. Certo amavo i numeri, e poi c'era la solitudine senza distrazione dell'autista urbano; sarà che ho sempre odiato i mestieri che potrebbero fare tranquillamente dei robot, o forse sono solo un paranoico ossessivo, ma chi non lo è, oggi? Per non parlare dei clacson, lo spinzare intrudente di quelle irritanti trombe azionate con un semplice gesto, sterile sfogo d'impotenza di ominidi patetici. Di conseguenza dopo tanti anni le mie orecchie non potevano più reggere un qualsiasi rumore acuto tipo citofoni, cellulari o gli antifurti indispensabili quanto inutili nella Città in quanto esplodevano in serrati ritmi su molteplici livelli di cacofonia insopportabile, sempre autarchicamente, magari in pieno giorno, per ore.

    Ho sempre pensato che Hermann suonasse per me: Non sono un filosofo, sono un tassista.

    In deposito c'era Alex, in quel periodo si divertiva a spassarsela sulla barca con Lele nonostante fosse finita la stagione. Lo trovai stanco ma sembrava più maturo. Sembrava, perché con Alex non si poteva mai dire: appena lo vedevi ti faceva venire voglia di fare baldoria e tutto andava bene ma già alla seconda sera che ci uscivi ti rendevi conto che era sempre lo stesso con le sue paranoie pleonastiche che ti schiattava in faccia a ritmo compulsivo, e dicevi porca vacca... questo qui non cambia mai! E poi facevo di tutto per evitarlo, tuttavia quella sera lo salutai con calore, del resto era un po' che non si vedeva, poi Alex era Alex e con Alex quella sera, invero rara, che l'imbroccava, se l'imbroccava, diveniva una serata coi contro cazzi. E poi bastava guardarlo in faccia che ti ispirava simpatia, ed è per questo che ti fotteva sempre, ma era un grande, comunque, e adesso avevano questi affari sulla barca.

    Appena entrammo nel cesso del deposito ci salutò con il suo empatico calore, però come dicevo meno disperato e più maturo e glielo dissi anche – Come stai fresco, Alex! – e lui rispose – Sono anni... – allora gli dissi – No, mi riferivo all'abbigliamento! – e lui rispose – Vai da Daytona men, è un mio amico. E ti passa la paura – Poi cominciarono a parlottare lui e Lele in tono stretto e confidenziale e io andai a pisciare addentrandomi ulteriormente nel malsano ambiente e quando rientrai dalle esalazioni forti di piscio a quelle più moderate ma comunque pungenti del disimpegno adibito a lavatoio, sentì Alex che diceva a Lele: – Io ti voglio bene, perché mi hai detto scegli tu, e io ti ho dato due possibilità e le hai scartate tutte e due. Dove ti devo portare? – Quindi si rivolse a me con un sorriso tanto zuccheroso che avrebbe potuto coinvolgerti sempre – Io amo quest’uomo – aggiunse, e ti fotterà sempre, ma prima di farlo di darà quello spicchio di gioia al quale tutti vorremmo banchettare, quell'attimo di vita.

    Peccato che Alex avesse più euro di debiti che globuli rossi, tra i primi tre d'Europa, e come tutti i debitaioli del mondo era cronico e quindi un ottimo attore che perpetuava la sua recita su un palcoscenico costruito sulle menzogne, in più lui era un tipo in gamba e a parte guidare autobus si arrabattava a fare qualsiasi mestiere: aveva fatto dal pescatore al pescivendolo, dal ristoratore al cuoco, fino alla vendita di capi di abbigliamento dietro al cofano dell'auto. Adesso faceva il muratore. Si, era un tipo in gamba, peccato che poi rovinava tutto con la sua insicurezza ansiogena che si palesava con lunghi soliloqui rimpinzati di vanterie sulle sue maestranze da capomastro, a capochef, a poeta, al terzo più grande bassista del paese, con tutti i capricci di una rockstar che non era, una crassa raffica di autoelogi che pompava a tal punto il suo ego che poi come un pallone inchiodato sulla testa gli impediva di eccellere in alcuno di questi mestieri.

    Quindi continuava a guadagnare poco e a fare debiti, e giunti al secondo millennio ancora viveva in una specie di capanna su una collina dell'entroterra della Città, dietro al quartiere Broncos, senza strade asfaltate, con un tetto di percolato pericolante e con un ottimo riscaldamento a fornace che probabilmente aveva rubato da un treno a vapore degli anni venti in disuso, che però si limitava ad audace suppellettile di arredamento poiché non aveva soldi per la legna, come appunto ci stava raccontando, mentre attraversammo il capannone pieno di fumo, causato dai pullman parcheggiati in un immotivato moto. Ultimamente, continuò, gli avevano chiuso pure l'acqua poiché in quella sorta di comunità che si era creata sulla collina tra vicini di villette abusive, qualcuno, o a quanto pareva più di qualcuno, non pagava e proseguì, con la solita voce roca sibilante e in vero anche divertita, dicendo che l'indomani nonostante tutte le preziose e imprescindibili cose manovali che aveva da fare si sarebbe dovuto presentare al comune con delle galline, vive, per poter dichiarare di essere allevatore e un avvocato, chiaramente il migliore d'Europa, gli aveva consigliato quello come unico modo per riavere l'allaccio dell'acqua. Continuava a parlottare fitto, con il busto proteso nervosamente, come una cavalletta pronta a scattare, il braccio sinistro parallelo al corpo mentre il destro, protagonista grondante di vene enormi, allungato allo scopo di far si che la mano messa a mo' di megafono andasse dritta su quel binario, fino a sfiorare il viso di Lele in testa assieme a lui.

    Sembrava avessero tanto da discutere e che avessero fretta, tanto che giunti all'ufficio movimento e dopo aver imbucato i bollettini di viaggio, mi lasciarono solo davanti all'oblò del vetro dove mi ero trattenuto un attimo in più in quanto un altro collega autista, che stava prestandosi alle funzioni superiori per un breve periodo, mi aveva fatto eloquenti gesti sull'opportunità di raggiungerlo sulla soglia dell'ufficio con un ghigno da sorriso trattenuto disegnato sul bel volto dalla bocca stretta, silente, attento anche a non farsi beccare ad origliare dal nostro capo deposito, che urlava e bestemmiava ed era veramente una faccenda da crepapelle, poi si poteva ridere o piangere, ma era solo una delle tante faccende farsesche di questa merda di azienda di trasporti urbani della Città messa in scena da goffe caricature, che per sentirsi utili (cosa che assolutamente non erano), si ingannavano d'essere investiti da un solenne potere che li obbligava a districarsi per sbrogliare intricatissime matasse composte da sottilissimi fili dai quali dipendeva l'articolato equilibrio urbano tra diritti civili, penali e doveri ineluttabili verso una cittadinanza che aveva bisogno di muoversi, di spostarsi.

    In pratica un autista la mattina precedente aveva chiamato l'ufficio movimento per la legittima richiesta, come da contratto nazionale degli autoferrotranvieri 148/B, di due giorni di congedo, causa la sfortunata dipartita nella notte della nonna, lutto che a malincuore il nostro boss aveva dovuto a rigor di legge concederglieli con un profondo sospiro a palesare la tragica carenza di autisti nel fine settimana ma invero anche durante la settimana. Purtroppo lui, grande coordinatore sovrastato da gargantuesche responsabilità, doveva comunque rispettare le regole ma proprio queste gli si erano rivoltate contro come il presunto cadavere della gattina longeva che si era ribellato alla morte o almeno così pareva dato che pochi minuti prima del mio ingresso nel fetido capannone il collega in lutto aveva richiamato dicendo che non era più in lutto, almeno per il momento, era stato un falso allarme. E anche se l'autista nipote sosteneva fosse solo questione di tempo, per un inappuntabile colonnello come il nostro capo deposito questa era una rogna che gli rodeva il culo e lo faceva inveire come un indemoniato contro l'addetto al esercizio (così li chiamavano anche se in vent'anni non ho mai capito a quale esercizio erano addetti visto che non facevano un cazzo dalla mattina alla sera) a lui molto sottoposto che non cercava neanche di giustificarsi, a capo chino con capelli lisci tirati all'indietro con la decisione della brillantina, per queste giornate erroneamente concesse a un autista che come tutti gli autisti serviva come il pane e magari avrebbe dovuto controllare per bene! Accertarsi che la nonna fosse realmente morta, prendergli il polso, e non per finta come nelle commedie popolari e non lasciare così facilmente la cittadinanza senza un vitale bus, per questo urlava rubicondo come un gamberone viola di Mazara del Vallo, il tozzo capo deposito, spalle ampie e un viso grezzo, specchio sincero del suo sapere monotematicamente riverso sul fatto che gli autisti dovevano venire a lavorare anche con una gamba sola soprattutto perché chi come lui aveva un fratello in politica ed era costretto ad avere ben più grosse responsabilità che accendere un mezzo e portare gente maleodorante alle proprie abitazioni frementi e insultanti per il semplice motivo di aver aspettato svariate ore un bus alla fermata, data la proverbiale mancanza di autisti e ne aveva ben donde di sbraitare come un Al Capone auto investito di un protagonismo astruso da ogni funzionalità a parte quella di cavalcare l'indegno nepotismo, accentrando dittatorialmente tutte le decisioni sulla vita aziendale di noi poveri cazzoni al volante – Ma come? È resuscitata? – urlava con una voce doppia di almeno venti sigarette al dì, e andava avanti e indietro furiosamente, e io fuori a sbirciare attraverso il vetro più che divertito, immalinconito, non mi resi conto della venuta alle mie spalle di un altro spregevole addetto al pagliaccesco esercizio almeno fino a quando non mi giunse il lezzo del suo alito che sapeva di fogna stagnante e che sembrava narcotizzare anche i suoi occhi di un flebile chiaro e con la stessa espressione di un mulo di Baghdad rintronato dai continui bombardamenti e quindi con uno sforzo di vomito mi voltai e mi trovai appunto questa faccia da mentecatto da competizione che in effetti era in pieno.

    Ma il vero problema che avevano in comune tutti questi decerebrati è che, essendo completamente astrusi da ogni forma di logica, erano anche convinti di essere brillantoni, capaci di risolvere da veri superuomini qualsiasi problema aziendale e lui indiscusso capostipite fuoriclasse di questa categoria era anche fortemente persuaso che tra questi problemi aziendali ci fossi io, reo invero sicuramente di ridergli in faccia ogni qual volta lo vedevo, ma incapace a trattenermi (era più forte di me) almeno quando riuscivo a placare le nausea.

    – Non dimenticare cos'hai fatto l'altra sera! – mi ammonì appena mi voltai, era un pezzo d'uomo enorme, il doppio di me, con una faccia ampia e quadrata, dalla carnagione chiara, pochi capelli piegati in una esigua fila laterale di un biondiccio che adesso sembrava incenerito dal tempo in un colore molto simile a quello di un filtro di una sigaretta dopo averla fumata.

    – Beh, tu fai cazzate da quasi trent'anni... – gli risposi, ridendo chiaramente, di un ghigno nervoso e beffardo, ovviamente.

    – In che rapporti sei con Alex De Cesaris? Belle amicizie che hai!

    – Non credo che siano cazzi tuoi! Sherlock Holmes...

    – Io cerco solo di difendere l'azienda

    – Allora dovresti suicidarti...

    Forse esagerai un tantino, ma non riuscivo a trattenermi (era più forte di me). Si fece anche egli rosso in viso e scappò all'ufficio movimento, dal quale arrivavano ancora forti le sciocche urla degli altri due addetti all'ignoranza, e compilò un rapporto disciplinare per quella cosa gravissima che avevo fatto la settimana scorsa. E me lo ero meritato pure, ma... (era più forte di me).

    3

    Dieci mesi dopo

    Un bicchiere di vino sul marmo del cesso. È il primo dettaglio che affiora, marginale alla mia coscienza.

    Le prime fangose parole in un’ipotesi remota di risveglio, di quelli duri. Sarà una giornata tosta, l'ammiro e la temo, mentre resto incagliato tra viscide membrane, tra strali di pruderie utopistiche.

    Il bicchiere è trasparente; ha venature blue. Mi segue, è una costante, conosce palmo a palmo la mia casa, mi perseguita muto. Mi prende per mano, ogni sera, riflettendo i ficcanti bagliori del sol calante, e resta lì in punta di piedi, sudato e geniale, pregno di promesse, tutte fasulle. Mentre incipienti vasodilatazioni, senz'altro porpora, vengono ridipinte da frustrate nero seppia, lui non molla la mia mano.

    Mi devo disintossicare, esclusivamente dalla luna. Le mani, le spalle, il collo, le gambe: ho spasmi muscolari, come se avessi una pallina impazzita che rimbalza lungo il mio corpo. A tratti sembra che la stia per vomitare, e un barlume di felicità si affaccia nel mio baratro, poi niente, e sono costretto a muovermi, a correre, a fare ginnastica. Ma la mia mente è lucida, e so che tutto passerà. Aspetto insomma, mentre fumo ininterrottamente, e non scrivo male. La cosa che più mi preoccupa è il cazzo moscio, che la mente lucida rende ancor più inquietante. Ho paura, la prossima erezione sarà gioia pura, penso. Non scrivo male ma voglio il mio cazzo duro. Luna mancante. Travasato in una tecnologica bara con le ruote come segatura. In un sito senza siti, una prigione senza sbarre, un sogno

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