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La rivoluzione dei piccoli pianeti: un romanzo nel 68
La rivoluzione dei piccoli pianeti: un romanzo nel 68
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E-book322 pagine4 ore

La rivoluzione dei piccoli pianeti: un romanzo nel 68

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Enrico e i suoi compagni. Hanno diciassette anni, è l’anno scolastico ’67-’68, come tutti gli adolescenti sono alla ricerca di se stessi. Vogliono evadere da una scuola che li tiene prigionieri e da un costume sociale oppressivo, indagano sul passato opaco delle loro famiglie e sull’omertà che copre come una nebbia gli anni della guerra.
Per riuscirci occupano il liceo e partecipano agli scontri di Valle Giulia, a Roma. Soffriranno, per questo: uno di loro compirà un atto estremo di ribellione.
Enrico scoprirà tracce di una sorella morta bambina in manicomio, e cercherà di sapere perché una pistola è nascosta in casa dei suoi e in che modo suo padre sia divenuto proprietario di un negozio di tessuti appartenuto a un ebreo deportato ad Auschwitz. Ci riuscirà con l’aiuto di uno zio, ex combattente repubblicano in Spagna.
I ragazzi si  liberano dalle famiglie, vanno a vivere insieme, sono liberi di amarsi, iniziano i vagabondaggi tra il sud delle isole Eolie, la Germania e la Milano delle fabbriche, la Parigi del maggio. Intorno a loro esplodono il Vietnam dell’offensiva del Têt e la morte di Ernesto Guevara, il terremoto del Belice e la Primavera di Praga.
Una narrazione intima e intensa delle emozioni e dei sogni che diventarono una rivoluzione.

Pierluigi Sullo è stato redattore del Quotidiano dei lavoratori tra il 1974 e il 1976, ha lavorato al manifesto per ventidue anni, fino a diventarne vicedirettore (direttore Luigi Pintor), e per dodici anni ha diretto il settimanale Carta. Ha pubblicato, oltre a numerose raccolte di saggi e libri collettivi, come “Calendario della fine del mondo” (Intramoenia, 2011) e “No Tav d’Italia” (Intramoenia, 2013), un libro sul terremoto in Irpinia nel 1980, “La casa di Rocco” (Edizioni Lavoro), “Guerre minime” (Intramoenia, 2002), sulla vicenda di un giovane marocchino annegato ai Murazzi di Torino, e un saggio sulla fine della modernità, “Postfuturo” (Carta/Intramoenia, 2009).
LinguaItaliano
Data di uscita27 set 2018
ISBN9788899706463
La rivoluzione dei piccoli pianeti: un romanzo nel 68

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    Anteprima del libro

    La rivoluzione dei piccoli pianeti - Pierluigi Sullo

    Godard)

    Un dio femmina

    Come se la donna intera che confusamente cercava, a tentoni, toccando e non riconoscendo quel che toccava, si fosse disintegrata in cento pezzi, qualcuno tagliente, altri morbidi da far affondare la volontà, altri ancora duri e compatti che richiedevano cautela. Se ne rese conto quando vide con sorpresa il preservativo che aveva maldestro messo in posizione per il suo primo, autentico sesso, l’erezione non era un problema, lo erano l’ansia e la materia scivolosa del palloncino sgonfio oblungo, come l’attesa di lei, Silvana, che aveva accettato, tempra di ragazza del popolo, di seguirlo nella stanza polverosa arredata con un lettuccio sfatto e che Federico gli aveva volentieri prestato, ecco tieni la chiave e un sogghigno, come per dire anche tu, finalmente, ebbràvo.

    Ma il preservativo si era squarciato, che sfortuna, prima volta e subito ho sbattuto contro un muro, e se avesse detto per fare il duro si vede che sono troppo potente per questa barriera gommosa e fragile, Federico avrebbe aperto il sogghigno mostrando denti da lupo, ma Enrico non lo fece, non lo disse, né del tuffo nel petto, un plof doloroso. E se l’ho messa incinta?

    Lei lo guardava allarmata e ironica insieme, non si era divertita affatto, l’impeto era stato tale che non aveva goduto per niente, Silvana, meglio un ragazzo del popolo, aveva forse pensato, ma i ragazzi sono tutti uguali, doveva poi aver concluso. Mentre Enrico si domandava se era proprio questa ragazza dai lineamenti un po’ volpini, i capelli evidentemente tinti di un rossiccio che voleva essere tiziano, baffi di rimmel sugli occhi, è lei quella da cui voglio un figlio, se lo volessi, e adesso che faccio, a diciassette anni, cazzo, posso fare il padre, o accompagnarla a Londra ad abortire? Con che soldi? Forse la mamma può spremerne un po’ dalla scatola del caffè in cui nasconde biglietti da mille lire, da anni, perché papà non sappia che c’è una piccola banca che striscia invisibile sotto il suo controllo e finanzia, per esempio, un paio di polacchine beige, un cinema, e finalmente un pacchetto di sigarette, già che ora fumo Nazionali senza filtro, sottili e sgradevoli e da dividere con Alfredo e gli altri.

    Divagava per non pensare al preservativo, e non sapeva che dire mentre lei si rimetteva gli slip, allacciava il reggiseno e infilava la striscia di stoffa per gonna. Avrebbe piuttosto potuto mettere incinta Olivia, si disse, che sedeva nel banco davanti al suo, ore a guardare la cascata di capelli biondi e lisci, un profilo di sbieco. La mia ragazza, si diceva, dopo che a Villa Borghese, a tarda sera, non c’era nessuno in giro, gli aveva permesso di infilare la mano sotto gli slip, il tatto estremo come l’udito prima di una catastrofe, la morbida piccola pelliccia del pube, la piega umida là sotto, e lui aveva disteso le dita e accennato a un su e giù. Era finita in una sorta di accostamento, non proprio penetrando ma un poco sì, così che Silvana era la prima e non era la prima, che era invece Olivia, la faccia un poco tonda e gli occhi di un azzurro chiaro e le labbra sottili, la bocca come un taglio che Enrico baciava con circospezione (con tatto, preferiva pensare). E Alfredo, che era sarcastico, cesellava battute su di lei da bambino geloso.

    Era tentato di dar ragione ad Alfredo. Che senso aveva sbattersi tanto? E rischiare tutto? Trafficare con un preservativo difettoso, o difettoso ero io? Nuotava sott’acqua, dove non ci sono suoni e tutto è indistinto, si sa che in superficie c’è tempesta ma bisogna pur respirare, ogni tanto. Quasi le ragazze fossero un respiro anche se trattenevi il fiato, quando il tuo preservativo ben pieno entrava là o la tua mano scivolava verso il basso. Forse era un rimedio, un antidoto al veleno. O era che doveva essere virile, io qui e io là, nel bagno dei maschi durante l’intervallo, una Nazionale accesa all’angolo della bocca e il fumo dentro gli occhi, tutti ridicoli Jean Gabin alti e snodati, goffi e fondamentalmente indecisi, di qua o di là, questo o quell’altro, che faceva pure piacere, non avere nessuna direzione riconoscibile tracciata con i paracarri o i gessetti della lavagna, però le minigonne, ecco, panorama mattutino delle mutande bianche e delle cosce magre (quelle di Olivia no, erano rotonde), indifferenza esibita, io non sbircio, ma era una tentazione.

    Qualcosa si era rotto, poco fa. Quando l’estate scorsa aveva amato totalmente e inutilmente Rosa sull’acropoli di Lipari, ragazza di Catania transitoria in vacanza con la famiglia, pelle color dell’oliva e occhi neroliquido, gli toccava le mani parlando, si accostava, l’aveva accarezzata in viso, in un’alba bianca tra i sarcofagi romani dove avevano dormito dopo una festa troppo lunga, e le labbra rosse di lei erano state una bellezza invincibile, sembravano promettere eternità. In cima a un’avventura: Enrico e Alfredo un giorno d’estate erano saliti su un autobus diretto a Cinecittà, il quartiere alla De Chirico che avevano fino ad allora visto solo nelle scene finali di uno dei film dei Soliti ignoti, poveracci smarriti con la valigia piena di soldi, notte fonda, non un’anima in circolazione. Invece la mattina, dall’autobus, videro le strade brulicanti di gente e le baracche accostate all’acquedotto romano, le favelas lungo il Raccordo, dove avevano cercato per cinque o sei ore un passaggio verso sud. Erano arrivati a Lipari, capelli ormai liberi di allungarsi e intrecciarsi, loro due sottili come pali della luce, spiagge pietrose e sole totale. E Rosa, formosetta e piccola e con il sapore irresistibile e stucchevole della pasta di mandorle, e quel bacio nella gloria gentile dell’alba. Poi le aveva scritto, lei aveva risposto, e mentre osservava il suo preservativo rotto progettava di andarci a Pasqua, a Catania, aveva immaginato un viaggio insieme ad Alfredo e anche Alberto, l’imperturbabile e paziente e alto da guardarsi negli occhi e forse per questo si sentivano tra loro placidamente leali, e con Federico, che aveva già compiuto i diciotto e naturalmente aveva la macchina, perché suo padre, primario chirurgo e famoso, voleva crescesse presto, subito diventasse uomo, se non con il servizio militare almeno con la patente. Un Maggiolino splendente e rumoroso. Per viaggiare fino a Catania, quasi come andare a Istanbul o a Lisbona.

    Il mosaico di ragazze gli riempiva le notti, faceva l’amore con se stesso immaginando di farlo con loro, una alla volta, certo. Aveva però nascosto l’ultimo tassello del puzzle, fingeva di non sapere che era lì e ci sarebbe rimasto, i bordi e la forma inadatti a combaciare con gli altri. Aveva quindici anni quando per la prima volta vide, anzi fu ipnotizzato da Annamaria, la fidanzata del fratello maggiore del suo compagno dell’ultimo banco, Franco, cupo e pazzo come può esserlo uno che qualche anno prima era rimasto senza padre. Tutti conoscevano la storia, babbo poliziotto, incendio della caserma, ustioni irrimediabili e tre giorni di agonia, così Franco era rimasto solo con la chitarra che era stato l’ultimo regalo del babbo, e con la madre e il fratello, ora poveri come i più poveri ma dignitosi, e lui al liceo perché era intelligente ed era un peccato sprecarlo, e come Enrico e gli altri leggeva qualunque libro gli capitasse a tiro, e meno male che erano usciti gli Oscar e gli altri tascabili a 350 lire, tutto Hemingway, per esempio, Il grande Gatsby e Il ponte di San Luis Rey, Pian della tortilla, Remarque e Sartre, alla rinfusa. Ma Franco era collerico e davvero cattivo solo con se stesso, dimenticava di studiare qualcosa ma sapeva tutto su qualcos’altro, la professoressa di storia lo capì, lui non ricordava nulla della guerra dei cento anni ma conosceva a fondo l’architettura aliena e la rovina ferocemente cattolica degli imperi azteco e maya, come cercasse quel che viveva altrove e che muore. La prof, che era comunista ma non rigida, gli permetteva escursioni e divagazioni, non diceva mai non è nel programma, sempre buoni voti ma un pessimo carattere.

    E insomma Franco aveva un fratello, Pietro, che un giorno incontrarono, Enrico e Alfredo e Franco, al Corso, mentre nuotava in direzione di piazza del Popolo e loro andavano a sentire la musica nelle cabine di legno di Ricordi. Quella volta Enrico comprò il 45 giri di Ma che colpa abbiamo noi, quella che diceva: Sarà una bella società, fondata sulla libertàaaa… Pietro, allora diciottenne elastico, gli occhi e i capelli ricci scuri di una discendenza meridionale, era con una ragazza, anzi una donna molto giovane, bionda e sembrava Brigitte Bardot, che tutti loro avevano ammirato, sognato e immaginato dopo averla vista in un film sulla regina della foresta che indossava un gonnellino di foglie di palma e quando si muoveva, saltava su un albero e correva inseguita dai cattivi e la gonnella oscillava, le teste degli spettatori si piegavano di scatto a destra o a sinistra, in sincrono, come a una partita di tennis, per cogliere un barlume di quel che c’era sotto le foglie. Enrico aveva forse quindici anni e fu abbagliato da Annamaria, che si avvicinò insieme al suo fidanzato ai ragazzi più piccoli, forse di tre anni ed erano un abisso, fissò Enrico e disse: «Ma che ciglia lunghe».

    Lui avrebbe voluto rispondere: è per guardarti meglio, come il lupo sfacciato di Cappuccetto Rosso, ma rimase paralizzato perché lei avvicinò il viso al suo e allungò una mano per toccare con la punta delle dita le ciglia tanto lunghe, e fissò nei suoi gli occhi bludenso visibili attraverso le ciocche chiare e disordinate, Enrico pensò che se un dio femmina esiste eccola qui, nella perfezione dei seni pieni che si potevano intuire sotto la casta camicetta bianca, e le gambe magre e il sorriso svagato, e in quell’istante si innamorò per sempre di Annamaria. Ma era un amore così religioso, si può dire, che non pensò mai di poter fare un gesto, scrivere una lettera, aspettarla davanti a casa o cercare una qualunque occasione, immaginarla nuda, fantasticare di un letto con lei. Annamaria era là e io sono qui sul cuore della terra, lei era il tassello del mosaico che non sarebbe mai andato a posto, un posto qualunque nell’affresco di ragazze che si disegnava ogni giorno, e ogni notte, nella sua testa tumultuosa. Però ogni volta che ascoltava quella canzone, "ma che colpa…", rivedeva Annamaria che si piegava leggermente verso il ragazzino che pareva l’esito di una giocata a shangai, bastoncini come ossa alla rinfusa e lunghe e fragili, lei si inchinava gentilmente come una compita cinese e allungava la mano per toccare le ciglia, e lo guardava dritto negli occhi. Come alle volte un gesto qualsiasi diventa un rito, una celebrazione, un segnale indelebile nella memoria, prima e dopo, io, tu e tutti gli altri.

    Non gli restò che Silvana apprendista parrucchiera, che non aveva i pudori delle compagne di liceo di Enrico, perché una vita di periferia si consuma più veloce, e questo ragazzo che legge un mucchio di libri e parla vocaboli sconosciuti, è un po’ nasone ma sembra persino muoversi con una sventata armonia, senza far male e senza afferrare, anche se al dunque irrompe dentro di me e si prende il suo spazio e squarcia il preservativo e chissà se sono incinta, che guaio, ma meglio lui che il figlio del meccanico, con quelle mani ruvide e i grugniti al posto delle piccole frasi che a una ragazza piace sentire mentre lui sbuffa e suda sopra di me. Era stata per Enrico una breve escursione fuori di una classe sociale immaginaria, i liceali non tutti figli di benestanti, vedi il povero e accigliato Franco, che un anno dopo l’altro d’inverno aveva gli stessi pantaloni color cenere bruciata e stirati da farli diventare lucidi dalla tenace e mite madre vedova. Forse per Enrico era stato un preannuncio di responsabilità (diventerò padre?) e di tentazione di camminare verso il basso (il proletariato invece dei piani alti). Ma nei giorni in cui fermentava l’ansia da preservativo fellone, la professoressa comunista gli aveva dato da leggere un libro di Gramsci, sul Risorgimento, che lui leggeva piano piano, distratto, certo, ma anche provando affetto per quell’uomo piegato e piccolo e bruttino che in un carcere polveroso incideva parole una ad una, ostinato.

    Palombella pallida

    L’ultima estate, due mesi prima, il luglio umido di Roma, erano saliti sull’autobus per Cinecittà. Il padre di Enrico, seduto per il pranzo al tavolo di marmo macchiato e scheggiato, aveva detto senza neppure alzare la faccia magra e immobile dal piatto di maccheroni: «Te lo proibisco».

    Lui, che aveva già cominciato a far crescere i capelli ma ancora non aveva affrontato la questione e non lo avrebbe mai fatto, ci disprezzate come mai, guardò per un istante la madre, che taceva afflitta ma con una tensione nascosta come la molla del pupazzo dentro la scatola, e rispose: «Non me ne frega niente».

    «Di che, del viaggio idiota in autostop?».

    «No, di te».

    Era seguito un lungo momento impregnato di rabbia e incredulità. Il ragazzo guardò finalmente gli occhi del padre, marroni e puntuti, che si erano alzati dalla pasta, incerti se stringersi nelle palpebre e inalberare le sopracciglia, e a Enrico parve che la mano nodosa di lui tremasse, mentre impugnava la solita forchetta e cimelio, gliela aveva regalata chissà perché e chissà quando un soldato tedesco durante la guerra, portava incisa l’aquila con la svastica piccola e consumata dall’uso. La forchetta aveva un’impugnatura larga e quadrata e denti robusti, come uno strumento germanico deve avere, e il padre la pretendeva allineata a fianco del piatto ad ogni pranzo e cena, qualcosa gli doveva ricordare. Ma la mano tremava, se per la tentazione di colpire o per una debolezza sotterranea dell’uomo silenzioso e avaro di ogni cosa, di soldi come di affetti, che gli faceva da padre. Un estraneo. Che non aggiunse altro e riprese a masticare lentamente, la mamma si rilassò, Enrico guardò la finestra, si vedeva il palazzo di fronte, del primo novecento, verso il lungotevere Flaminio, casa ma anche un posto del passato, ora che lui e Alfredo avevano deciso di gettarsi verso sud.

    Erano andati a Porta Portese e avevano comprato due zaini dell’esercito (quello di Enrico era azzurro, dell’aviazione, da piccolo sognava di fare il pilota), pesanti e scomodi che avrebbero piagato loro la schiena ma che materializzavano il viaggio, l’andar-via. Il padre di Alfredo, grasso e placido, aveva solo detto: «State attenti». Federico era diretto in Versilia, dove suo padre aveva una gran villa praticamente sulla spiaggia, Franco, l’orfano, era troppo incazzato per essere curioso del mondo e troppo povero per arrotolare in una tasca profonda un mazzetto di diecimila, Alberto, sereno ma indagatore, voleva andare a Parigi e ci andò, non si attardò a spiegare perché, mentre Olivia era ovviamente legata ai suoi, a quel padre magro e giallastro in faccia e forse malato che Enrico aveva intravisto qualche volta. La diaspora della seconda B. L’estate.

    Loro due arrivarono finalmente al Raccordo, poco lontano dall’uscita verso sud, su un cartoncino avevano scritto bello grande e maiuscolo napoli, e si erano seduti su un guardrail, chiacchierando tra loro nel panorama polveroso di una periferia il cui maggiore lusso, al di qua della larga baraccopoli che fermentava verso la città, era un palazzotto di vetri a tre piani che vendeva Mobili in stile, prometteva Liste di nozze, ed esibiva in vetrina enormi letti di legno laccato di bianco e di rosa a volute orientaleggianti, come se le nozze e i letti fossero sinonimi e avessero molto a che fare con le mille e una notte.

    Alfredo frugò in tasca e ne cavò un foglio piegato in quattro. «Leggi un po’» disse a Enrico, che lo prese, lo spiegò e lesse a voce alta:

    È una razza speciale. Buon piede buon occhio. Guida il passo

    della nuova generazione. Va a informazioni-lampo.

    Scorrono sereni i chilometri

    come il fumo

    di un gigantesco sigaro. Tranquilli. Sicuri. Non arriveranno

    in tempo ormai, aspettano che un bagliore

    li sorpassi

    nell’autostrada verticale zeppa di fari.

    Enrico lo guardò: «Cos’è, ci auguri buon viaggio?».

    «In un certo senso».

    «Sembra fantascienza» disse Enrico, e rise.

    «Chissà se saremo tranquilli e sicuri» replicò Alfredo e sembrò si sentisse banale. Ma l’attesa si prolungava, auto e camion passavano spostando l’aria e colpendo le orecchie, dopo un paio d’ore ebbero il sospetto che il posto fosse sbagliato, non c’era spazio per fermarsi, eventualmente, anzi era pericoloso farlo. perciò camminarono lentamente sulla corsia di emergenza, gli zaini a pesare sulle schiene, fino a una piazzola di sosta, mostravano invano il cartello che le auto lanciate in corsa cercavano di strappar loro di mano. Altre due ore e cominciavano a convincersi che avesse ragione il padre di Enrico, te lo proibisco perché è una fesseria, potrete arrivare solo al capolinea dell’autobus e tornerete indietro. Però videro che un camioncino metteva la freccia e rallentava, un modesto om Lupetto per piccoli carichi.

    L’autista si sporse, abbassò il finestrino, disse: «Volete un passaggio?».

    Enrico resistette alla tentazione di un beffardo eh, già, e tutti e due annuirono incoraggianti.

    «Salite».

    Scorrevano sereni i chilometri e l’uomo taceva. Era robusto e piuttosto giovane, una maglietta a strisce orizzontali bianche e blu. «Dove andate?» chiese dopo tempo.

    «Più a sud possibile» rispose Alfredo.

    L’altro lo guardò brevemente, disse: «Eh, ho un collega siciliano, dice che laggiù è bellissimo, ho sempre pensato che vorrei andarci».

    «Siciliano di dove?» chiese Enrico.

    «Di Lipari, le isole Eolie».

    I due ragazzi si guardarono, negli occhi una mappa, avevano subito deciso: la nostra meta è quella, le isole, bisogna arrivare a Messina. E di colpo risero, e anche l’autista si unì alla risata, aveva poco più di vent’anni e aveva provvisoriamente trasferito i suoi desideri su quei due, guida il passo della nuova generazione.

    Ebbero paura solo una volta, anzi due, nel viaggio. Dopo le solite quattro ore di attesa davanti al casello di Salerno Fratte, un brutto posto che sembrava fatto solo di cemento vecchio scheggiato, finalmente si fermò una 500 malconcia e ridipinta sommariamente color limone, a guidarla un uomo non vecchio, grasso e con le sopracciglia come cespugli abnormi, i denti in disordine, ma soprattutto parlava una lingua sconosciuta, un qualche dialetto dell’entroterra, Alfredo ed Enrico non capivano quasi nulla della cascata di parole eccitate. Si sentivano a disagio, pressati nella macchina minuscola, oppressi dai loro zaini. Distinsero chiaramente scarse parole, una era Germania, che veniva loro scagliata addosso insieme ad altre parole tedesche, come arbeit, ne dedussero che il grasso che manovrava volante e cambio con violenza fosse o fosse stato un emigrato.

    L’altra parola, più allarmante, che si ripeteva nel discorso ininterrotto era palombella, forse alludeva all’uccello, la colomba. L’uomo deviò bruscamente e uscì dall’autostrada, guardava i due con gli occhi cerchiati di rosso e ripeteva quella parola. Allora i due ragazzi si spaventarono davvero, tastavano nelle tasche i rotoli di diecimila lire, stringevano le cinghie degli zaini, tacevano, e finalmente la 500 rallentò su una strada che pareva di montagna, altre auto erano ferme o anch’esse procedevano lente, sul ciglio, finalmente capirono, c’erano le palombelle, prostitute grasse le cui cosce debordavano da calze strette e gonne corte, i seni strizzati in corpetti a colori, e dipinte erano le facce, bianche di qualcosa che doveva nascondere le rughe e gli occhi sottolineati da grossi solchi di azzurro.

    L’uomo al volante era entusiasta, eccole qui, indicava con il dito grosso, vi ci ho portato, eh? Non capirono se voleva essere gentile e offrir loro l’attrazione locale, magari prendendo una percentuale dalla donna, o farsi pagare un giro sulla giostra.

    Enrico e Alfredo si sentirono completamente impreparati, una prostituta era un’astronave aliena, per loro, e figuriamoci quelle poverette in rovina. Tacquero, non sapendo che dire, e dopo un po’, elencando quelle che sembravano parolacce, maledizioni, insulti, l’uomo li riportò alla più vicina entrata dell’autostrada e li scaricò bruscamente.

    Nell’attesa del passaggio successivo, che fu un impiegato di Lamezia Terme, Enrico cavò fuori dallo zaino il librino che portava sempre con sé, un piccolo dizionario etimologico che si era regalato tra un romanzo e l’altro, per via della sensazione che ogni parola avesse un segreto, una biografia, e aveva sofferto disgrazie o goduto successi, e lui voleva scoprire questo e quell’altro. Cercò palombella e non la trovò, c’era solo palombo, parola capostipite, di cui il dizionario diceva: "Lat. palumbum, colombo selvatico, dalla stessa radice di pallidus, pallido". Ed ecco qua, un pallore che non si poteva nemmeno immaginare, sotto quelle gonne color rosso fuoco. Fece vedere ad Alfredo e si dissero con gli occhi: uf.

    Ebbero paura anche all’Ostello di Scilla. Ma la colpa era loro, quella volta. Cercavano di viaggiare da un Ostello della gioventù all’altro, e non sempre ce n’erano. Dormirono una notte su una spiaggia, sotto una barca, e un’altra in un albergo deprimente e disabitato. Ma Scilla, eccola qui, il castello proteso sul mare e affacciato sulla Sicilia, da un lato l’Etna, dall’altro il traguardo, le isole Eolie, che si intravedevano lontane, dovevano solo fare l’ultimo passo, Messina, la nave e via, siamo arrivati, anche a Lipari c’è un castello, un Ostello, letti di ferro e buona compagnia con cui fare amicizia.

    Fecero amicizia, a Scilla, con un paio di milanesi, che avevano due bottiglie di vino. Che effetto fa l’alcol se uno è astemio? Lo scoprirono quella notte, dovevano andare a dormire, l’indomani avevano fretta di arrivare a Villa San Giovanni, il traghetto per andare di là, ma si sentivano quasi alla meta, sporchissimi e felici, e i milanesi li invitarono a bere con loro sulla cima estrema del castello, un tetto piatto che bruscamente scendeva e non aveva parapetti. Bevvero dalle bottiglie e furono subito ubriachi, ridevano in modo sgangherato e Alfredo diede una botta alla schiena di Enrico, che barcollava sulla vetta, gli gridò: «A me non mi ha ubriacato il vino».

    «E cosa?» farfugliò l’altro.

    «I colori, cazzo, li hai visti i colori?».

    Quando il pescatore li scovò sotto la barca, su quella spiaggia, non se la prese, anzi si mise a ridere e disse qualcosa nel suo dialetto compatto e ispido, tirò su il bordo della barca, e i due ragazzi stropicciati, gli occhi semichiusi, furono allagati di un colore rosarosso, la luce riflessa dell’alba dietro le montagne, e la sera, quando furono a Scilla, si affacciarono alla finestrina della camerata e guardarono un tramonto gigante oltre le isole. Erano evasi dalle strade sbarrate della città. Non era la prima volta, certo, ma ora potevano assorbire i colori come una cosa loro, non presa in prestito da una spiaggia piatta, dal finestrino della 600 di famiglia, diretti agli ombrelloni arancio-finto e ai neon di una qualche riviera vociante, nella sconosciuta spiaggia di Lido di Classe, dove il padre di Enrico deportava la famiglia perché era vicino al paese della moglie, parenti romagnoli e piadine, qualche settimana d’estate in una pensione troppo familiare, una cocciuta mancanza di fantasia.

    Nel silenzio notturno della cima del castello ascoltavano se stessi, ma la spinta di Alfredo fece cadere Enrico giusto sull’orlo, e anzi la sua testa si sporse oltre, sopra la strada stretta e gli scogli e il mare oscuro in fondo, dove forse non sarebbe stato così terribile precipitare, un pensiero sbilenco, perché ogni istante è quello buono, se è buono, il futuro è infinito ma non ha importanza attardarsi se è possibile prendere tutto in una frazione di secondo, in un palpito del cuore, in un battito di ciglia. Se si è alla ricerca di qualcosa assaporando lo spasimo di un momento così denso da sembrare eterno, e non si sa cosa cercare.

    Enrico sospirò, era pronto, infatti conobbe Rosa qualche giorno dopo, in una lunga notte sull’acropoli di Lipari, dove erano arrivati arrampicandosi su un traghetto, trovato l’ormeggio giusto, a Messina, della vecchia e piccola nave per le isole, dove ebbero fame e decisero di spendere pochi soldi per due panini con la mortadella che il cameriere preparò là per là accumulando tra le due metà di un pane croccante e profumato due grandi fette rosa. «È il più buono che abbia mai mangiato» disse Enrico.

    E Alfredo: «Potrei dire che è la fame, ma lo penso anche io».

    Sistemati nell’Ostello, scesero in paese, c’era una festa, corpi e musiche, erano stanchi ma ora non più tanto, e mentre si chiedevano se gettarsi nella danza disordinata, Enrico vide la ragazza piccolina, splendente di sole come ne avesse assorbito troppo, scura com’era, e ora traspirasse di calore. Si strinsero tutta la notte nel sarcofago romano, giusto sopra la Marina piccola, e solo una sorta di timore di rompere un cristallo impedì che facessero l’amore, ma parlottarono finché il buio pesò sulle palpebre, la mano di lui perse coscienza posata su una guancia di lei, che proprio alla fine disse: «Vieni a Catania, a Lipari, non importa dove, il sud è caldo».

    Fumata bianca

    Subito ci fu l’incidente, appena cominciato il nuovo anno di liceo. Alfredo stava ancora pennellando quadri con

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