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Il Commissario Sartori. L'occhio lungo
Il Commissario Sartori. L'occhio lungo
Il Commissario Sartori. L'occhio lungo
E-book273 pagine3 ore

Il Commissario Sartori. L'occhio lungo

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Info su questo ebook

Tra i pochi autori italiani inseriti nei “Gialli Mondadori”, Franco Enna è considerato uno dei maestri della letteratura di genere italiana. Sceneggiatore, drammaturgo e scrittore, Enna ha firmato alcune delle pagine più originali del dopoguerra, prime fra tutte quelle dedicate al Commissario Sartori, un poliziotto siciliano disincantato e sensuale che anticipa le vicende di Montalbano. Alberto Tedeschi, mitico direttore del “Giallo”, definì l’opera di Enna con il termine “giallo d’arte”. Un giallo d’arte personalissimo che ama e ricerca la contaminazione: hard boiled, racconto realistico, fiaba, l’intreccio indissolubile fra Eros e Thanatos, animano il mondo creativo di uno dei maggiori protagonisti del noir made in Italy. Il rapporto fra malavita e politica, l’inconfondibile atmosfera degli anni Settanta, sono i protagonisti de L’occhio lungo, ultima puntata dedicata alle inchieste del Commissario Sartori. Dietro una facciata di onorabilità e perbenismo si nascondono interessi e connivenze criminali. Federico Sartori, trasferito a Milano per sostituire un collega, si troverà faccia a faccia con un mondo produttivo che non conosce, popolato di individui ambigui e senza scrupoli. Fra la pianura lombarda e il Canton Ticino si dipana una delle avventure più coinvolgenti del funzionario della Criminalpol, un’inchiesta che si rivela difficile, complicata e forse senza soluzione.
LinguaItaliano
Data di uscita18 ott 2019
ISBN9788893041768
Il Commissario Sartori. L'occhio lungo

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    Anteprima del libro

    Il Commissario Sartori. L'occhio lungo - Franco Enna

    2019

    L'OCCHIO LUNGO

    1

    Quando arrivò a Milano, c’era la nebbia. Un altro arrivo seguiva a un’altra partenza, da una città conosciuta da poco a una città sconosciuta. Aveva sperato che la novità lo distraesse dalla malinconia del distacco, invece dal viluppo grigio che lo avvolse, punteggiato qua e là di buchi luminosi, non gli giunse alcun segno.

    Mentre si accingeva a mettersi in fila per un tassì, scorse l’alta insegna di un albergo. D’impulso scelse quello, e lo raggiunse, reggendo le due valigie e la borsa, sudato nell’alito freddo della nebbia, evitando con balzi leggeri le pozzanghere della neve disciolta e gli schizzi delle automobili di passaggio.

    L’architrave di metallo traforato gli svelò il nome: Hotel Michelangelo. La vetrata automatica si spalancò appena ebbe spezzato l’invisibile filo della cellula fotoelettrica, e lui, che stava cercando di spingere i battenti, rimase con la destra a mezz’aria.

    La hall era grandiosa, animata dal brusio di parlate diverse. Un volto giovane e magro gli sorrise dal banco della réception, mentre un fattorino si impossessava con violenta premura del suo bagaglio.

    «Una singola con bagno, prego».

    «Per quante notti, signore?».

    «Forse due».

    Si sarebbe concesso due giorni da signore. Il pensiero, invece di dargli piacere, lo rattristò: sarebbe stato un finto signore, costretto a ridurre per qualche settimana le spese, per quel capriccio.

    «Novecentoquindici, dottor Sartori. Le va bene il nono piano?».

    Aveva esibito il suo tesserino ufficiale.

    Seguì il fattorino nell’ascensore. Passando davanti al banco del portiere, acquistò due giornali della sera. Il viaggio fu breve e veloce, controllato dallo sguardo sfuggente del fattorino. Si chiese quali fossero in quel momento i pensieri di quell’uomo di mezza età dall’aria stanca, che indossava una giacca viola con alamari, troppo larga per la sua taglia. Forse lo aveva catalogato per un cliente di straforo, di quelli che scelgono i grandi alberghi, sicuri del rimborso spese.

    Il fattorino gli indicò il frigobar e lo istruì sul modo di usare il televisore, indicandogli il pulsante del circuito interno. Lui gli diede una mancia cospicua, seccato di non averlo saputo ingannare con la sua falsa disinvoltura.

    Si liberò del soprabito, troppo leggero per il clima milanese, e si concesse un Campari. Col bicchiere in mano spostò la tenda e guardò fuori. La finestra dava su una strada alla quale faceva da sfondo la parete della stazione. Si trovò al di sopra delle nuvole, con la nebbia che batteva ai vetri e le luci fioche che si coagulavano tra i muri. Sembrava che stesse ricominciando a nevicare. Erano le venti e quaranta.

    Si sedette sulla sponda del letto per dare un’occhiata ai titoli di prima pagina dei giornali. Trovò subito quelli che gli interessavano: «Nessun indizio finora sul rapimento di Emina Mainardi - LA FAMIGLIA DELLA RAPITA HA CHIESTO IL SILENZIO STAMPA». Non si soffermò a leggere il breve articolo che «La Notte» pubblicava a commento e passò al «Corriere d’informazione»: «SEMPRE PIÙ FITTO IL MISTERO ATTORNO AL SEQUESTRO MAINARDI - Il marito della rapita, Emilio Mainardi, dopo nove giorni dal sequestro, ha chiesto il silenzio stampa. Il genero, Nicola Cocilovo, insulta un giornalista e prende a calci un fotoreporter».

    Accese una sigaretta e vuotò il bicchiere. L’apparecchio telefonico magnetizzava il suo sguardo. (Che fai, Fefé? Sei arrivato bene, Fefé?). Tornò a guardare dalla finestra. La nebbia, che si era infittita, impediva la vista del muraglione in fondo alla strada. Filtrava nevischio.

    Che fare?

    Andare al cinema? O guardare la televisione? Non aveva appetito. Avrebbe saltato il pasto; non gli avrebbe fatto male (aveva notato con disgusto che cominciava a metter su pancia).

    Il televisore era ad accensione elettronica - bastava accostare un dito e tac! Anche a colori. (Chi sa quanto costa!). Sul video volteggiava una seducente biondina seminuda, che, quando sforbiciava le gambe, non aveva più nulla da nascondere. Guardarla ridava fiducia nella vita.

    Tolse l’audio al televisore e si avvicinò al telefono. II cartellino delle istruzioni lo informò che era possibile chiamare utenti di altre città e persino di altri stati direttamente. Formò il numero di casa sua, a Roma.

    Mentre aspettava, si sorprese a sorridere di tenerezza. Fosse andato in capo al mondo, si fosse trovato allo stremo delle forze, non avrebbe mai potuto evitare di cercare un telefono per ascoltare la voce dei familiari. Gli ricaricava le batterie, soleva dire.

    La voce pastosa della moglie, con quell’inconfondibile accento siciliano che niente e nessuno sarebbero riusciti a estirpare, lo liberò dall’angoscia lombarda.

    «Pronto, casa Sartori».

    «Ma, Cristo, dove ti eri cacciata? È mezz’ora che sto attaccato al telefono...».

    «Fefé!... Tu sei, Fefé?».

    L’ineluttabile odioso appellativo.

    «Sì, sono io. Si può sapere perché ci hai messo tanto a rispondere?».

    «Come tanto? Ho sentito subito... Ero in salotto. Stavo guardando la televisione...».

    «La tieni troppo alta».

    «Ma che vai dicendo, Fefé. Io l’orecchio fino ho... Dove stai?».

    «Dove debbo stare? A Milano».

    «Tanta neve c’è?».

    «Ma no!...».

    «Come no!... Il telegiornale ha detto di sì. Quaranta centimetri. L’ho vista anch’io. Sembrava la Siberia». La voce di Teresina vibrava di trepidazione. «Tu che non sei abituato al freddo... Qui oggi c’è stato il sole. La maglia pesante te la sei messa, Fefé?».

    «Teresina, qui le case sono riscaldate meglio che a Roma. Si suda... Piuttosto, come stai?».

    «Bene sto, bene». Un’improvvisa nota di ritrosia, tentava sempre di minimizzare i suoi mali. «Tu piuttosto...».

    «Io sto bene. Ma tu... Quelle fitte che avevi...».

    «Quelle in basso?».

    In basso; mai avrebbe chiamato le parti intime col loro nome.

    «Sì».

    «Non le sento più, stai tranquillo. E il tuo capogiro?».

    «Per favore, Teresina, non facciamo gli infermieri a distanza, ora...».

    Seguì un breve silenzio.

    Lui si sentì colpevole.

    «Hai ragione, Fefé, scusami». Le tremava la voce.

    «Ma che fai ora, piangi?».

    «No, non piango» mentì la moglie. «Sono felice di ascoltarti, ecco...».

    «Bel modo di mostrarmelo. Su, tesoro, non fare la bambina».

    Seguì una lunga pausa.

    «Teresina...».

    «Sì, Fefé...». Quasi un gemito.

    «Tesoro, è possibile che ogni volta che parto tu devi fartene una malattia?».

    Lei esplose:

    «Ma è che tu nel mio sangue sei... la mia aria sei, capisci?, e senza di te...».

    Sartori si sentì lacerare.

    «Non fare così, te ne prego. In fondo, non sono in America...».

    «Tu... tu sei più che in America, per me, anche se ti trovi nell’altra stanza!... Ma scusami, Fefé, non dovevo lasciarmi andare. Mi perdoni, amore?».

    «Non ho niente da perdonarti, bambina mia... Dove sono i ragazzi?».

    La voce di Teresina si fece stridula di collera.

    «Non parlarmi di quei debosciati o mi metto a gridare come una pazza...».

    «Santo cielo, cos’è successo? Manco solo da poche ore e...».

    «Lo puoi immaginare... mangiano quando ne hanno voglia, vanno in giro come straccioni e, proprio oggi pomeriggio, la tua Tina, mentre il treno ti portava via da me, è andata a una riunione di quelle esaltate... quelle che fanno le sfilate coi pollici e gli indici uniti... Ma che fai, ridi?».

    Lui infatti stava ridendo.

    «Scusami, è stato più forte di me».

    «Ma perché ridi? Ti fanno ridere queste cose? Io non...».

    «No, no. Anzi. Ma quello che hai detto delle femministe... Bellissimo!». Ricominciò a ridere; non riusciva a frenarsi. All’altro capo del filo la moglie, certamente risentita, taceva. «Via, cerca di capirli, tesoro! I nostri figli sono bravi ragazzi, questo è certo... Solo che sono disorientati, ecco, come tutti i loro coetanei».

    «Ma che cosa posso fare, più di quello che faccio?» gemette la moglie. «Carlo ha i capelli più lunghi del Nazareno, e per fargli cambiare i jeans glieli debbo rubare la notte, mentre dorme...».

    «Vedrai, cambieranno».

    «Dove sei, in albergo?».

    «Sì».

    «Hai mangiato?».

    «Ci vado adesso».

    «Ti raccomando, Fefé... Non mangiare roba pesante, che poi stai male la notte...».

    «Stai tranquilla...».

    Sul video due negrette, anche loro seminude, si erano affiancate alla biondina.

    «Teresina, mi manchi».

    «Davvero?» mormorò la moglie con un filo di voce.

    «Davvero» confermò lui.

    «Grazie, Fefé».

    Si lasciarono sulle immagini mute della loro intimità. Per nessuna ragione al mondo Teresina gli avrebbe confessato che lo desiderava, che la notte, quando lui non c’era, stentava a prendere sonno, perché le mancavano le sue carezze: lei era di quelle spose all’antica, che, quando dovevano spogliarsi in presenza del marito, spegnevano la luce.

    Bevve un altro Campari. Erano passate da qualche minuto le nove.

    All’improvviso si accorse di avere appetito e, dopo avere spento il televisore, uscì alla ricerca di un buon ristorante; non voleva mangiare in albergo, aveva bisogno di sgranchirsi le gambe e di respirare una boccata d’aria fresca.

    Il nevischio si era infittito. Lui si lasciò bagnare la faccia e per qualche minuto rimase al riparo della pensilina dell’ingresso. Poiché non portava il cappello, non se la sentì di esporsi più del necessario (Fefé, hai messo la maglia pesante?). A circa venti metri dall’albergo scorse l’insegna di un ristorante - il Giglio Rosso. Le luci dietro le vetrate, le molte ombre degli avventori lo fecero decidere. Uscì allo scoperto, attraversò la strada e s’infilò nel locale caldo e affollato. Nel riverbero dei fornelli, di fronte all’ingresso, si muovevano le bianche tube dei cuochi. Un cameriere basso e simpatico, dall’accento toscano, lo guidò a un tavolo d’angolo in fondo al salone. Gli fu offerto del pesce.

    «È fresco?» s’informò.

    Il cameriere sorrise a mezza guancia.

    «Fresco come da noi» fu la risposta «non lo mangia manco al mare».

    Scelse un branzino di almeno tre etti, che gli fu cucinato alla maniera della casa, chiamata, chi sa poi perché, Liberty. Ne fu pienamente appagato. Bevve vino bianco, imbottigliato in Toscana dallo stesso proprietario, che annacquò, secondo una sua vecchia abitudine, con acqua tonica. Prima di uscire, il proprietario, basso anche lui e tutto sorrisi, volle stringergli la mano.

    Si ritrovò nella nebbia in preda a un piacevole senso di euforia. Una prostituta bruna al volante di una Taunus azzurra dal motore acceso gli strizzò l’occhio sussurrando: «Dove vai, maschio?». Lui tirò dritto, fece il giro dell’isolato, rasentando i muri, e se ne tornò in albergo. Dopo una rapida doccia calda, si cacciò sotto le coperte.

    2

    Un tassì lo portò in via Fatebenefrateili. La nebbia si era diradata, il cielo era plumbeo e minacciava ancora neve. Non c’era memoria di sole nell’aria. Gli spazzaneve avevano pulito alla meglio il fondo stradale, ma avevano ostruito i marciapiedi, dove gruppi di uomini incappucciati erano intenti a spalare. Via Fatebenefratelli, dal nome ingenuamente esortativo, aveva qualcosa in comune con via San Vitale, dove c’era la sede della questura centrale romana - i muri alti e grigi, le finestre quasi claustrali. La gente dietro le persiane si limitava a spiare fuori? Non si notava alcun movimento nelle case, né si udivano rintocchi di campane; gli unici suoni a rompere il silenzio della strada ovattata di neve erano i gemiti delle sirene delle autoradio che schizzavano fuori dal cortile simili a cani slegati dietro la selvaggina.

    Un sottufficiale del corpo di guardia lo accompagnò nell’ufficio del capo della Criminalpol, al secondo piano dell’edificio. Sartori trovò nei corridoi animazione di agenti, cittadini e indiziati.

    La porta dell’ufficio del commissario capo Ruggeri era chiusa. Il sottufficiale gli fece segno che erano arrivati, abbassò la maniglia e spinse dentro la testa.

    «Dottore, c’è il commissario Sartori...».

    Si udì un «Avanti, avanti!», poi la porta si spalancò e un uomo alto e magro, di età incerta, forse più vicino ai quaranta che ai cinquanta, nonostante l’apparenza, si mosse da dietro la scrivania con la mano tesa.

    «Caro Sartori!... Piacere di conoscerti, anche se in quest’occasione...».

    La sua mano era fredda e umidiccia, aveva il volto livido, le guance scavate; i suoi occhi, grandi e scuri, un tempo non lontano dovevano avere avuto luminosità e calore, ma ora, quasi per volontà di non vedere, erano opachi.

    Il sottufficiale si ritirò, chiuse con delicatezza la porta. Ruggeri indicò al collega una delle due poltrone di vecchio cuoio situate davanti alla scrivania, quindi tornò a occupare la sua. Nel rimettersi a sedere parve crollare dopo una lunga corsa, e le sue palpebre, quasi per il contraccolpo, piombarono sui globi oculari e vi rimasero inerti per alcuni secondi. Sartori lo fissava con inquietudine.

    «Perché hai detto in questa occasione?» chiese. «Che occasione sarebbe, questa?».

    «Come, a Roma non ti hanno detto niente?».

    «Non capisco... Che cosa avrebbero dovuto dirmi?».

    Ruggeri allargò gli occhi, come per costringerli a vedere, esitò un attimo, poi mormorò: «È la fine, caro Sartori».

    «Che hai detto?».

    Il collega chiuse gli occhi, e nella improvvisa immobilità dei lineamenti, la sua faccia divenne un’atroce maschera funebre. Riaprendoli, ripeté con più forza:

    «Sì, è la fine. Adesso che sei arrivato, potrò entrare in clinica e sottopormi all’intervento».

    «Ma che cosa...?» Sartori s’interruppe; non trovava le parole adatte; nella stanza accaldata e grigia, col cielo che premeva alla finestra minaccioso, fu sopraffatto dalla pietà.

    «Mi hanno dato cinque probabilità su cento».

    «A Roma mi avevano detto che avrei dovuto sostituirti per due mesi...».

    Le labbra esangui di Ruggeri si stirarono in un sorriso.

    «Ti hanno indorato la pillola... Non tutti vengono volentieri a Milano. Temo che dovrai restarci per un bel pezzo».

    «Sei sicuro di non esagerare? Oggi la chirurgia e la medicina...» tentò Sartori debolmente.

    Il collega lo interruppe con un cenno.

    «Non pensarci più» disse, ricorrendo al suo drammatico sorriso, «non volevo accoglierti così. Già questo posto è così inospitale... Tu hai famiglia, vero?».

    «Moglie e due figli».

    «Sei venuto solo?».

    «Be’ certo!... I ragazzi studiano. E poi, come ti ho detto, pensavo che per due mesi...».

    S’interruppe, trasse di tasca il pacchetto di sigarette, ne offrì a Ruggeri, procurò il fuoco per entrambi. «Saranno due mesi, lo sento. Non mettere da parte la speranza. Anche tu hai famiglia, no?».

    «Sì, moglie e un figlio di cinque anni. Mi sono sposato tardi».

    «Bene, comincia col cacciarti in testa che andrà tutto bene. Ripetitelo fino alla nausea, capisci? Perché, quando vuoi ardentemente una cosa, ricordalo, sei già a un passo dall’ottenerla. Potrei citarti decine di casi disperati che si sono risolti con una completa guarigione. Devi reagire».

    Ruggeri lo fissava con le palpebre semiabbassate nel fumo della sigaretta. Sorrise ironico e schiacciò il resto della sigaretta nel portacenere.

    «Bene, parliamo di lavoro. Non ho molto tempo...».

    Posò la destra su una pila di fascicoli e soggiunse: «Qui c’è tutto il necessario. Non ti lascio una bella eredità. Come ti avranno detto, a Milano abbiamo costituito una specie di Nucleo Antisequestri, come i carabinieri. Ne fanno parte quindici uomini specializzati, con molto fegato e infinita pazienza... Insomma, sono ragazzi in gamba, e di loro potrai fidarti a occhi chiusi. I commissari De Vito e Faggioli saranno i tuoi vice. In gamba anche loro, anche se molto giovani... È la prima volta che ti occupi di sequestri di persona?».

    «Sì. Finora il mio pane sono stati gli omicidi».

    «Questo è un lavoro più odioso e deprimente. A un certo punto ti accorgerai che i tuoi veri nemici non sono i rapitori, ma i familiari del rapito. O della rapita. Ti attaccheranno con armi subdole, contro le quali tu non potrai reagire. E se riuscirai a smussare quelle armi, che sono la pietà, la disperazione, il terrore, la diffidenza, ti creerai la nomea di uomo senza cuore... Ti getteranno addosso i bambini per impietosirti, ti annebbieranno la vista con le loro lacrime, ti mentiranno spudoratamente contro ogni evidenza, ti inganneranno senza il minimo scrupolo, pur di non perdere quella briciola di speranza che li sostiene nell’attesa di rivedere sana e salva la persona amata... E come potrai condannarli? Tenterai inutilmente di dimostrare che sei un loro alleato. Io raramente ci sono riuscito. Mi sono guastato la salute... Non ti faccio un bel regalo».

    «Non pensarci».

    Ruggeri trasse di tasca due fogli ripiegati e li porse al collega dicendo:

    «Ho preparato un riepilogo della situazione; potrai prenderne visione più tardi. In ogni caso, per ulteriori chiarimenti potrai rivolgerti al maresciallo Delfino, che fa parte del tuo gruppo. È una vecchia volpe. Non trascurare i suoi consigli, se decide di dartene. Te lo presenterò tra poco. A proposito, immagino che non avrai ancora trovato un alloggio».

    «Infatti».

    «Anche in questo senso ti sarà utile Delfino. È capace di scovarti uno zulù tra gli eschimesi... Mi dai un’altra sigaretta?».

    Sartori lo accontentò. Dopo avere aspirato due larghe boccate, il collega chiese due caffè attraverso l’interfono. Li portò un agente giovanissimo, certo di prima nomina.

    «Che età hanno i tuoi ragazzi?» s’informò poi Ruggeri.

    «Il maschio diciannove e la femmina diciassette».

    «Ti fanno disperare?».

    «Be’, ce la mettono tutta per riuscirci!» rispose Sartori ridendo. «Flirtano coi radicali, pensa un po’. Una volta a Roma me li sono trovati di fronte in una manifestazione non autorizzata».

    «E che hai fatto?».

    «Cosa volevi che facessi? Ho girato al largo».

    Rise anche Ruggeri.

    «Mia moglie insegna lettere al ginnasio» disse dopo un po’, seguendo una immagine cara con la mente. «Ci siamo sposati tardi appunto perché aspettavamo che passasse di ruolo. Col suo stipendio la vita è diventata più sopportabile, abbiamo potuto comprarci una casa in campagna, appena fuori Luino. Per il bambino... Io ci sarò andato cinque o sei volte».

    «Ci andrai in convalescenza» disse Sartori in tono fermo.

    Il collega lo fissò a lungo in silenzio, mentre gli occhi, per la prima volta, gli si illuminavano.

    «Credi proprio?».

    «Ne sono certo. E, se prima di ripartire per Roma, mi vorrai invitare per un fine settimana, sarò felice di venirci».

    Ruggeri si alzò di scatto e si spostò vicino alla finestra. Sui vetri s’incollavano i primi fiocchi di neve.

    «Magari potessi crederti!» esclamò senza voltarsi.

    «Devi credermi» insisté con forza Sartori.

    Ruggeri gli si avvicinò col portafogli in mano, dal quale trasse un’istantanea che porse al collega, dicendo:

    «Le mie creature».

    Sartori osservò il volto paffuto di un bel

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