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Dipende dalle nuvole
Dipende dalle nuvole
Dipende dalle nuvole
E-book255 pagine3 ore

Dipende dalle nuvole

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Info su questo ebook

Lisa è Aika. Unico vero personaggio di questo romanzo. Aika è Lisa con la sua sofferenza e la sua malattia che in parte libererà coinvolgendo tutti coloro che sentiranno i suoi lamenti, le sue urla, il suo odore. La sua fame di vita la porterà dritta nei pensieri di Laura, dottoressa di quell'ospedale che ospiterà la protagonista. La sua fame di fede e di speranza la porterà dritta nel cuore di luca, parroco di una città dove " i fiori marci si posano sui davanzali delle finestre mentre suonano le campane a mezzanotte."
S'intrecceranno così le storie. Si respirerà aria di malattia, d'angoscia, di fede e di speranza. Ma l'amore, come sempre, prenderà forza come le nuvole prima di un temporale. E sarà quell'amore che scendendo dal cielo sotto forma di gocce, eliminerà ogni cosa.
LinguaItaliano
Data di uscita16 nov 2014
ISBN9786050336559
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    Anteprima del libro

    Dipende dalle nuvole - Natalizia Giurgola

    Natalizia Giurgola

    DIPENDE DALLE NUVOLE

    UUID: 72394390-6d91-11e4-bfb9-9df0ffa51115

    This ebook was created with BackTypo (http://backtypo.com)

    by Simplicissimus Book Farm

    Table of contents

    Si guardò allo specchio.

    Lui, che viaggiava sempre con l'approvazione di Dio, sentì in quel momento grossi aghi infliggersi nel corpo.

    I tratti sicuri del suo viso erano scomparsi e un leggero tic sul labbro superiore lo infastidiva.

    Da qualche tempo aveva quell'espressione. La sua famosa calma si era sgretolata, sostituita da una continua eccitazione,che lo teneva sveglio buona parte della notte.

    Tutto era cominciato là, in una stanza d'ospedale con le pareti bianche, un piccolo armadio marrone chiaro e una traballante e vecchia poltrona.

    Da quel giorno erano cambiati i suoi pensieri, le parole ai parrocchiani, le prediche in chiesa come pure il proprio modo di scrivere, la maniera di guardare le cose, i momenti di riposo.

    Per giorni e giorni fu inquieto e da quell’indimenticabile giorno la sua vita non fu più la stessa.

    Don Luca s'inginocchiò davanti al grosso crocefisso e disse ad alta voce:

    SIGNORE, che cos’hai ancora in mente per me?

       ***

    La voce di Sofia sembrava ovattata, provenire da un altro mondo. Il suono cominciò a risuonarle nella testa come un detonatore.

    Don Luca. Don, mi ascolti?

    La voce della donna, che da anni si occupava della parrocchia, diventò un rimprovero.

    Don, la vedi quella donna seduta sul divano nell'ingresso? Ecco, aspetta te!

    Non mi sembra di conoscerla rispose il sacerdote, riferiscile che fra cinque minuti dovrò celebrare la messa, ho poco tempo, che prenda un appuntamento e ritorni un altro giorno.

    Ha detto che è importante, che ti aspetterà, cascasse il mondo!

    Il prete scrollò le spalle. I suoi occhi scuri, da lontano, parvero incrociare quelli della donna.

    La signora non si mosse. Rimase ferma, decisa, sicura di sé.

    Se vuole aspettare, aspetti pensò il sacerdote, oggi non ho tempo per ricevere visite.

    Distolse lo sguardo e s’incamminò verso la chiesa, a dire il vero molto incuriosito. Sicuramente avrebbe parlato alla signora più tardi.

    La messa che andava a celebrare era quella delle diciotto e a quell'ora la chiesa era poco frequentata, quasi vuota. I parrocchiani fedeli erano pochi e il più giovane aveva sessant’anni.

    Sono sempre le stesse facce, pensò Don Luca cercando di concentrarsi.

    Andrea, l'amico organista, faceva ogni tanto un'apparizione e prendeva possesso dell'organo a canne che troneggiava dall'alto della chiesa.

    La messa del pomeriggio diventava così un'ubriacatura di note. I muri spessi della chiesa vibravano, come pure il grosso crocefisso.

    Al suono dell’ Ave Maria, che Andrea suonava virtuosamente, quei pochi anziani, che credevano nel paradiso, si agitavano inginocchiati. Sembrava che uno spirito si fosse impossessato dei loro corpi. Uno spirito infuocato che con un soffio spazzava via le preoccupazioni, gli incubi, i buchi nella testa.Il prete li guardava dall’altare, pieni di nostalgia per un passato ormai perso per sempre, con le tasche zeppe di medicine per la pressione alta, il diabete, l’artrosi, con il rosario legato tra le dita e il libretto dei canti, che senza occhiali diventava illeggibile.

    Luca amava quel momento, i suoi occhi velati per l’eccitazione roteavano, le proprie mani sempre aperte cercavano di trattenere il più possibile quell'aura spettacolare che l'amico con le dita riusciva a creare. Poi l'odore dell'incenso suggellava quegli attimi e, alla fine, il semplice e meraviglioso gesto di dare le poche ostie era così carico di tensione che l'avrebbe ripetuto all'infinito.

    Durante la celebrazione, si ritrovò più volte a pensare alla signora che lo aspettava in segreteria e, per un attimo, gli parve di vederla entrare e sostare in fondo alla chiesa.

    Ho le visioni pensò.

    Non so chi sia, non l'ho mai vista prima, chissà cosa vorrà?

    Finì la messa in modo frettoloso. Prima d’uscire dalla chiesa si voltò verso l’altare e si fece il segno della croce.

    Sofia aprì la porta della parrocchia:

    Don, la signora, suo malgrado, non poteva più aspettare e ti ha lasciato questo biglietto.

    Deluso e un po’ arrabbiato, il prete ebbe un gesto d’impazienza.

    Possibile che tutti debbano avere fretta? Tutti corrono come impazziti con gli occhi puntati sull'orologio, poi quando arriva il momento: tempo scaduto.

    Che peccato, ma per come la vedeva lui, la signora poteva anche aspettare.

    Il prete si liberò dell’abito che era costretto a indossare per la messa, pulì e sistemò il calice delle ostie, piegò la tovaglia ricamata a mano da qualche parrocchiana di buona volontà e guardò l’anziana signora.

    Sofia, quanto è durata la messa? chiese il prete con aria perplessa.

    Don Luca, perché questa domanda? lo sai meglio di me che oggi, insolitamente, è durata meno del previsto.

    Non era necessario essere chiaroveggenti per capire che la vita del prete era già cambiata.

    ***

    Laura, dispiaciuta per non essere riuscita a parlare con il sacerdote, strada facendo sistemò i propri pensieri. Faceva sempre tutto di corsa senza un attimo di respiro e quando finalmente decise di fermarsi, di rilassarsi, di liberare la sua mente e il cuore ormai intrappolati, si ritrovò ad aver sbagliato i tempi.

    A casa trovò il gatto ad aspettarla con la ciotola del latte vuota, trovò il letto ancora da fare, la borsa per il turno di notte da preparare e, accidenti, il telefono che squillava.

    Doveva correre in ospedale. L'avevano chiamata per un’urgenza.

    Sempre presa da una sorta di frenesia del tempo, in quei momenti odiava tutti e tutto.

    Detestava quel tipo d’ospedale con i suoi ingranaggi complessi, le sue strutture ormai vecchie, quasi marce e passate e, un sistema che non funzionava più. S’infastidiva quando i colleghi la chiamavano con un tempismo perfetto e riusciva a odiare anche l'ammalato che aveva bisogno di lei.

    Era consapevole che il suo mestiere racchiudeva momenti d’ insofferenza ma anche unici, che ogni volta davanti alle difficoltà, e di queste era zeppa fino al collo, tutto sembrava insormontabile.

    Riusciva ad amare e odiare quei momenti ma una sorta d’esaltazione le permetteva di andare avanti.

    Gestiva i casi più difficili con un certo distacco, tanta adrenalina nelle vene e, tutte le volte, cercava di conservare le forze per i casi ancora più complicati.

    Si gettava così a capofitto in un pozzo profondo, con un’acqua melmosa, gelida e invitante nello stesso tempo.

    Riconosceva la strada colma di mine che ogni giorno percorreva e si chiedeva perché negli ultimi tempi avesse quella sensazione. La percezione che le fosse schizzato fuori il cervello, che le energie si stessero esaurendo e che una di quelle mine le sarebbe esplosa sotto i piedi.

    Così, irragionevolmente, da un momento all’altro.

    Laura si lasciò questi pensieri, la casa alle spalle e mentre andava in ospedale le venne in mente il prete che non era riuscita a incontrare.

    Era stato acceso il fuoco, un fuoco sacro. Un’esplosione avrebbe frantumato ogni cosa. Nulla l’avrebbe più spento. Difficilmente tutto sarebbe tornato come prima.

    ***

    Don Luca si rendeva conto fin troppo bene che, da qualche tempo, la sua vocazione aveva un non so che di abitudinario.

    La vita in parrocchia scivolava via tutti i giorni sempre nella stessa maniera. E dire che ai tempi del seminario, giovane e pieno di risorse aveva pensato di spaccare il mondo, rovesciarlo e metterlo in quadro. Poi il mattino, accendendo la radio che vomitava gli incredibili orrori del mondo, veniva fuori per un istante quella fastidiosissima sensazione che lo circondava completamente e che gli dava un gran senso d'impotenza. Sarebbe così partito all'istante in un posto qualsiasi della terra. Avrebbe guarito i malati, arricchito i poveri, spostato le montagne e frantumato le rocce. Avrebbe pulito i muri sudici, i tetti corrosi dalla ruggine, la muffa dalle finestre. Ma sapeva curare, pulire, scrostare?

    Cercava quindi, a volte con rabbia, di dedicarsi a una tal Maria, tal Luigi, tal Mario che con la fede non avevano per niente confidenza, che non frequentavano la chiesa, che a loro non importava un accidenti di Dio, della Madonna, di tutti i Santi in paradiso e tanto meno dei preti.

    Poi si rendeva conto di quanto tutto ciò diventava sempre più difficile. Di quanto in simili momenti sentiva solamente una grande orchestra priva di suoni e di armonia. Una grande orchestra rintronante priva di musica. Un’orchestra inutile e imbarazzante.

    Quella sera mentre si affrettava a cambiarsi, doveva partecipare a uno di quei noiosi incontri con altri preti, pensò alla vita di tutti gli uomini. Pensò alla fede, al suo credo, alla religione, a tutte le religioni dell’universo. Si sentì vulnerabile. Non era facile la sua vita. Pensò alla vita della signora che voleva parlargli, al suo messaggio che, con la carta ruvida leggermente stropicciata, l'aveva infastidito a tal punto che era rimasto là sulla scrivania, incustodito.

    Si ritrovò il foglio tra le mani e, inspiegabilmente, decise che non era ancora il momento di leggerlo.

    Che stupido! Provò un senso di fastidiosa eccitazione. Aveva paura di sbagliare ogni cosa.

    Guardò fuori dalla finestra aperta e non vide nulla, gli occhi chiusi e le orecchie tese. Sentì in lontananza la sua canzone preferita, quella canzone che ascoltava più volte e che ogni volta gli faceva fare un salto. Un salto per farsi coraggio.

    Vasco Rossi in lontananza cantava : " Voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha…."

    Un brivido e, aprendo tutti gli alveoli, inspirò l'aria satura di profumi. Sentì così che stava arrivando la primavera.

    ***

    Arrivata in ospedale, Laura ebbe la sensazione di essere una formica in un gran formicaio, confinata sottoterra per tutta la vita. Prese così subito in considerazione l'ipotesi di scappare via, di trascinarsi lontano da quel luogo dove come in un teatro, tutti in scena, ognuno recitava la propria parte, il ruolo che era stato loro assegnato.

    Salendo i quattro gradini che la separavano dal pronto soccorso, la sua casa le parve lontana mille miglia e ormai irraggiungibile.

    Gettò un'occhiata in sala d'attesa e le sembrò di distinguere nettamente i veri visi sofferenti da quelli che credevano di avere la febbre, il mal di schiena, le gambe gonfie e l'acidità di stomaco. Nell'aria si respirava sudore e lacrime e, più in là, un mucchietto di stracci sporchi di vomito coloravano ulteriormente il lurido pavimento. I muri con le scritte e le frecce. Chirurgia primo piano, cardiologia secondo e così via fino ad arrivare al decimo.

    Quanta gente sarà arrivata oggi?

    Non lo avrebbe saputo mai.

    Per fortuna quel pronto soccorso non era il suo posto di lavoro.

    Da anni frequentava l'ospedale. Era arrivata, senza raccomandazioni alcune, a lavorare in un vero reparto ospedaliero e incredula aveva festeggiato con gli amici per tre sere di seguito. Si era ubriacata fino a vomitare, si era stordita fino a notte inoltrata, fino a dimenticare le migliaia d’ore passata china sui quei strafottuti libri con le formule e le centinaia di parole incomprensibili, si era messa a urlare per ore affinché la sentissero tutti.

    Aveva un lavoro. Poteva finalmente andare.

    Era autorizzata a tagliare il cordone ombelicale, lo stesso che sua madre non era mai riuscita a spezzare.

    Le venne in mente la sua laurea e la decisione. Per sgranchire quelle gambe che erano state immobili e ferme per anni, aveva fatto il giro della città a piedi, aveva sentito per ore il rumore delle auto e della folla respirando l'aria inquinata. Si era fermata solo per guardare il cielo grigio, coperto da spesse nuvole di smog. Aveva immaginato il sole oltre quel manto grigio, perché il sole doveva esserci, perché lei doveva recuperare il tempo perduto.

    Si era concessa, dopo una settimana dalla laurea, una vacanza vera. Aveva meditato per giorni con aria non tanto convinta, il troppo studio doveva aver intaccato il suo cervello e, alla fine, aveva deciso di prendere la macchina e di lasciarsi portare. Libera, finalmente libera dai libri, dalle troppe nozioni stampate nella testa, dall’ansia degli esami, dagli sguardi insofferenti dei professori, dalla corsa al voto più alto, dalle lezioni perse per colpa dell’autobus che non arrivava mai.

    Così libera di affrontare il mondo con i suoi dolori, le sue manie, i suoi animali feroci.

    Ora che aveva superato la soglia dell’ospedale, passato il badge, spogliatasi velocemente dei propri abiti per indossare la verde divisa ospedaliera, vide quella libertà prendere il volo e chiudendo gli occhi per la rassegnazione, tutto diventò invisibile.

    ***

    Durante la permanenza in seminario, Don Luca aveva sempre avuto l'impressione di essere rinchiuso in una sorta di scatola magica, un recinto fatato. Il mondo fuori sembrava caotico, senza forma, senza regole, pieno d’imbrogli e casini. Le regole erano che ti dovevi fare le ossa, sviluppare al massimo la tua intelligenza e acuire il proprio ingegno. Ti sarebbero serviti una volta entrato nella fossa dei leoni.

    Tutto ciò era iniziato a soli dodici anni.

    Era vissuto fino a quell'età in campagna con i genitori, un fratello minore, due cani e un incalcolabile numero di gatti.

    Nato sotto un cavolo, una cicogna dal becco lunghissimo l'aveva preso e adagiato sul letto matrimoniale. I suoi genitori l'avevano accolto come un dio. Erano anni che cercavano un figlio. Un figlio come lui.

    Il giorno dopo il suo arrivo, la vecchia vicina di casa raccontò del sogno che aveva fatto. Quel bambino sarebbe diventato prete.

    Passò gli anni della sua infanzia a stuzzicare il cane e i gatti e quando nacque suo fratello finì di tormentare gli animali.

    Alla vista di quell'intruso fu colto dalla voglia di soffocarlo e astutamente usò il caldo corpo della gatta incinta. Il piacere e il dolore insieme, il ricordo delle urla di sua madre, che arrivò in tempo a impedire il disastro. Fu tenuto lontano dal fratello, lontano dai gatti, lontano dai pensieri.

    Iniziò così a pregare tutte le sere, a soffocare la paura al calar della notte, a impedire gli attacchi di pianto e di panico, a frantumare ogni tensione interiore.

    Consapevole dell’accaduto, il pensiero lo torturò per anni.

    Diventò prete, ma non solo per il fattaccio. Il suo futuro era segnato. Doveva ripagare Dio e i suoi genitori e solo per un attimo, un brevissimo ma intenso attimo, si rese conto di non aver mai avuto via d’uscita. Quella sarebbe stata la sua vita, quella sarebbe stata la sua croce: sentire per tutto il resto della sua esistenza, i gemiti del neonato e la disperazione di sua madre.

    ***

    Laura varcò la soglia della sala parto. Che cosa stava succedendo? Cominciò a invocare tutti i santi affinché la serata fosse tranquilla.

    Una donna si inarcava continuamente sul lettino, le doglie l'avevano sorpresa per strada e un liquido rossastro le era scivolato giù per le gambe fino a entrarle nelle scarpe.

    Rischiando d’imbrattarsi i piedi con tutto quel sangue, Laura si avvicinò alla donna e le bastò un solo sguardo per capire che qualcosa non quadrava. Il corpo nudo della paziente diventò una bambola di pezza che si dimenava, bisognava prepararla d'urgenza e sottoporla a un taglio cesareo. L’infermiera stipò in fretta e furia il catetere in vescica e le vene della paziente furono prese d’assalto per la fleboclisi con l’antibiotico.Un viso rotondo con grandi occhi neri fissava tutto. Un coro ripeteva Signora respiri profondamente, Il dolore non dava tregua e la paura aveva annullato la salivazione di tutti. La paziente allontanò lo sguardo dalle divise colorate di verde e, resasi conto di non riuscire più a parlare, si chiese perché tutti si affannassero in quella maniera. Guardò il marito, poi l’infermiera, che entrava e usciva di corsa dalla sala operatoria, sentì una porta sbattere e il telefono suonare.

    Una voce rispose urlando: ora non posso, chiama più tardi, qui c’è da fare. Un’altra voce, da un’altra parte: chiama l’anestesista, c’è un’urgenza.Poi cominciò a realizzare la sua grande tragedia. Un figlio l'aveva già perso, ora non poteva perdere anche questo.

    L’anestesista arrivò di corsa e altrettanto di corsa intubò la signora che chiudendo gli occhi dimenticò tutto.

    Laura incise la cute della paziente come fosse stata sua, percepì una grossa fitta al petto e si preparò al peggio.

    Si sentì stanca, come se fosse trascorsa già la notte.

    Diverse volte alzò lo sguardo al monitor per verificare il battito cardiaco della paziente. Quello del bambino non si percepiva più.

    Estrasse, suo malgrado, un pupazzo inanimato, sporco di sangue e di vernice caseosa. Estrasse la placenta che, si era staccata prima del previsto.

    Anche questa volta, per la paziente le cose non erano andate bene. Anche stavolta non ne avrebbe capito il significato.

    Angela, l'infermiera della sala parto, sembrò sprofondare sulla sedia. Erano ore che correva per il reparto, sola e con troppe cose da fare. Sentiva in continuazione campanelli suonare e tutte le volte giurava che il giorno dopo si sarebbe licenziata. La durezza delle pieghe della sua bocca e la voce incrinata erano una vera denuncia contro tale situazione.

    Ieri sera c'è stata la riunione per gli infermieri disse a Laura,  i nostri sindacati giurano che ci sarà un incremento del personale e di stipendio, ma lei ci crede dottoressa? Sono anni che ripetono le stesse stronzate. I dirigenti di quest’ospedale devono risparmiare. Che cosa devono risparmiare quegli incapaci che non sanno neanche com’è l’ospedale e in che condizioni si lavora? Che cosa devono risparmiare? Quei quattro soldi che poi sprecano per altre cose? E la nostra pelle, chi ce la risparmierà? I battiti del nostro cuore, quelli persi, chi ce li restituirà? E il sonno perso come lo riavremo? Chi ci darà la forza di andare avanti? Dottoressa ho appena iniziato il turno e sono già stanca, questa è la quarta notte consecutiva di lavoro, non credo di resistere oltre.

    Laura guardò Angela e vederla seduta le sembrò quasi un miracolo.

    Siamo spremuti come arance continuò l’infermiera con la voce tagliente, quasi una lama di rasoio, e il succo buttato nel cesso.

    Troppo poco perché sia bevuto pensò Laura con tristezza.

    Lei, l’infermiera della notte, sola con il dramma delle pazienti e ancor più sola con il suo. I genitori di Angela se n’erano andati tra le fiamme di una macchina, distrutta sotto il ponte dell'autostrada, lasciandola sola ad accarezzare i capelli arruffati del fratellino.

    Il suono di un campanello destò l’infermiera dai tristi pensieri e ricordi.

    Laura trattenne per un istante il respiro. Voleva scacciare l’odore che aveva riempito la sala operatoria. Odore di sangue, puzza di sudore, di traverse sporche e di aliti cattivi.

    Dottoressa, non si finisce mai di correre, ma ora mi piacerebbe stare un po’ con questa povera signora che ha perso il bambino.

    Angela spalancò la bocca per sbadigliare e Laura sorrise all’infermiera.Il suo sbadiglio l’aveva contagiata. E non solo quello.

    Poi si spogliò. Si tolse con rabbia la

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