Punti e interrogativi (Audio-eBook)
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Punti e interrogativi (Audio-eBook) - Manuela Bonfanti
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Antonio Tombolini Editore
presenta
Punti e interrogativi
di
Manuela Bonfanti
Lettura di
Alessandra Bedino
e Moro Silo
Realizzazione il Narratore audiolibri, 2017
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Punti
Misure variabili
«Mi dia trenta metri di libri» aveva esordito, senza preamboli o superflui saluti, entrando nella piccola libreria.
Zia Luce l’aveva squadrato per tre interminabili secondi e non aveva avuto dubbi. Dal tono perentorio della voce e dal portamento fiero doveva trattarsi del famoso avvocato, quello di cui tutti parlavano. Si era trasferito dalla città e aveva onorato il nostro borgo con la sua presenza. Da noi i cittadini illustri erano rari come i lettori. Bisognava trattarli bene. Andava usato ogni riguardo.
Quando l’avvocato aveva acquistato l’antica Villa dei Ciliegi, la gente aveva iniziato a mormorare. Erano i soliti, banali pettegolezzi, l’interesse morboso per la vita altrui che pare sempre disperatamente più invidiabile della propria. I più curiosi si erano informati per benino. Avevano fatto le loro ricerche, ficcato il naso ovunque. Conclusione: era un Avvocato con la A maiuscola, uno di quelli che vincevano tutte le cause. Un principe del foro. Di certo un uomo colto, aveva studiato. Un solitario, mai sposato. Con un sacco di quattrini. In città era proprietario, ma aveva venduto tutto per comprare una villa in campagna ed era atterrato proprio qui, da noi, a Villa dei Ciliegi. Si diceva che volesse dimenticare una donna che non l’aveva voluto e leggere dei buoni libri mi pareva un metodo efficace per corteggiare l’oblio. Forse per questo era qui. Per dimenticare e per leggere. Era approdato nel luogo giusto, calma e monotonia assicurate. E una libreria, l’unica nel raggio di cinquanta chilometri: quella di zia Luce. Qualunque fossero i venti che l’avevano sospinto qui, era destinato a diventare una personalità di spicco da noi, abitanti di un borgo senza storia, con il commercio e il servizio nelle vene.
Zia Luce aveva fatto onore al suo mestiere. I libri ce li aveva nel sangue, gli affari pure. Noi eravamo gente con i piedi per terra. L’aveva salutato con rispetto, fingendo di aver udito il dovuto buongiorno. Poi la domanda, spontanea e un poco ingenua, che le era valsa uno sguardo di riprovazione.
«Come dice, prego?»
«Trenta metri, ho detto. È sorda? O l’equivalente in chili, fa lo stesso».
«Ma… non capisco…» aveva balbettato, confusa.
Io l’avevo soccorsa.
«Classici, immagino. Una selezione accurata. Il meglio».
«Brava, ragazza, hai capito tutto. Sentite, cerco una donna per le faccende e qualche lavoretto amministrativo. Niente di complicato, mi basta una qualsiasi».
Zia Luce non mi aveva lasciato il tempo di riflettere, né tantomeno di rispondere. Qualsiasi
si adattava a parecchie, dalle nostre parti. Ma lei, con un sorriso convincente, aveva puntato l’indice verso di me.
«La nostra Brunella sarebbe perfetta».
Ripensando a quell’istante, ho la certezza che il mio destino si compì in quel momento. E anche quello del nostro borghetto, che mai più sarebbe rimasto senza storia. L’Avvocato era arrivato e aveva cambiato tutto. Gli uomini hanno spesso questo effetto sulle donne.
Io non volevo lasciare la libreria, ma non potevo rifiutare quell’occasione. Un lavoro era un miracolo. Così andai a servizio da lui. Non avevo scelta e non biasimai la zia. Lei aveva fatto quel che credeva giusto e ci aveva azzeccato. A volte capita, perché la vita è nomade e segue vie traverse, accidentate e tortuose. Quella era una buona opportunità per me, che avevo avuto diritto solo a imparare un mestiere di servizio, e che a quello ero destinata. Dio scrive dritto sulle righe storte e io non mi sarei mai azzardata a farglielo notare.
Aiutare in libreria era il lavoro più bello che potessi immaginare, ma zia Luce non mi poteva pagare perché i lettori erano rari e lei arrotondava con tabacco, gomme da masticare e riviste decenti e dubbie. Pagavano le bollette e le permettevano di comprare il necessario.
«È il mio vero lavoro, Brunella» asseriva.
E da quelle parole rassegnate io capivo che la sua non era davvero una libreria e che la zia non era una colta libraia, ma solo una venditrice che con il passare degli anni aveva venduto anche buona parte dei suoi sogni.
L’arrivo inopinato dell’Avvocato, con la sua ordinazione di trenta metri, aveva cambiato la vita anche a zia Luce che, da allora, si considerò davvero una libraia: aveva incassato una cifra insperata. Io avevo protestato: non vedevo differenza, era uguale a prima. Ma lei mi ricordò le dure leggi del mercato. Per la prima e unica volta, zia Luce realizzò un sogno, scegliendo e tenendo tra le mani un numero di libri incredibile. Trenta metri, per la precisione. Più di ottocento chili. Quattrocentomila pagine da Dante a Chaucer, Dostoevskij o Tsao Hsueh-Chin, attraverso secoli e continenti. E poi tomi di storia e di filosofia. Qualche diario di viaggio, i maestri della psicologia, otto volumi di storia dell’arte. Una selezione impressionante che, una volta al suo servizio, l’Avvocato mi ordinò di sfogliare un paio di volte per darle un aspetto vissuto. Dopodiché mi toccò riporre tutti i volumi nella biblioteca in rovere, trenta metri nel suo ampio studio, dove riceveva clienti e teneva tediose serate mondane.
Trascorsero giorni. Poi settimane. Mesi e infine anni. Io non ricordo, quanto tempo fui a servizio da lui. Gli anni passarono così in fretta e, malgrado tutto, vi trovai delle soddisfazioni. Lamentarmi non mi sarebbe servito e la mia famiglia era felice, nel vedermi sempre serena malgrado si mormorasse che l’Avvocato altro non fosse che un burbero senza cuore.
Io non so, se ce l’aveva, un cuore. Forse i suoi sentimenti si misuravano in modo diverso da quello di noi gente comune. Come la cultura, del resto, ma che ne sapevo io? Ero solo una donna di servizio. Svolgevo il mio mestiere in silenzio. Spolveravo la biblioteca, lo assistevo durante i ricevimenti, servivo in tavola. Di me, solo questo era visibile e io sapevo accontentarmi dell’oscurità. La luce non era per quelle come me. Ero paziente e umile. Ciò nonostante, mi piaceva pensare che mi amasse e, ogni tanto, nei suoi eloquenti silenzi, credevo di ravvisare quel sentimento. Ma non ero donna per lui. Io ero una qualsiasi, così mi aveva definito. Non appartenevo al suo mondo. Lo accettavo senza adombrarmene, con certezze rare per la mia specie, quella di una giovane senza passato o futuro, che ha solo il presente su cui contare. E nel presente avevo sempre vissuto, senza preoccuparmi di quel che sarei stata, senza soffrire della mia condizione, che ancora conservo. È solo una questione di punti di vista. Non dovevo vergognarmi, se la mia ambizione era servire. Uno o tanti, poco importava, io lo accettavo senza lamentarmene. Piangevo, sì, ma in solitudine, dopo la partenza degli ospiti, quando lui mi aveva umiliata davanti a loro. Piangevo per me, ma non soltanto.
Con il tempo però, le lacrime si fecero rare. I rigagnoli che mi solcavano il viso si esaurirono con lo splendere del sole. Tutti quei libri erano raggi che squarciavano le tenebre dell’ignoranza e io li spolveravo ogni sacro giorno. Non mi concesse mai alcuna soddisfazione, davanti ai suoi ospiti, l’Avvocato. Mai mi lodò. Ma aveva smesso di umiliarmi. Non era più possibile farlo, io ero cambiata, non ero più la giovane inesperta e incolta dei primi mesi al suo servizio. La carovana del mio vivere giaceva in quel luogo, illuminato dalla luce del sapere. Faceva caldo, io ero assetata e mi dissetai. Era un’oasi insperata. Il mio pensiero nomade era tornato a quel giorno di tanti anni fa, alla libreria della zia. «Brava» mi aveva detto allora l’Avvocato. Uno sprazzo di luce. Una frase diritta in una bocca storta. Il suo primo e unico complimento. Non me lo ripeté mai più, lo sostituì con una specie di rispetto di cui non riuscii mai ad andare fiera perché lo conoscevo troppo bene. Assistevo alle sue serate mondane. Lo sentivo conversare con gente che gli assomigliava al di là del doppiopetto scuro. Osservavo. Ascoltavo. Io che spolveravo regolarmente le sue credenze, sapevo che l’Avvocato non possedeva chili di rispetto. E quei pochi grammi che aveva li stava dando a me. Finché fui abbastanza giovane, lo interpretai come un amore che non potevo ricambiare, invece era solo logica di fatti inconfutabili.
Così, un giorno accadde. Era il mio destino.
Il vecchio burbero mi licenziò.
Lo fece per amore o per rabbia? Per scontento o per ripicca? Davvero non lo so, ma quell’evento cambiò nuovamente la mia vita. Dovevo trovare qualcun altro da servire. Un altro lavoro che non c’era. Le referenze erano pessime: non sa stare al suo posto, scrisse lui con una calligrafia così diritta che, per poco, non ci credetti anch’io. Non spolveravo a sufficienza. Perdevo tempo in attività che esulavano dalle mie competenze. Ecco quanto affermava la sua lettera di raccomandazione. Era così perfetta, quella lettera! Non c’era neanche un errore. Nessuno avrebbe messo in dubbio la bontà dei suoi propositi e io, ormai, il lavoro me lo dovevo inventare. Avrei voluto un libro, che mi dicesse come fare. Ma non esisteva, ne ero certa. Non l’aveva scritto nessuno. Non era un classico. E nemmeno un moderno. A quale genere apparteneva? A ogni modo, la biblioteca dell’Avvocato non lo conteneva. E io ero nei guai. Quel libro me lo dovevo scrivere da sola.
Furono anni difficili. Tirai la cinghia. Non rimpiangevo di essere dovuta partire, mi sentivo nomade, sempre in movimento. Mi piaceva l’idea di servire nuovi padroni ma, guardandomi indietro, vedevo che il tempo con l’Avvocato era stato una parentesi importante. Al suo servizio avevo guadagnato valori inestimabili.
Per qualche tempo, prima che, costretta dalle circostanze, io me ne andassi, zia Luce mi riprese in libreria. I libri li sceglievamo con immutata passione, così che niente era davvero cambiato: a comprarli non ci passava