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Ti vedo
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E-book416 pagine6 ore

Ti vedo

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Info su questo ebook

È la vigilia del Grande Raduno Annuale. Per Clara, studentessa di economia a Torino, coincide con l'ingresso da adulta in società. Perché è così importante questo evento per la sua "gente"? Clara non riesce a capirlo. Preferirebbe di gran lunga stare con le sue amiche, con i "comuni" come li chiamano sua madre e tutti i suoi confratelli. Quanto le piacerebbe avere una vita normale...
Anche Flaminio è a suo modo speciale. Lui, artista di strada, vive in una casa famiglia da quando suo padre è morto. Passa le giornate a ritrarre i turisti con il suo stile molto personale: riesce infatti a vedere davvero come sono le persone ma questo "dono" non sempre gli è stato d'aiuto.
L'incontro quasi per caso tra Flaminio e Clara cambierà per sempre le loro vite e quelle delle persone che stanno loro accanto.
Un urban fantasy dove si mescolano tradizioni, amori, amicizia, lealtà, fiducia, intrighi e passione.
LinguaItaliano
Data di uscita7 mar 2015
ISBN9786050363456
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    Anteprima del libro

    Ti vedo - Osvaldo Vernero

    Agata

    Capitolo primo

    Clara sedeva sul letto dei genitori, un letto davvero enorme. Le mani in grembo, le gambe ciondolanti, appollaiata là sopra, si sentiva una stupida mocciosa! Detestava sentirsi così. Quella camera, con i suoi mobili austeri, i quadri antichi, i sontuosi tendaggi, la riportava indietro nel tempo; lì nulla era cambiato di una virgola in più di vent’anni. Era un luogo molto diverso dal resto della casa. Alieno. Persino l’odore lì era particolare, unico. Dipendeva forse da qualche prodotto usato per trattare i mobili? Era a causa dei numerosi volumi ingialliti dal tempo che riempivano la striminzita libreria con le loro lussuose rilegature in pelle? Oppure erano quelle orribili ciotole di legno colme di petali, semi e bucce rinsecchite? Quale fosse il motivo non le piaceva trovarsi lì. Si sentiva a disagio, fuori posto, da sempre. Si asciugò le mani sudate sui jeans. Cresci, sei adulta adesso! si disse, ma non funzionò. Per quale diavolo di motivo doveva sentirsi così? Al diavolo il suo stupido senso di inadeguatezza. O c’era dell’altro? Forse il motivo era che tra quelle quattro mura i suoi genitori smettevano di essere la sua mamma e il suo papà e diventavano, anzi tornavano a essere, una coppia? Un uomo e una donna innamorati e complici? Da bambina, quando le capitava di passare davanti alla porta della loro camera da letto, si appostava nel corridoio buio e, non vista, li spiava. Il padre leggeva, gli occhiali appoggiati sul naso. La madre spesso già appisolata o, più raramente, intenta a leggere, di solito una rivista medica o qualcos’altro di altrettanto noioso legato alla sua professione. A volte ascoltavano qualche brano di musica classica, gli occhi chiusi, mano nella mano. Era frustrante per Clara scoprirsi ancora tanto vulnerabile.

    − Ne hai ancora per molto? − domandò, irritata. La madre si era chiusa nella cabina armadio da dieci minuti buoni e Clara cominciava a spazientirsi. − Se vuoi torno più tardi, non dobbiamo per forza provarlo oggi questo benedetto vestito − aggiunse.

    La settimana successiva si sarebbe tenuto il GRA, il Grande Raduno Annuale, un'occasione molto importante per la sua gente; una tradizione e un dovere, come amava ripetere sua madre. Per quanto la riguardava Clara trovava che fosse solo una gran scocciatura e cercava in tutti i modi, va detto senza il benché minimo successo, di evitare l’incombenza. In aggiunta al fastidio di doverci andare quell'anno le sarebbe toccato indossare un vestito da sera. Non aveva mai messo in vita sua un abito di quel tipo e, a dirla tutta, non aveva ancora deciso come dovesse sentirsi in proposito: euforica, e in questo caso comunque non l'avrebbe ammesso neppure sotto tortura, o solo terribilmente scocciata.

    − Non posso venire in jeans come gli altri anni? − chiese per la centesima volta. − Perché devo indossare proprio un vestito? Onestamente, non ne capisco il senso!

    − Non essere assurda − rispose la madre. La sua voce giunse distante e ovattata come se emergesse da qualche antro sotterraneo. − Hai compiuto ventun anni, è il tuo ingresso in società come donna adulta.

    − Fantastico! − ribatté lei, mettendo nel tono tutto il sarcasmo di cui era capace − Ci mancava solo un cavolo di ballo delle debuttanti.

    − Clara. Non essere così grossolana − la rimproverò sua madre, spuntando improvvisamente da dietro lo stipite.

    Grossolana! si, come no. Avrebbe voluto dire ben altro.

    − E non essere ridicola − proseguì la donna. − Non c'è nessun ballo, nessuna cerimonia di quel genere. Possibile che tu debba sempre svilire la nostra Eredità di Sangue? È una tradizione, e dovresti avere maggiore rispetto per il nostro mondo. Non ti chiedo mai nulla, sei libera di fare quello che vuoi, ma ci sono occasioni in cui...

    Clara smise di ascoltare, tanto era sempre la stessa solfa: Eredità di Sangue, figurarsi! Quando sua madre tirava in ballo il sangue non c'era verso di farla ragionare. Confratelli, Fratelli nel Sangue o Eredità di Sangue, Clara pensava che fossero soltanto parole vuote, un pomposo paravento dietro il quale giustificare il loro assurdo clan di megalomani: un conglomerato di snob, boriosi e arroganti. Degli scherzi di natura! ecco quello che erano, ma certo la sua ribellione al sistema non si sarebbe mai spinta tanto da esternare ad alta voce questo concetto eretico; pena l'essere mandata al rogo come strega e miscredente. Si limitava perciò a punzecchiare sua madre di quando in quando e non perdeva l’occasione appena ne intravvedeva la possibilità. Era un sistema che funzionava, e lei ci si trovava bene: perché cambiarlo? Per ventun anni aveva vissuto mantenendosi costantemente sul bordo dello stagno, per così dire. Non troppo lontana da destare scalpore e indignazione nel gruppo degli Anziani, e in primis in sua madre, ma neppure così vicino da doversi bagnare i piedi, e c'era riuscita anche abbastanza bene finora, secondo il suo modesto parere. Certo, evitare con cura qualsiasi evento mondano non strettamente obbligatorio, defilarsi quando le capitava di incontrare per strada o alle feste, per puro caso s'intende, i Fratelli nel Sangue, inventare impegni improrogabili quando gli incontri rischiavano di diventare inevitabili, non era semplice da organizzare e richiedeva una costanza e un impegno notevoli, per non parlare della componente creativa, ma Clara vi si applicava con assoluta dedizione e metodo. Per non dilungarci oltre diremo quindi che, per quanto ci avesse provato e riprovato, sul fronte vestito non l'aveva spuntata, niente da fare, ma si era rifiutata categoricamente di spenderci anche un solo centesimo, visto che in fondo l'avrebbe dovuto usare una volta sola. La madre, a sorpresa, aveva accolto prontamente la sua richiesta, rassicurandola anzi e dicendole che ci avrebbe pensato lei e a quel punto a Clara non era rimasto che capitolare. La giornata, quindi, era passata senza ulteriori discussioni, nulla degno di nota, fino a sera quando era stata convocata nella stanza dei suoi genitori per la temuta prova vestito.

    − Mi si stanno addormentando le gambe, vado a fare due passi − dichiarò Clara, ma non aveva ancora finito di parlare che già la madre usciva dalla cabina armadio con un'espressione trionfante sul viso.

    − Eccolo qui! − disse, raggiante, tenendo tra le braccia un lungo involucro di plastica trasparente.

    Da dove saltava fuori quel vestito? pensò Clara. Non era certamente della taglia di sua madre e non poteva essere capitato lì per caso. − E quello cosa sarebbe? − chiese in tono d'accusa. − L'hai preso apposta! Da quant'è che te lo tieni nell'armadio? Dì la verità.

    Doveva averci indovinato perché la madre arrossì tutta in viso, anche se poi finse di non aver sentito.

    − Vedrai che bello, è perfetto per te. Praticamente è già della tua taglia.

    − Ma tu guarda che fortunata combinazione − mormorò la giovane tra i denti, ma non riuscì a trovare nient'altro di caustico da dire. Avrebbe si voluto sostenere la parte della figlia indignata, ma l'abito era veramente bellissimo: un lungo vestito da sera, sciancrato, di seta blu notte, il suo colore preferito. Senza maniche e con un laccio da far passare attorno al collo, aveva una linea molto semplice ed elegante. Appena lo ebbe indossato, poi, ogni riluttanza fu vinta. L'abito le piaceva tantissimo, anche se l'emozione fu un po' guastata dalla madre che, gli occhi lucidi e la bocca spalancata, la guardava come in preda a una visione mistica.

    − Stai sbavando − la rimbeccò allora Clara. D'accordo, si piaceva un sacco, era un vestito bellissimo e le stava bene davvero, ma non le avrebbe mai dato questa soddisfazione ammettendolo.

    − Sei bellissima − disse la donna con voce sognante.

    − Non ho le scarpe adatte − ribatté Clara. − E non so cosa metterci sopra. Fa freddo di sera. Non va bene, mi spiace. La madre allora, senza scomporsi, si chinò e prese una scatola da sotto il letto, poi si sedette, appoggiò il contenitore sulle gambe e l'aprì estraendone un paio di Louboutin di una tonalità identica a quella del vestito.

    − Ma non mi dire − sbuffò la ragazza − anche queste erano lì per caso? − ma non riuscì a metterci abbastanza sarcasmo da sembrare credibile, inoltre appena le vide le si illuminarono gli occhi come un albero di Natale.

    − Per coprirti le spalle ho uno scialle che sembra fatto apposta per questo vestito. Vedrai, sarà perfetto.

    Una volta indossati scarpe e scialle, ed essersi esaminata nello specchio, dovette ammettere, a malincuore, che la madre aveva avuto davvero buon gusto.

    − Ti piace? − le chiese la donna.

    − Mhmm?

    − Ho chiesto se ti piace... il vestito! − ripeté spazientita la madre gesticolando con la mano.

    − Si − ammise infine. − Può andare.

    − Bene − disse l'altra annuendo − sono contenta. Potresti chiedere a Lucio di accompagnarti. Penso che sarebbe contento se lo chiamassi.

    A momenti gli occhi le schizzavano fuori dalle orbite.

    − Mamma, ancora con questo Lucio, che noia! − esclamò Clara, mentre girava per la stanza incapace di fermarsi.

    La madre, ignorandola, continuò − Perché? È un ragazzo piuttosto bello e a modo anche. Non ti piace? − chiese quindi con noncuranza mentre spianava pieghe inesistenti dalla federa del cuscino.

    Clara, alzò gli occhi al cielo. − Si − disse dopo un attimo di pausa − è carino, ma non è il mio tipo, mamma − fece una pausa e poi aggiunse − senza contare che non sa neppure che esisto.

    La donna sembrò davvero sorpresa. − Quando lo vedo mi chiede sempre di te − dichiarò.

    − Ma chi? Lucio Spinelli? − Clara era immobile, in mezzo alla stanza e fissava la madre incredula. − Ma se quando lo incrocio in facoltà mi saluta a malapena, ma per favore!

    − Vuoi che provi a parlare con Elena?

    − Cosa? − Clara era ripartita; camminava in cerchio per la stanza a testa bassa. Tentava convulsamente di sfilarsi il vestito e contemporaneamente scalciava per togliersi le scarpe − Sei matta? Vuoi chiedere alla madre se suo figlio vuole uscire con me? − disse scandendo le parole come se stesse cercando di spiegare il principio di Archimede a un pesce rosso. − Che cavolo Mamma! Questo raduno ti sta dando alla testa.

    Riuscì finalmente a lanciare via le scarpe e a sfilarsi il vestito che andò ad afflosciarsi lentamente per terra, e si rivestì il più velocemente possibile.

    − Ma l'hai detto tu che è carino − insistette la madre. − E poi tu gli piaci.

    Clara si immobilizzò, di nuovo. − Se non la smetti subito − le disse guardandola dritto negli occhi e puntando il dito indice verso la finestra − mi butto di sotto. Te lo Giuro!

    − D'accordo, d'accordo − rispose la madre con fare accomodante − lo dicevo per te. La stai prendendo nel verso sbagliato. Solo che è parecchio che non esci con un ragazzo. Non è normale, sono solo in pensiero.

    − Si mamma grazie tante, ma posso fare a meno dell'agenzia matrimoniale Rizzo, in questo caso.

    − Io penso solo al tuo bene − le fece notare la madre, risentita.

    − Va bene mamma, grazie − le fece eco Clara con pesante sarcasmo. − Ci sono giusto due o tre ragazzi all'università che mi sbavano dietro. Penso che finirò per accettare qualche invito, se questo ti fa sentire meglio.

    Osservò attentamente la reazione provocata dalle sue parole, e fu una cosa molto gratificante. Anche se la madre riuscì rapidamente a controllarsi, il panico e l'agitazione che lesse sul suo viso furono sufficienti a sollevarle il morale. Che vipera che sono, pensò ridacchiando sotto i baffi. Poi subentrò il maledetto senso di colpa e così decise di porre subito fine alla farsa.

    − Scherzo − disse accarezzandole per un istante una spalla − non ti fare venire un infarto. Non ho intenzione di frequentare nessuno, tranquilla.

    − Non capisco cosa tu voglia dire, frequenta pure chi vuoi. Non ho intenzione di immischiarmi nella tua vita privata − replicò l'altra sulla difensiva, ma il colore porpora che aveva assunto il suo viso era un indicatore sufficiente a smentire il suo atteggiamento disinvolto.

    − Tu e papà siete così snob! − la rimbeccò scherzosamente Clara. − Ti ricordi la reazione di papà quando vi ho detto che uscivo con Enrico? A momenti gli veniva un ictus.

    − Non scherzare su queste cose! − ribatté stizzita la madre.

    Forse la battuta sull'ictus era stata fuori luogo, alla madre non piaceva che si scherzasse sulle malattie, per quanto le probabilità che suo padre potesse ammalarsi erano tante quante ne aveva lei di poter condurre una vita normale. Non capiva perché si dovesse scaldare tanto. Per essere una fanatica sostenitrice del metodo scientifico a volte era davvero un po' troppo fatalista. Certo amava molto suo marito ed era del tutto comprensibile il suo timore che potesse accadergli qualcosa. Pensare ai suoi genitori e all'amore che provavano l'uno per l'altra le fece sentire una fitta alla bocca dello stomaco. Ne era invidiosa, terribilmente invidiosa. Avrebbe mai vissuto anche lei un amore così? Sarebbe mai stata guardata nel modo in cui suo padre guardava sua madre? Li invidiava e, a volte, li detestava per questo, e al contempo, come sempre accadeva quando prendeva coscienza di questi sentimenti meschini, si sentiva gretta, egoista e stupida: una persona orribile. La frustrazione e il senso di colpa la fecero sentire così male che fu sul punto di scoppiare in lacrime. Riuscì però a reagire prontamente. Era del tutto normale che si sentisse demoralizzata, si disse. Non si era mai davvero innamorata di nessuno e la prospettiva di vivere una vita senza amore avrebbe messo a dura prova chiunque. Ma doveva fare qualcosa, era davvero ora di mettersi in gioco. Doveva trovarsi un uomo e darsi, dargli, una possibilità.

    Abbracciò la madre senza dire una parola e la baciò sulla guancia. La donna però stranamente non parve reagire a quella dimostrazione d’affetto.

    − Tutto bene? − le chiese allora preoccupata.

    La madre parve riemergere da un sogno a occhi aperti. − Si, si. Tutto bene − disse, ricomponendosi.

    − Cosa succede? Ci sono dei problemi? − adesso c'era una nota di panico nella sua voce.

    − Ma no, no. Non essere assurda − la rimproverò l'altra, tornata alle sue solite maniere spicce. − Che ti salta in mente?

    − Hai fatto una faccia quando ho scherzato sull'ictus.

    − Non è quello, lascia stare. Tuo padre sta bene, come potrebbe essere altrimenti?

    − A volte capita − ribatté lei risentita.

    − No, tranquilla. Stiamo tutti bene.

    Clara aveva ripreso il vestito e, appoggiandoselo addosso, senza infilarlo, ne osservava la linea allo specchio.

    − I nonni ci saranno? − chiese quindi distrattamente.

    − No, non se la sentono di affrontare il viaggio, e ho sconsigliato loro di venire. Sono troppo vecchi, ormai.

    − E perché loro possono starsene a casa e io sono costretta a venire? È un'ingiustizia! − si lamentò la ragazza, mettendo il broncio come una bambina.

    − Clara, lo sai che il nonno non cammina più bene. A dire la verità li ho convinti io a non venire. Volevano essere presenti a tutti i costi, per te, capisci? Per la tua prima volta da adulta...

    − Ancora sta storia delle debuttanti! − sbottò Clara interrompendola e gettando il vestito sul letto.

    − Ma li ho convinti che era meglio non rischiare − continuò la madre ignorandola. − Ho dovuto promettere che saremmo andati a trovarli presto e che avrei raccontato loro tutto nei minimi particolari − rimase un momento immobile, come se le fosse venuto in mente qualcosa, poi proseguì − La nonna mi ha mandato una cosa per te − e così dicendo si sporse verso il comodino, aprì il primo cassetto e ne estrasse una scatola sottile che porse alla figlia.

    − Cos'è − chiese questa sospettosa.

    − Beh, prendila, aprila. Non morde mica, sai? − la sfotté sua madre.

    La scatola sembrava proprio un astuccio per gioielli. L'esterno, di colore marrone scuro, era scolorito dal tempo e liso. Non si trattava quindi di qualcosa di nuovo. Magari era soltanto una penna stilografica. Clara prese la custodia con entrambe le mani e improvvisamente ebbe il terrore di farla cadere e che il contenuto, qualsiasi cosa fosse, ma con tutta probabilità qualcosa di delicato e antico, si disintegrasse per l’urto in mille pezzi. Improvvisamente si sentì goffa e inadeguata. Si sedette sul letto appoggiando l'astuccio sulle ginocchia, poi guardò la madre per cercare di capire dalla sua espressione che cosa dovesse aspettarsi, ma tutto quello che ottenne fu un cenno con la testa. Grazie tante per l’aiuto! Prese un bel respiro, sbloccò il fermo dorato che teneva chiusa la scatola e l'aprì. L'interno era foderato di velluto e sagomato per accogliere uno splendido girocollo d'argento. La lavorazione a filigrana era molto elaborata, i dettagli finissimi. Il pendente aveva la forma di una luna piena e attorno alla piccola sfera erano disposte pietre preziose e perle che sembravano stelle luccicanti sospese nel vuoto. Clara rimase immobile ad ammirare quel magnifico gioiello con gli occhi pieni di stupore. Poi guardò la madre incerta su cosa dire.

    − È per te − disse la donna prima che lei riuscisse a formulare una qualsiasi domanda. − È un gioiello − proseguì − che la nostra famiglia si tramanda da generazioni e adesso è tuo.

    Per la prima volta Clara si rese davvero conto della solennità e dell'importanza che quella serata aveva per la sua gente e quanto significasse quel momento per la sua famiglia.

    − Perché non mi hai detto che era così importante per voi questa cosa? − le chiese.

    − Ci ho provato, ma avevo paura che ti saresti sentita in gabbia, che avresti reagito male − le rispose la madre. Poi, allarmata dall'espressione comparsa sul suo volto, proseguì − Davvero Clara, non è niente di speciale, non fare così. I confratelli ti vedono, brindano alla tua maggiore età ed è tutto finito. Non devi prenderla nel verso sbagliato. E poi non si tratta di noi − continuò − è una cosa che riguarda anche te.

    Clara finse di non aver sentito quest'ultima precisazione − È davvero necessario mamma? Mi sembra tutto così assurdo, così... − cercò una parola che non urtasse troppo la sensibilità della donna − medioevale.

    D’accordo, dal modo in cui sua madre strinse le labbra in una linea sottile, prima di risponderle, era evidente che medioevale non era stata una scelta azzeccata.

    − Vuoi davvero che parliamo dei motivi socio-culturali che hanno portato all'istituzione di queste cerimonie? Ne abbiamo discusso mille volte e tu sai benissimo quanto siano importanti per tutti noi. Non si tratta di fanatismo, né di una stupida messa in scena.

    − Si, si. Lo so. − rispose meccanicamente Clara, e poi, con il tono monotono di una lezione noiosa imparata a memoria enunciò − Ci dobbiamo difendere dai comuni. Se sapessero della nostra esistenza verremmo perseguitati, forse sterminati. Dobbiamo mantenere la coesione e l'ordine. Dobbiamo mantenere l'anonimato e consolidare il nostro potere.

    − Mi fa piacere che ricordi i fondamenti − disse con tono asciutto la donna quando lei ebbe terminato. − Ma non sembra che tu li prenda troppo sul serio.

    − Ma certo che li prendo sul serio, come potrei evitarlo! Dico solo che torce e forconi sono difficili da reperire in quest'epoca.

    Il tentativo di sdrammatizzare però non ebbe il risultato sperato.

    − Non sono i forconi che mi preoccupano − ribatté seria la madre. − Non sono in ansia perché un gruppo di zotici ignoranti possano insorgere contro di noi. Ci sono poteri molto più pericolosi con cui fare i conti. Cose che tu nemmeno immagini.

    Clara fissò il soffitto esasperata. − Va bene, va bene, non volevo scatenare l'ennesimo sermone su quanto cattivo sia il mondo, eccetera, eccetera. Penso solo che dovresti rilassarti un po', ogni tanto. Così, per provare che effetto fa.

    − Mi rilasserei maggiormente se sapessi che tu prendi seriamente questi avvertimenti − continuò imperterrita l'altra.

    − E sentiamo, per quale ragione tu pensi che io non li prenda seriamente?

    − Tanto per cominciare tutte quelle amicizie tra i comuni. Sai che non dovresti legarti così alle persone che non appartengono alla nostra razza, te l'ho detto mille volte.

    Si stava innervosendo, e questa non era mai una buona cosa. Come madre sapeva che il modo migliore per comunicare con sua figlia era utilizzare la logica. Un attacco frontale l'avrebbe solo fatta chiudere a riccio. Fece quindi un bel respiro, profondo, visualizzò il suo posto felice e riprese − Amore, io non dico che tu debba vivere isolata. Ti abbiamo sempre incoraggiata, tuo padre e io, a conoscere il mondo esterno, a integrarti nella società umana. Noi però siamo diversi e prima o poi le persone, i comuni, se ne accorgono, lo puoi capire da te. Per quanto tu possa essere determinata a tenere sotto controllo la tua Vera Natura, può accadere di tutto: un incidente, uno scatto di rabbia, un... anche se stai attenta prima o poi attirerai l'attenzione sul nostro gruppo, è solo questione di tempo. E se qualche tua amica dovesse accorgersi di quello che sai fare? Se ti tagliassi, ad esempio? Come spiegheresti a un comune la rapidità con la quale la nostra pelle si rigenera e le ferite guariscono?

    − Sto molto attenta − ribatté Clara in tono secco.

    − Lo so che stai attenta, non l'ho forse appena detto? Non hai ascoltato le mie parole? So che sei una ragazza eccezionale, intelligente e giudiziosa, ma tu riponi troppa fiducia nelle tue capacità, e le disgrazie, gli incidenti, capitano.

    − È inutile fasciarsi la testa anzitempo − dichiarò, testarda, la ragazza.

    − Grrr − ringhiò la donna esasperata. Era un ringhio nient'affatto umano e Clara ebbe un sussulto. Non era cosa che capitasse spesso a sua madre, sempre controllata e padrona di sé.

    − Tu non mi stai neppure ascoltando! − l'accusò la donna, recuperando solo parzialmente la calma.

    − Io non rinuncerò alle mie amiche, alla mia vita! − esplose allora lei, la voce qualche ottava più alta del necessario.

    − Ma perché le devi scegliere al di fuori del nostro gruppo? È questo che non capisco! − ribatté l'altra esasperata. La tensione era palpabile ed entrambe ansimavano per lo sforzo di mantenere il controllo; la donna ancora seduta sul letto, Clara in piedi, curva su di lei, le mani strette a pugno, le spalle e le braccia contratte. Rimasero in silenzio per qualche minuto, gli occhi negli occhi, poi la ragazza si raddrizzò di scatto e disse − Perché vorrei essere come loro, mamma. Vorrei avere una vita normale, pensare alla scuola, al lavoro, ai ragazzi. Perché le invidio, ecco perché. Sono stanca del nostro mondo, delle nostre regole. Sono stanca di essere quello che sono. Lo capisci mamma? Stanca. Sono stanca di essere un mostro!

    Gli occhi le si riempirono improvvisamente di lacrime e la madre, in un gesto di tenerezza, alzò una mano per accarezzarle il viso. Non voleva la sua pietà! Non riusciva a odiarla quando faceva così, e lei aveva bisogno di qualcuno da odiare. Qualcuno che potesse incolpare per quello che era. Si girò di scatto e uscì di corsa da quella stanza maledetta.

    Capitolo secondo

    La casa di Mariella, che poi era anche casa sua, sembrava un fortino; uno di quei fortini di legno, sperduti in mezzo al niente, che si vedono nei vecchi film western. Si trattava in realtà di un antico cascinale, piuttosto fatiscente e malamente riadattato, sul confine del mondo. La città vera e propria finiva qualche isolato prima e lì attorno non c'era altro segno di vita se non uno stradone a tre corsie dove la sera battevano prostitute e travestiti e una distesa di campi paludosi. E comunque lui preferiva così. Immergersi ogni giorno nel ribollente oceano della vita, venire trascinato dalla tempesta dei sentimenti e delle passioni umane senza un porto sicuro a cui approdare è sfiancante per chiunque. Una prova estenuante quindi, giorno dopo giorno, per uno come lui, incapace di rifugiarsi nella rassicurante farsa dei costumi sociali e di ignorare il brutale egoismo della natura umana. Così quando Mariella gli aveva proposto, alcuni anni prima, di vivere con lei aveva accettato subito; una donna tanto sincera e buona come raramente gli era capitato di incontrare. La prima notte l'aveva passata guardando le luci lontane dei bidoni in fiamme che scaldavano la notte. Aveva prestato attenzione al rumore alto e lontano delle macchine che sfrecciavano veloci; quello vischioso e fremente dei lenti passaggi a valutare la merce e il ronfare eccitato delle automobili in sosta in una concitata contrattazione per ottenere la tariffa migliore. Aveva ascoltato l'eco delle portiere che si chiudevano e le grida delle ragazze che inveivano contro i clienti disonesti, violenti o brutali. Era stata una bellissima serata e da allora ce ne erano state tante altre, anche migliori. Aveva una casa e una specie di famiglia, e anche se non era mai riuscito a considerarla come una vera madre, Mariella era stata quello che di più vicino a una mamma avesse mai avuto. L'amava e l'ammirava, ed era molto più di quanto avesse mai sperato di poter ottenere.

    Dal capolinea dell'autobus a casa ci volevano dieci minuti buoni e l'ultimo pezzo di sterrato, quando pioveva, si trasformava in una specie di acquitrino insidioso. L'umidità filtrava e ristagnava intorno al fortino; anche in un periodo di siccità come quello sacche di liquido melmoso resistevano tenaci e di notte si potevano sentire le rane gracidare soddisfatte.

    I passi di Flaminio sollevarono nuvolette di terra rossastra, le scarpe impolverate. Spinse la mezza porta del cancello di legno ed entrò nel cortile interno. Batté le punte delle scarpe contro il primo scalino per togliere il grosso, ed entrò in casa. Mariella era ai fornelli, intenta a preparare la cena. L'odore di aglio e di vapore lo avvolsero come una carezza: era a casa.

    − Ciao Ma − era il loro saluto, un gioco. Quasi un ciao Mamma.

    − Ciao tesoro − rispose lei senza staccare gli occhi da quello che stava facendo.

    Flaminio sfilò la cartellina dalle spalle e l'appoggiò, insieme al cavalletto e alla seggiola pieghevole, accanto al frigo. Si avvicinò alla quasi-mamma le depose le mani sulle spalle e le baciò una guancia. La sua pelle era così soffice, delicata come una nuvola. Pensò a quanto fosse invecchiata, a quanto lei ora apparisse fragile. Una marea di emozioni lo fecero vacillare per qualche secondo. Si concentrò quindi sull'immagine che vedeva attraverso la sua seconda vista, un'enorme chioccia bianca che si sovrapponeva a quella tarchiata della donna; appariva più che stanca, sfinita e consumata dalle preoccupazioni. Valutare Mariella attraverso questo suo strano senso lo metteva sempre a disagio, si sentiva in qualche modo di violare la sua essenza più intima, ma sentiva anche che c'era qualcosa che non andava e doveva sapere di cosa si trattasse.

    − Sei riuscita a dormire un po' questa notte? − le chiese, prendendo un bicchiere dallo scolapiatti per poi riempirlo sotto l'acqua corrente. Si sedette al tavolo della cucina e attese che la donna rispondesse.

    − Un poco − disse lei sbrigativa, senza voltarsi, che voleva dire: non ho dormito per nulla.

    − Sei preoccupata per Mela − un'affermazione, secca, quasi un rimprovero. Per un istante la donna rimase immobile, curva sul tinello. Poi, come un pupazzo a molla improvvisamente libero di muoversi riprese ad affaccendarsi tra le padelle.

    − Ha portato via tutte le sue cose. Speravo andasse diversamente − mormorò.

    − Lo sai che non torna più, vero?

    − Non è detto − ribatté lei. Non poteva accettare di aver fallito con nessuno dei suoi ragazzi, e Mela era sempre stata così fragile. − Non dire così − continuò − vedrai che ci ripensa. Se avessi immaginato... − un groppo alla gola le impedì di continuare.

    Era difficile guardare quella cara chioccia oppressa dai sensi di colpa, soprattutto quando, e lui lo sapeva bene, non c'era nulla che lei avrebbe potuto fare per cambiare le cose.

    − Hai fatto la cosa giusta − le disse per confortarla. − Devi pensare anche agli altri, non puoi lasciarti andare così. Non avevi altra scelta.

    − Lo so. Lo so. − rispose lei in un sussurro, annuendo col capo e seguendo al contempo il corso dei suoi pensieri. − Sulla droga non posso lasciare correre.

    − Mela è persa − disse allora lui in tono conclusivo. La faccenda per quanto lo riguardava era molto chiara: segui le regole della casa o vattene.

    − Ti ho detto di non dire così − ribatté Mariella disperata. − Vedrai che ci ripensa. Non è persa.

    Flaminio sapeva che era il cuore a parlare, un cuore enorme che a volte la rendeva tanto irrazionale da sembrare stupida. Era grazie a quel cuore generoso che lui era lì; grazie alla sua capacità di amare se lui aveva una famiglia e un tetto che poteva chiamare casa, e in quel momento sentiva un amore sconfinato per quella piccola donna tozza. Avrebbe voluto poter mentire. Avrebbe voluto dirle che Mela sarebbe tornata, di sperare ancora, ma una vita di dolore gli aveva insegnato quanto a volte fosse crudele lasciare che le persone coltivassero un sogno impossibile. Quasi sempre la cosa migliore era costringere gli altri ad affrontare la verità, ma, come in quel caso, bisognava essere delicati, arrivarci a piccoli passi.

    − Ti ricordi di Francesco?

    − Francesco era diverso. Niente a che vedere con Mela − ribatté lei secca.

    − Hai ragione − rispose lui un po' piccato. − Francesco era meglio!

    Lei si girò di scatto, gli occhi neri che scintillavano. Colpita e affondata, alla faccia dei piccoli passi. La grande chioccia bianca, spettatrice muta, gli lanciò uno sguardo d'accusa pieno di disapprovazione. Mariella aprì la bocca per ribattere, ma si fermò senza dare voce ai suoi pensieri. Flaminio e Francesco erano molto legati, nessuno lo sapeva meglio di lei. Avevano passato dei momenti bellissimi loro tre, insieme. La maggior parte dei ragazzi arrivano e se ne vanno. Sono riconoscenti, si affezionano anche, a volte, ma non lasciano entrare nessuno nella loro fortezza privata. Sono stati feriti troppo duramente dalla vita e non possono rischiare di legarsi a un altro posto con il rischio di perderlo ancora. Sono i ragazzi di passaggio, e non conta che rimangano anni o solo qualche settimana. Con Flaminio e Francesco era stato diverso. Loro tre avevano creato un legame d'amore, di fiducia. Un legame che credevano sarebbe durato per sempre e che la droga invece aveva spazzato via in pochi orribili mesi. Entrambi ricordavano bene le settimane di angoscia, i primi furti, le sfuriate e poi, inevitabilmente, l'abbandono e la fuga. Francesco un giorno era uscito di casa con la sua sacca e non era più tornato. Tempo dopo avevano saputo che, per un periodo, aveva vissuto con la sua ragazza, anche lei tossica, in un alloggio occupato abusivamente; che era stato dentro per aggressione quando aveva cercato di accoltellarla, avevano litigato per una dose, e che poi si era trasferito all'estero, in Francia. Le ultime notizie, ricevute non da lui ma da amici comuni, dicevano che ora viveva in una comunità vicino a Trieste.

    Flaminio ricordava molto bene le settimane che erano seguite a quell'abbandono. Mariella era sprofondata in uno stato di prostrazione terribile, e lui, impotente, non aveva potuto fare nulla, se non stare a guardare. Ogni volta che pensava a Francesco non poteva fare a meno di ritornare a quel momento terribile, al dolore e alla frustrazione. Avrebbe voluto poter perdonare quello che un tempo aveva considerato come un fratello, in fondo il passato è passato, ma provava ancora troppa rabbia nei suoi confronti. Sollevò lo sguardo e si accorse che la grande chioccia bianca lo stava guardando con dolcezza.

    − Ti manca vero − chiese Mariella equivocando la sua espressione.

    − Per niente − rispose lui secco.

    − Anche a me − continuò lei ignorando le sue parole. − Ci penso sempre. Spero che Mela sia più fortunata.

    − Non si tratta di fortuna − affermò lui con lo sguardo fisso nel vuoto.

    − D’accordo − sbuffò Mariella riprendendo a cucinare − ma com'è che siamo finiti a parlare di Francesco? Ogni volta che succede qualcosa finiamo per parlare di lui. Dovremmo semplicemente accettare che alcune cose accadono, e passare oltre.

    Il modo in cui pronunciò le ultime parole suonarono quasi come un rimprovero.

    − Pensi che non sappia buttarmi il passato dietro le spalle? − chiese allora lui con un tono tra il

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