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Sotto la cenere
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E-book108 pagine1 ora

Sotto la cenere

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Info su questo ebook

Rossana, agente immobiliare, viene uccisa da un colpo di pistola alla testa, mentre suo figlio Ludovico resta gravemente ferito da un secondo colpo di arma da fuoco. Dopo di che l’assassino scompare senza lasciare tracce.
Durante la sua degenza in ospedale, Ludovico ha tempo di riflettere sulla propria vita, un insieme di scelte sbagliate o di conseguenze non desiderate. Egli non ha mai conosciuto il padre. Rossana, quando era bambino, gli diceva che era morto, ma che lei avrebbe pensato a tutto. Affidato al nonno materno, privato della presenza rassicurante e tradizionale dei genitori, era cresciuto alimentando dentro di sé un vuoto emotivo. Trovare suo padre era diventato il suo chiodo fisso. Un matrimonio infelice, una vita solitaria, un’insoddisfazione di fondo a cui non sa dare un nome.
I ricordi feriscono, man mano che l’effetto dell’anestetico svanisce, ancor più del dolore causato dalla pallottola. È soprattutto la figura di Saverio, l’uomo riemerso poco tempo prima dal passato della madre, a tormentarlo. Acquietare i fantasmi è impresa ardua e talvolta per farlo è necessario addentrarsi nelle proprie perversioni.
Un romanzo striato di giallo, con un protagonista indimenticabile nella sua fragilità.
LinguaItaliano
Data di uscita1 nov 2019
ISBN9788832925722
Sotto la cenere

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    Anteprima del libro

    Sotto la cenere - Annamaria Bonandrini

    cenere

    Sotto la cenere

    Si riscosse; il sangue uscito dal petto aveva intriso la camicia come una calda coperta. A fatica mise a fuoco il corpo di sua madre, disteso sul marciapiede accanto a lui, immobile; un piccolo foro in fronte aveva fissato per sempre uno sguardo ormai vuoto.

    In lontananza gli sembrava di udire una sirena, si sentiva debole e perse di nuovo conoscenza.

    Era buio, senza sapere cosa fosse la luce, galleggiava agiato nel suo liquido amniotico il giorno in cui sua madre venne a sapere della sua esistenza: ne percepì un’onda negativa di contrarietà che rimase impressa nel suo essere come una voglia di necessaria futura rivincita sul rifiuto.

    Non successe subito. I primi anni di vita erano pezzi sparsi di un puzzle dai contorni frastagliati e imprecisi, ma niente di tragico né di particolarmente piacevole: un limbo in cui era vissuto fino alla bruciante consapevolezza che, a differenza degli altri bambini con un padre conosciuto, sua madre l’aveva tenuto all’oscuro non parlandogliene mai. Non aveva capito perché lui ne fosse stato privato. Non così lontano nel tempo come la gestazione, poteva ricordare con chiarezza la devastante sensazione di mancanza a fronte della banale quanto esplosiva domanda del suo compagno d’asilo: Il mio papà porta la posta, il tuo cosa fa?

    Non ne sapeva nulla e la pressione era stata così forte che era scoppiato a piangere. La maestra lo aveva distratto e il vuoto in cui si era sentito precipitare si era provvisoriamente chiuso come una porta, ma non a chiave, bastava abbassare la maniglia e sarebbe stato da capo.

    Anche se aveva solo quattro anni, un’urgenza istintiva lo aveva spinto a chiedere timidamente a sua madre dove fosse suo padre. Sua madre, stizzita e sorpresa da tale richiesta, aveva raccontato che era un astronauta ed era nello spazio. Cosa del tutto poco credibile, si sarebbe reso conto di lì a qualche anno, quando nessuno dei suoi compagni della scuola primaria ci avrebbe creduto, anzi lo avrebbero preso in giro. Dunque, dopo aver visto un documentario in televisione, si sarebbe inventato che suo padre stava costruendo un albergo in Africa.

    Alle medie, cambiando scuola e città, aveva potuto continuare con quella favoletta; poi nessuno glielo aveva domandato più. A quel punto s’innescò in lui l’esigenza di chiedere a sua madre se avrebbe mai incontrato suo padre prima o poi. Lei aveva chiuso presto la conversazione con un perentorio: È morto, non ci pensare più. Era stato come ricevere una sberla, ma aveva capito che non le avrebbe estorto altre informazioni sull’argomento.

    Una luce filtrava dalle palpebre. Percepiva che stavano spostando il suo corpo su una barella, poi in ambulanza, sentiva bruciare l’aria dentro di sé. Voleva dire qualcosa e cercò di aprire gli occhi. Per qualche istante vide un uomo dai capelli grigi che diceva: È vivo.

    Gli rammentò suo nonno e cadde di nuovo in uno stato d’incoscienza.

    Sua madre non amava la montagna, diceva che le dava l’angoscia come un muro che le sbarrava la strada, per questo andava di rado a trovare il proprio padre. Tuttavia lo aveva portato da lui quando le era capitata l’opportunità di migliorare la sua posizione lavorativa. Lo aveva lasciato nell’ingressino vicino alla porta, come se avesse fretta di andarsene, si vedeva che era a disagio: persino lui lo aveva capito e aveva solo cinque anni.

    Un bacio sfiorato sulla guancia, di sfuggita anche quello, e aveva già chiuso la porta.

    Il nonno era in tinello e stava preparando il camino; senza voltarsi gli aveva detto di avvicinarsi e guardare come faceva, così l’indomani avrebbe potuto aiutarlo. Gli aveva mostrato dove fosse accatastata la legna e la cesta da riempire: quello sarebbe stato il suo primo incarico. La sera, però, aveva paura ad andare nella legnaia e correva sempre per non incontrare le ombre immaginarie di mostri invisibili e animali ululanti che l’avrebbero aggredito.

    Accanto al nonno si sentiva un po’ più sicuro, ma neanche tanto. Lui era poco espansivo e quel suo carattere schivo gli incuteva un certo timore, ma in fondo lo incuriosiva: non aveva mai vissuto con una figura paterna e, anche se sapeva che non era suo padre, bensì il padre di sua madre, poteva essere un surrogato accettabile.

    Sua madre telefonava ogni tanto più per dare istruzioni al nonno su quello che doveva fare che per sapere davvero come stesse il figlio.

    Il primo anno era passato in fretta: aveva imparato a togliere l’erbaccia dall’orto, a preparare il camino e ad apparecchiare la tavola, attività che si limitava a saper mettere due piatti, due bicchieri e quattro posate con un tovagliolo e un cestino con due o tre panini. Il nonno metteva la brocca dell’acqua e un piccolo calice di vino per lui.

    Il paese era piccolo, ma c’era un negozietto con un po’ di tutto, un bar e la chiesa dove la domenica veniva un prete da un altro paese a dire la messa. Il nonno non lo portava sempre, perché a volte la domenica mattina puliva il pollaio e poi ogni tanto aveva da ridire sulla predica del parroco.

    Per l’iscrizione alla scuola elementare, sua madre aveva fatto lo sforzo di venire al paese; non la vedeva da un annetto e gli era sembrata distaccata, forse perché sfoggiava un grosso anello al dito che fissava come ammaliata dai riflessi della pietra incastonata.

    Forse avrai un nuovo papà e due fratelli maggiori, ma adesso non puoi venire ancora con me, del resto tu stai bene con il nonno, vero? E senza aspettare risposta si era rivolta al padre, spiegando di malavoglia e mordendosi il labbro nervosa: È meglio che Ludovico resti qui, il mio compagno si è appena separato ed è una situazione complicata.

    Già, tanto per cambiare, aveva sbottato caustico il nonno, più parlando a se stesso che alla figlia.

    Sua madre aveva ignorato il commento dell’anziano genitore, come se non fosse neanche presente e si era piegata verso il figlio con un sorrisetto finto dicendogli: Allora, starai col nonno, d’accordo?

    Lui aveva risposto, in parte per accontentare la madre e in parte perché non aveva motivi per cambiare di nuovo, che lì stava bene, con visibile sollievo di sua madre.

    Doveva alzarsi presto la mattina per prendere il pulmino che lo portava alla scuola del paese vicino. Aspettava solo e infreddolito, guardandosi le spalle come se dovesse comparire un lupo da un momento all’altro e quando arrivava il mezzo giallo si affrettava a salire. A bordo c’erano, oltre a lui, altri quattro bambini: tre femmine e un maschio. Le bambine lo guardavano incuriosite e le prime volte cominciarono a fargli domande intimidendolo non poco.

    Perché vivi con tuo nonno? Non ce l’hai una mamma e un papà?

    Di nuovo quella interrogativa a cui non sapeva rispondere. Con sforzo orgoglioso aveva raccontato la versione che gli era stata detta, ma visto che sembravano non crederci, anzi quasi lo prendevano in giro, anche lui smise di crederci, seppellendo la questione di cosa facesse suo padre nei meandri dei ricordi rimossi e alla fine nessuno glielo aveva più chiesto.

    Si risvegliò nel letto di degenza, solo in stanza. L’anestetico cominciava a perdere l’effetto, ma il dolore era più che sopportabile. Gli dissero che era stato fortunato, perché una costola aveva deviato la traiettoria della pallottola; del resto, non aveva fretta di uscire dall’ospedale, perché si sentiva ancora incredulo e frastornato. Non aveva visto chi aveva sparato perché era voltato di spalle; l’ultima immagine impressa nella memoria era quello sguardo sbigottito e poi triste e rassegnato, come non l’aveva mai visto, di sua madre che si accasciava come un sacco vuoto e lui pochi istanti dopo.

    Quando era tornato a vivere con sua madre, iniziava le medie e la situazione era piuttosto tesa; dell’uomo dell’anello non c’era più traccia e neanche dell’anello, ma non aveva indagato. Aveva già il suo daffare ad ambientarsi nella nuova cittadina, dove la madre si era trasferita e con gli orari di lavoro irregolari che lei aveva, per preoccuparsi anche di ciò che era finito sotto il tappeto dei ricordi rimossi.

    Poi c’era una ragazzina dai lunghi capelli ricci e ramati che faceva svolazzare a bella posta calamitando la sua attenzione. Non osava però farsi notare troppo e richiamare il suo interesse, perché aveva già altri ragazzini più sfrontati di lui che si facevano avanti e lei non sembrava li

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