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Damita
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E-book310 pagine4 ore

Damita

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Info su questo ebook

Naturale continuazione del romanzo d’azione “Minaccia Subliminale”, ne riprende i protagonisti portandoli verso una nuova avventura che si svolge nella foresta amazzonica, dove, a salvaguardia dell’ambiente minacciato da un’azienda multinazionale che sta distruggendo la foresta, si sollevano due fazioni, una violenta capeggiata da Damita, e una di civile protesta a cui aderisce Janet. Le strade delle due eroine si incrociano più volte durante la lotta contro la multinazionale, e infine, a complicare ulteriormente la situazione, entra in scena anche un’azienda farmaceutica con una propria spedizione di ricerca nella foresta già teatro di scontri mortali.
LinguaItaliano
EditoreEgoscribo
Data di uscita14 mar 2011
ISBN9788863690552
Damita

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    Anteprima del libro

    Damita - EgoScribo

    Gibran

    CAPITOLO I

    L’esiguo spicchio di luna illuminava a malapena quella notte tranquilla, l’unico rumore che interrompeva la quiete assoluta era il canto di qualche uccello notturno.

    Una delle guardie se ne stava seduta vicino al cancello principale e fumava una sigaretta, era annoiato e di certo non molto vigile; l’altra guardia camminava lungo la recinzione sud del cantiere e con una torcia elettrica, di tanto in tanto illuminava la foresta circostante.

    Proprio in quella zona di foresta adiacente alla recinzione, alcune ombre, lontane dalla visuale della guardia, passavano rapidamente da un tronco all’altro seguendo la fonte di un canto d’uccello. In pochi minuti la copertura della foresta era terminata e le ombre erano arrivate alla recinzione, la guardia stava procedendo nell’altra direzione e approfittando del momento favorevole, una delle ombre, di statura minuta, grazie all’aiuto di un’altra ben più prestante, agilmente scavalcò la rete. Le luci provenienti dal cantiere proiettavano ora un contorno molto più definito, l’ombra aveva preso la forma di una ragazza in tenuta mimetica e con il viso dipinto di nero, non c’era dubbio che fosse una ragazza, le sue forme lo lasciavano trasparire chiaramente. Si stava muovendo con circospezione e silenziosamente si avvicinava alla guardia, mentre l’altra ombra piazzata vicino alla recinzione teneva la stessa guardia inquadrata nel mirino del suo fucile di precisione.

    Arrivata a circa un metro alle spalle della guardia, la ragazza gli saltò addosso, gli coprì la bocca con una mano e gli piantò un pugnale sul collo, in un solo secondo la strada era libera anche per le altre ombre, che allora scavalcarono indisturbate la recinzione.

    In pochi minuti quel manipolo, guidato con estrema decisione dalla ragazza, si mosse furtivamente per tutto il cantiere, vicino alle ruspe, vicino agli autocarri e agli altri macchinari, poi tutti assieme ritornarono verso il lato da cui erano entrati. Proprio in quel momento la guardia del cancello principale si alzò e insospettita da quella strana calma, abbandonò la posizione per cercare il suo compagno. La ragazza, che era in coda del gruppo, vide la guardia che si stava avvicinando, incitò i suoi compagni a scavalcare la recinzione in fretta e a riguadagnare la foresta mentre lei avrebbe pensato a sistemare la guardia.

    La ragazza ritornò sui suoi passi e gettò un sasso nella direzione opposta per distrarre la guardia e dare il tempo necessario ai suoi per scappare, la guardia sentì il rumore e in totale allerta cominciò a procedere tra le ruspe, verso la zona da cui era pervenuto il rumore. La notte era ripiombata nel più assoluto silenzio, la punta della canna di un mitragliatore spuntò dal profilo del paraurti dell’autocarro, per un attimo rifletté una delle luci poste all’entrata della baracca principale.

    Un secondo dopo anche il corpo della guardia spuntò dal profilo dell’autocarro, istantaneamente fu colpita al viso da un calcio sferrato dalla ragazza che l’aveva aspettata in agguato, aggrappata al frontale dell’autocarro. La guardia cadde sotto quel formidabile colpo, ma per una reazione quasi incondizionata il dito premette il grilletto e alcuni colpi partirono dal fucile mitragliatore. La ragazza saltò giù dall’autocarro e cominciò a correre verso la recinzione, le baracche cominciarono ad animarsi, le luci si accesero in rapida sequenza, qualcuno cominciò a urlare, gente svestita, ma armata, si precipitò fuori delle baracche.

    Per un attimo lei si fermò a valutare la situazione, ormai era tardi, non poteva aspettare di essere in salvo, portò le mani alla bocca ed emise uno strano suono, un suono molto forte, poi iniziò a correre di nuovo. All’udire quel suono, uno degli uomini appostati nella foresta schiacciò il pulsante di un telecomando a radiofrequenza e come d’incanto la notte divenne giorno, illuminata da una rapida serie d’esplosioni che investirono i mezzi parcheggiati all’interno del cantiere. L’onda d’urto scaraventò tutti a terra, anche la ragazza fu colpita ma si rialzò subito e scavalcò la recinzione giusto in tempo per rigettarsi a terra prima che l’intero deposito carburante esplodesse in un fragore impressionante.

    Una mano forte aiutò la ragazza a rialzarsi, era il compagno che l’aveva aiutata a entrare nel cantiere <>

    <>

    Si voltarono verso il cantiere oramai ridotto a un inferno di fiamme e si guardarono negli occhi con soddisfazione, la guerra sarebbe stata ancora molto lunga, ma intanto quella era una battaglia vinta; fuggirono di corsa entrando nella folta foresta.

    Dopo alcuni chilometri di percorso solitario i componenti del gruppo di guerriglieri si ritrovarono al punto convenuto, Damita iniziò a parlare in lingua indigena.

    <>

    Nessuno replicò.

    <>

    Il pericolo di essere inseguiti non esisteva proprio, poiché quell’attacco al cantiere era stato così improvviso e violento che il servizio di sicurezza non era ancora riuscito a riorganizzarsi, e anche se ci fossero riusciti non avrebbero mai trovato i sabotatori in quella notte scura.

    All’interno del cantiere le fiamme erano calate e avevano lasciato il posto a colonne di fumo dall’odore acre di gomma e plastica bruciata, tutto attorno c’erano persone in movimento, operai e guardie che raccoglievano i feriti e i corpi ormai senza vita di alcuni dei loro compagni. Nel mezzo di quella scena di dolore e di sconfitta, un uomo alto e magro, ancora in canottiera e mutande e con gli scarponi slacciati, faceva ampi gesti con un braccio e muoveva sconsolato la testa. Quell’uomo, Marc Stanton, era l’ingegnere responsabile del progetto di costruzione dell’autostrada e della ferrovia che doveva attraversare quasi tutta la foresta Amazzonica, e in quel momento, con il telefono satellitare era in collegamento con la sede del Consorzio FutureLand, li stava informando dell’attentato appena subito e delle ingenti perdite verificatesi.

    <> gridò l’ingegnere.

    A migliaia di chilometri di distanza, da qualche parte nel Sud della Cina, la segretaria, un po’ seccata per i modi bruschi dell’ingegnere, passò la telefonata al direttore operativo.

    <> rispose una voce di donna, Sarah Benson, direttore operativo di FutureLand.

    <>

    <>

    <>

    <> replicò Sarah totalmente indifferente davanti alla morte e al dolore di quei poveri sfortunati.

    <>

    <>

    <>

    <>

    <>

    <>

    <>

    <>

    <> chiuse la chiamata e cominciò a cercare i capisquadra.

    La conferenza stampa era stata indetta dal Consorzio FutureLand, presso la propria sede di Hong Kong, per dare una risposta chiara alle accuse di sfruttamento e distruzione della foresta Amazzonica, accuse provenienti da molti gruppi di ambientalisti americani ed europei. Alle dieci in punto, il presidente del consorzio, Ian Kopescu, accompagnato da Sarah Benson entrò nella sala conferenze già gremita dai giornalisti delle emittenti televisive e dei giornali più importanti del mondo.

    Rimasero in piedi sul palco, dietro il leggio. Ian era un uomo di circa cinquanta anni, senza capelli, ma con grosse ciglia nere e sguardo deciso. Sarah invece era più giovane, l’età esatta non era nota, ma tutti la immaginavano sui quaranta, lunghi capelli biondi e lisci e occhi azzurri. Dietro di loro, campeggiava un grande simbolo dipinto sul muro, era il logo del consorzio; la stella della rosa dei venti, colore argento.

    Dopo un’interminabile serie di flash, Sarah prese la parola <>

    Questa frase scatenò subito la reazione di molti giornalisti, <> gridò uno di loro.

    <> esclamò uno dei giornalisti posti vicino al palco.

    Ian e Sarah si scambiarono un’occhiata di stupore, la reazione di quei giornalisti li aveva colti di sorpresa, gli inviti per quella conferenza erano stati fatti in maniera mirata, in teoria dovevano esserci solo giornalisti favorevoli al progresso e non alla difesa dell’ambiente.

    Ian fece un cenno a Sarah, e lei cominciò a leggere <>

    Alzò gli occhi per guardare la platea, e dopo una breve pausa riprese la lettura <>

    <> chiese il giornalista che per primo criticò l’apertura della conferenza.

    Ancora una rapida occhiata tra Sarah e Ian, e poi, <>

    <> domandò il solito giornalista.

    <complesso può dar adito a dubbi, potremmo definirlo un villaggio organizzato, ma di certo non una città. Non ci saranno i disservizi e i problemi tipici delle amministrazioni pubbliche, tutto funzionerà alla perfezione, in pratica sarà una FutureLand. Le basta come spiegazione, signor...?>>

    <>

    <> rispose in maniera secca e continuò <>

    Alvaro De Souza aveva molte altre domande, ma l’attenzione di Sarah andò sempre verso gli altri giornalisti che le rivolgevano domande meno pungenti, domande di circostanza, d’altra parte erano stati scelti proprio per quello. Dopo circa dieci minuti di domande e risposte Sarah dichiarò la fine della conferenza e uscì assieme al presidente Ian che lasciò la sala senza aver pronunciato parola. Lungo il corridoio fu lui a parlare rivolgendosi a Sarah, <>

    <>

    <> Ian prese per un braccio Sarah e affrettarono il passo verso l’ufficio, dove Sarah gli raccontò dell’attacco subito.

    Nel frattempo, nella foresta Amazzonica filtravano le prime luci dell’alba e il gruppo di rivoltosi era arrivato vicino a un fiume, sull’altra sponda, nascosto dalla fitta vegetazione c’era il loro villaggio. Damita impartì degli ordini ai suoi uomini che in pochi secondi estrassero quattro canoe dai cespugli vicini e le misero in acqua.

    Lei e Pongi si sedettero nella parte posteriore della prima canoa e durante la traversata Damita raccolse dell’acqua e cominciò a pulirsi il viso, il colore nero usato per mimetizzarsi colava sempre più dal suo volto, lo asciugò con uno straccio allungatole da Pongi. La sua pelle era molto più chiara di quella degli altri, i suoi occhi azzurri, tolse il berretto liberando così una cascata di piccole trecce bionde; Damita non era certamente indigena.

    Arrivati sull’altra sponda e nascoste le canoe, tutti i componenti del gruppo si tolsero il trucco di mimetizzazione, la loro pelle rimase però scura, erano indios nativi di quella regione.

    Ad aspettarli su quella sponda del fiume c’erano altri indios armati, che vigilavano sul villaggio, i reduci dall’attacco cominciarono subito a raccontare agli altri l’impresa di quella notte, erano eccitati e tutti esprimevano la loro ammirazione per la temerarietà e la bravura di Damita, il loro idolo, il loro capo incontrastato.

    Attraversarono pochi metri di vegetazione e arrivarono a una radura popolata da una ventina di capanne, entrarono nel villaggio tra le esclamazioni di gioia e in poco tempo tutta la popolazione del villaggio si riunì al centro delle capanne e iniziò il racconto dell’impresa appena compiuta.

    Tra quel gruppo di indios, oltre a quella di Damita, risaltavano anche altre pelli chiare, due o forse tre; una di loro era ferma immobile, non stava esultando come tutte le altre. Quella era Janet, una ragazza americana che dopo aver perso il lavoro a causa di alcune grane giudiziarie, si era recata in una missione brasiliana per aiutare i bambini abbandonati. Gli eventi l’avevano poi portata a occuparsi dei bambini degli indios e quindi a vivere nella foresta Amazzonica, la sua dedizione per quelle tribù maltrattate e il suo amore per la natura la spinsero a unirsi a quel gruppo che si stava opponendo alla distruzione della foresta.

    Janet, tuttavia, disapprovava nella maniera più assoluta il modo di condurre la lotta del resto del gruppo, cioè quello di Damita, visto che tutti le ubbidivano e la seguivano ciecamente. Lei voleva opporsi al Consorzio con metodi leciti e certamente non violenti, più volte aveva provato a far cambiare idea a Damita ma senza ottenere alcun risultato. Quando tornò un po’ di calma e la folla si disperse nel villaggio, Janet si avvicinò a Damita e le parlò con uno sguardo un po’ accigliato.

    <>

    <> rispose senza alcuna incertezza.

    <>

    <>

    <>

    <>

    <>

    <>

    <>

    <>

    <>

    <>

    <>

    <> Damita si voltò e se andò lasciando Janet perplessa e pensosa su come fosse possibile diventare così duri di cuore e chiusi di mente.

    La risposta andava sicuramente cercata nell’infanzia e nella pubertà di Damita, cioè a partire da quella vacanza, assieme ai suoi, in un paese lontano da casa. Lei aveva solo cinque anni, il padre, di origine svedese, e la madre, spagnola, erano due scienziati biologi ed erano stati inviati in Amazzonia dall’azienda farmaceutica per cui lavoravano, stavano infatti completando una ricerca per un nuovo tipo di farmaco. Purtroppo, quella che per lei doveva essere una vacanza, si trasformò in un incubo; un’epidemia di una particolare febbre malarica si propagò tra i membri di quella spedizione, e per un destino beffardo, nessuno dei farmaci in loro possesso riuscì a sconfiggere la malattia che, in breve tempo, li uccise pressoché tutti.

    Damita fu uno dei pochi superstiti. Per qualche strana ragione non venne contagiata dalla malattia, ma dovette affrontare da sola, e in tenera età, paura e dolore. Lei pianse, e pianse tanto quando, dentro quella tenda, mamma e papà non le risposero più. Rimase nella tenda per un giorno intero, poi, scossa dal bisogno di bere uscì e scoprì di essere rimasta da sola. Infatti, tutti gli altri superstiti erano portatori indios, probabilmente immuni alla febbre, che vista la situazione avevano rubato le attrezzature della spedizione ed erano quindi fuggiti.

    Il pianto di Damita, seduta davanti alla tenda dei genitori, attirò l’attenzione di un indio appartenente a una tribù della zona, i Maku, il quale era a caccia da quelle parti. Prima di uscire allo scoperto, rimase a lungo ad ammirare il caschetto dorato dei capelli di Damita, poi pian piano le si avvicinò. Lei si accorse di quell’indio quando ormai le stava vicino, rimase quasi impietrita dalla paura, i colori e i disegni dipinti sulla pelle dei cacciatori non erano certo rassicuranti. Lui le girò attorno, entrò nelle altre tende, poi controllò attorno, tutti morti. Allora tornò da Damita ancora bloccata dal terrore, la prese per un braccio e la trascinò verso la foresta più fitta.

    Da quel momento Damita diventò a tutti gli effetti una bambina della tribù di quel cacciatore, i suoi coetanei si divertivano a toccarle quei capelli dal colore così inusuale e le dipingevano la pelle per farla sembrare più simile a loro. Non ricevette alcun trattamento di riguardo, per gli adulti della tribù lei era uguale agli altri bambini, la sua infanzia fu molto dura, vivere nella foresta voleva dire affrontare un esame, un pericolo, almeno una volta al giorno. Damita non si scoraggiò mai, lavorò, lottò, andò a caccia, fece tutto quello che facevano gli indios della sua età, anzi lo fece meglio degli altri e a vent’anni osò sfidare il capo della tribù. Damita, appoggiata dagli altri giovani, voleva comandare la tribù e presa dalla foga della competizione sottovalutò l’esperienza del capo tribù che alla fine risultò vincitore.

    Sconfitta ma viva, Damita dovette lasciare la tribù e per un anno vagò sola per la foresta. Quella sconfitta le bruciò molto, camminò per la foresta in lungo e in largo senza alcuna meta, senza alcuno scopo. Poi, un giorno, mentre stava riposando seduta in una biforcazione di un tronco d’albero, udì delle urla di donna. Si precipitò verso il luogo da cui provenivano le urla, trovò due uomini con la pelle chiara come la sua che stavano violentando una ragazza indio. La reazione di Damita fu veramente feroce, piombò addosso ai due e dopo una breve colluttazione uno cadde sotto i colpi delle sue pugnalate, l’altro invece se ne scappò a gambe levate. Quel giorno Damita scoprì che degli uomini che avevano lo stesso colore della pelle stavano distruggendo la foresta e le forme di vita che la abitavano, ma perché? E come mai la sua pelle era uguale alla loro? Infatti Damita non ricordava più nulla della sua prima infanzia, non ricordava i genitori, non ricordava niente di tutto ciò, i suoi ricordi più lontani andavano alla vita in tribù. Damita fu tormentata per molti giorni da quegli interrogativi, e alla fine tornò al suo villaggio e ne parlò con quelli che credeva i suoi genitori, i quali le raccontarono di

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