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Non Tradirmi
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E-book362 pagine4 ore

Non Tradirmi

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Info su questo ebook

Avevo la libertà a portata di mano, e me la sono lasciata sfuggire.
È riuscita a scappare da un orrore che non si sarebbe mai aspettata, ma a caro prezzo.

Ora sono alla deriva.
Ora è sola.

E solo Katerina può aiutarmi.
E porterà a termine la missione.

Devo riaverla.
A qualunque costo.

Non importa quanto i miei fratelli mi supplichino di non farlo.
Non importa quanto la piccola rossa la implori di schierarsi contro la Regina.

Avrò la sua vita.
Avrà la sua vendetta.


Dark Contemporaneo
Questo romanzo contiene situazioni inquietanti, scene violente e macabre e omicidi. Non adatto a persone suscettibili ai temi trattati. Se ne raccomanda la lettura a un pubblico adulto e consapevole.
LinguaItaliano
Data di uscita19 feb 2021
ISBN9791220265928
Non Tradirmi

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    Anteprima del libro

    Non Tradirmi - Chiara Cilli

    Alboreo

    PROLOGO

    La pioggia scrosciante scende su di noi, cocente e pesante come pece. Tutti gli occhi sono puntati su di me, mentre avanzo al centro della piazza trascinandomi dietro il mio trofeo.

    Mi fermo.

    Aspetto che arrivi per godersi lo spettacolo.

    Quando si fa largo tra le dozzine di fucili d’assalto puntati su di noi, sul suo volto esplode un caleidoscopio di incredulità, dolore e un’ira così funesta da sbaragliare la potenza dei tuoni nel cielo.

    Mi giro verso il mio trofeo, la corda tra le mie dita è scivolosa come un’anguilla; me l’avvolgo una volta intorno alla mano e tiro verso il basso, incontrando resistenza.

    «In ginocchio», ordino in un sibilo.

    Il suo sguardo cattura il mio.

    Non lo conosco.

    Eppure mi affonda dentro.

    È già dentro di me.

    E lì rimarrà.

    Un calcio assestato nel punto giusto, e le sue ginocchia crollano sulla pietra bagnata.

    Infine, i miei occhi trovano quelli del mio nemico.

    E adesso, guarda.

    UNO

    Nadyia Volkov giaceva incosciente ai suoi piedi. I suoi piedi imbrattati di sangue, dannazione. Osservando le assi del pavimento, la campionessa della Regina si rese conto di aver lasciato una scia di impronte più o meno nette dall’atrio all’infermeria.

    Quel pezzo di merda, vedendole quando e se fosse riemerso dalle segrete, si sarebbe domandato come facesse lei a conoscere l’esistenza di un’infermeria e la sua ubicazione nel maniero – e, se fosse stato lucido, avrebbe fatto due più due. O magari avrebbe semplicemente creduto che, essendo già stata in palestra con lui, una volta, avesse dedotto che una sorta di infermeria dovesse sicuramente trovarsi nelle vicinanze.

    Qualsiasi cosa avrebbe pensato Armand Lamaze, non importava.

    Quello che importava, era la ragazza stesa a terra.

    Non appena si fosse svegliata, sarebbe corsa a svelare la sua vera identità ai Lamaze.

    Non poteva permetterglielo.

    Non poteva lasciarla lì.

    Doveva portarla via con sé, non aveva altra scelta.

    La prima cosa da fare, però, era occuparsi delle telecamere occultate che la stavano riprendendo. Era certa che l’addetto alla videosorveglianza notturna stesse già tempestando il cellulare di Armand di chiamate; era questione di secondi, prima che passasse a Henri e agli uomini di guardia intorno al perimetro del castello.

    Doveva agire subito.

    Fece dietrofront e frugò nell’armadietto in cerca di un bisturi. Rischiando, abbandonò momentaneamente la piccola rossa e tornò nel foyer; svoltò a destra per l’ala Nord e raggiunse il garage sotterraneo il più veloce possibile.

    Le due compresse di analgesico che aveva ingerito stavano cominciando a fare effetto e l’adrenalina già in circolo stava aumentando le prestazioni del suo fisico martoriato. Dunque si concesse solo una frazione di secondo per trarre un bel respiro e concentrarsi al massimo, prima di fare irruzione nella saletta di comando nell’angolo a sinistra del grande garage.

    L’omaccione all’interno balzò su dalla sedia girevole e vibrò un fendente con il coltello militare che aveva già estratto dal fodero sulla coscia.

    La vista che si annebbiava a tratti, con una manata lei riuscì a deviare il colpo soltanto all’ultimo istante e in contemporanea affondò il bisturi nella carotide dell’uomo: il sangue zampillò intorno al manico argenteo come una fontanella, mentre lui si accasciava con un tonfo.

    La fitta all’addome arrivò tempestiva e intensa come una stilettata, e la campionessa mugolò. Si premette una mano sugli squarci fasciati, il tessuto della canottiera zuppo sotto il palmo, e batté convulsamente le palpebre per combattere il capogiro che la investì.

    Dopo, ignorando il lieve bruciore al bicipite, su cui era affiorata una sottile riga scarlatta, si piazzò dinanzi ai dieci monitor che sovrastavano la scrivania e li osservò. Le sentinelle esterne non davano segni di aver ricevuto l’allarme, e anche all’ultimo piano dell’ala Ovest, dov’era Henri, la situazione era tranquilla.

    Il sicario non si permise neanche un nanosecondo per tirare un sospiro di sollievo.

    Rapida, spense le telecamere che le interessavano e cancellò i filmati dell’ultima ora nel foyer e nel corridoio dell’infermeria, augurandosi di averli eliminati definitivamente dal drive e maledicendo di non avere Asako al suo fianco, molto più ferrata di lei con la tecnologia.

    Recuperò il bisturi dalla gola dell’energumeno, uscì dalla stanzetta e andò alla bacheca con le chiavi delle auto. Senza pensare, acchiappò quelle di una delle berline blindate e sbloccò le portiere; gettò la piccola lama sul sedile del passeggero e, con il respiro sempre più irregolare, risalì al pianterreno.

    Avanzò cautamente nell’atrio, ma di Lamaze neanche l’ombra. Quindi, ritornò da Nadyia. Per fortuna, era ancora svenuta. L’assassina non era nelle condizioni di caricarsela in spalla come un sacco di patate, così la afferrò per un braccio e iniziò a trascinarla.

    Le sembrò di impiegare un’era per giungere in garage, e nonostante la sua ex allieva fosse mingherlina, le parve pesasse una tonnellata, quando la sollevò per metterla sui sedili posteriori dell’auto.

    Ansimante, caracollò verso la fila di tre grossi pulsanti – rosso, giallo e verde – sulla parete accanto alla bacheca e schiacciò quello verde, azionando il portone sezionale a scorrimento verticale. Dunque montò in macchina, l’accese, ingranò la marcia e sgommò fuori dal garage.

    Non appena si ritrovò sul rettilineo antistante la facciata orientale del castello, delimitato da lampioncini a luci fredde, i fanali individuarono due sentinelle in divisa nera. Non le puntarono immediatamente i fucili contro, forse disorientati nel vedere una delle macchine del loro capo lasciare l’abitazione a notte fonda.

    La campionessa alzò appena il piede dal pedale, ma quando una delle guardie si portò l’indice all’auricolare – probabilmente per chiedere la conferma di spostamento del signor Lamaze alla sala comando –, schiacciò l’acceleratore. Incerti sul da farsi, loro si appiattirono contro le mura dell’edificio mentre gli sfrecciava davanti.

    Appena fu nel piazzale, invece, una marea di proiettili si abbatté sulla berlina e la fece sbandare.

    «Merda!» imprecò la killer a denti stretti, scalando le marce per riprendere il controllo della vettura e imboccare la discesa tra gli alberi.

    Quella fottuta strada dissestata era totalmente immersa nel buio che i fari fendevano come laser, rendendo visibili massi, rami e qualunque altro pericolo solo all’ultimo istante. Il primo cavaliere di Neela Šarapova pregava soltanto che tutto quello sballottamento non svegliasse la futura mamma, altrimenti la situazione sarebbe diventata ancora più spiacevole.

    La foresta incominciò a divenire più rada, segno che era giunta alle pendici del colle, e a un certo punto la luce del gabbiotto comparve in fondo alla via. I due soldati si erano piantati in mezzo al passaggio, il mitra e la pistola indirizzati verso di lei.

    «Fermati!» le intimò uno.

    «Ferma l’auto! Adesso!» ruggì l’altro.

    Il fatto che non la stessero bombardando di pallottole poteva significare solo una cosa: uno degli uomini in cima alla rupe doveva averla riconosciuta come la donna che Armand Lamaze aveva accolto giusto qualche ora prima, e aveva impartito l’ordine di non spararle più.

    Perfetto.

    Il sicario strinse forte le dita sul volante e diede gas. Le due guardie rimasero piantate dov’erano fino all’ultimo, per poi buttarsi di lato per non essere falciate in pieno. Aiutandosi con il freno a mano, la campionessa girò a destra con una sgommata e affondò nuovamente l’acceleratore, procedendo a tavoletta verso Véres.

    Diede un’occhiata allo specchietto retrovisore: nessuno la stava inseguendo. Finalmente, rilasciò un sospiro estenuato e si passò una mano sul muso viscido. Tirò su col naso e sputò dal lato del passeggero il grumo di sangue e muco che le scese in bocca.

    Cristo santo, non riusciva a credere a quello che era successo. Alla sconvolgente verità che aveva appreso sulla famiglia Lamaze e al raccapricciante segreto che Armand aveva custodito in tutti quegli anni.

    Non riusciva a credere che Rina…

    Menò un pugno sul volante, i denti digrignati per contenere un grido muto.

    La luci della città si stagliavano a valle come un’elegante ragnatela, su cui il monastero svettava come una gigantesca vedova nera in procinto di intrappolare e divorare ogni cosa.

    Pochi chilometri, e la campionessa sarebbe stata a casa.

    Tutto in lei le urlava di tornare.

    Dalle sue sorelle.

    Dalla sua padrona.

    Eppure…

    Lanciò uno sguardo alla giovane riversa sui sedili posteriori. Se l’avesse portata al monastero, Neela l’avrebbe sottoposta alle torture più macabre e oscene, per averla tradita e perché portava in grembo il figlio di André Lamaze. Infine avrebbe convocato Armand e Henri e l’avrebbe giustiziata davanti ai loro occhi.

    E loro non avrebbero potuto fare nulla, giacché il patto che gli avi delle tre famiglie avevano stipulato parlava chiaro: il casato perdente era obbligato a rimanere immobile durante un’esecuzione, indipendentemente da chi ci fosse sul patibolo, e ad accettare la sconfitta con onore.

    Il braccio destro della Regina tornò a guardare la strada, la fronte corrugata. La pelle del volante scricchiolò sotto le sue mani.

    Doveva sbarazzarsi di quell’auto.

    DUE

    Armand

    Avevo la sensazione che qualcosa mi si fosse incastrato nella trachea, talmente riarsa, per quanto avevo tossito violentemente, che persino deglutire la mia stessa saliva era doloroso. Ogni respiro profondo era una pugnalata allo sterno. L’orecchio su cui ero stato percosso fischiava ancora in maniera tremenda, intontendomi.

    L’ambiente che mi circondava non era più rosso.

    Il muschio fresco tra le fughe delle pietre delle pareti, il bagliore caldo delle quattro lampade appese ai muri, la vasca macchiata con i rubinetti arrugginiti, il lavello sporco, l’armadio dal legno marcito, i catenacci con l’uncino che pendevano dal soffitto basso, il grande tavolo con le bande di ferro che troneggiava al centro della stanza, il lago di strati e strati di sangue gelatinoso…

    Tutto aveva riacquistato il proprio colore.

    Tutto, tranne lei.

    Era di fronte a me, il corpo nudo e slanciato permeato di catrame denso e satinato che le impiastricciava anche il caschetto di capelli. I suoi occhi erano così sgranati che sembrava stessero per schizzarle fuori dalle orbite, le sclere erano percorse da un reticolo di capillari che parevano sul punto di scoppiare, e le pupille erano tanto dilatate da aver inghiottito le sue iridi così particolari. Il labbro superiore, leggermente più sottile, era arricciato in una smorfia contrariata. Il suo petto si gonfiava e sgonfiava a ritmo sostenuto, il suo sguardo era fisso davanti a sé.

    Sulla porta segreta della camera.

    La porta che avevo udito schiudersi, mentre cercavo di tornare a respirare.

    «L’hai lasciata scappare…» Non vi era più nulla di sensuale e suadente nella sua voce. Era un suono cavernoso, roco, rasposo, quasi rimbombante.

    Un verso bestiale.

    Portò lentissimamente l’attenzione su di me, e i suoi denti si snudarono come le zanne di una fiera. « Tu», ringhiò, boccheggiante di rabbia. «Miserabile, insulso inetto…»

    Chinai il capo, colpevole. Avevo avuto la libertà nel palmo della mano, lo avevo stretto e stretto e stretto, pronto a berne l’agognato succo che mi avrebbe ridato la pace.

    Ma poi… poi.

    Levai gli occhi affranti su colui che la mia mente subdola e malata aveva fatto apparire proprio nel momento cruciale.

    Colui che ciò che restava della mia anima e del mio cuore aveva inviato per fermarmi.

    Mio fratello mi riservava uno sguardo traboccante di pena e delusione. «Che cosa hai fatto, Armand?»

    Il suo tono duro mi strappò un singulto di pura sofferenza, che cercai di celare riabbassando la testa. «Sono così stanco, André», mormorai.

    «Non vuol dire che sei debole», fu la sua severa replica.

    Feci per ribattere, ma quando alzai lo sguardo, lui era sparito. Il senso di abbandono che mi abbrancò fu agghiacciante, e scattai in piedi gemendo: «No, ti prego, aspet…».

    Le dita collose di mia madre mi attanagliarono la faccia, obbligandomi a voltarmi verso di lei.

    « Guardami», mi sibilò sulla bocca.

    Il lezzo di decomposizione che emanava mi si infilò nelle narici e giù per la gola, ribaltandomi lo stomaco.

    «Va’ a riprenderla immediatamente. La rivogliamo. È nostra. Ridaccela.» Mi spinse via da sé con spregio, e l’ira che mi riversò addosso mi ammantò come una fiamma nera e corrosiva. «Vai», mi comandò in un bisbiglio.

    La guardai con la medesima collera, mentre indietreggiavo centimetro dopo centimetro, le piante dei piedi appiccicose sul pavimento freddo.

    « Vai!» tuonò l’essere aberrante.

    Quell’urlo fu così assordante e prolungato e inumano da rintronarmi nel cervello anche quando ebbi lasciato la stanza. Non mi preoccupai di richiudermi dietro la porta segreta: Katerina era ferita e, di conseguenza, sempre più debole, non poteva aver lasciato il castello. Di lì a poco l’avrei ritrovata e l’avrei trascinata di nuovo quaggiù.

    E questa volta avrei seguito il mio rituale.

    Passo dopo passo.

    Senza esitare.

    Senza permettere che quel briciolo di umanità rimastami mi impedisse ancora di afferrare la libertà che meritavo.

    Nel lugubre androne, su cui i battenti corazzati delle celle si succedevano l’uno dopo l’altro come centurioni pronti a formare una testuggine di scudi, seguii le orme insanguinate che spuntavano per terra a ogni cono di luce.

    Man mano che mi allontanavo dalla mia camera degli orrori, percepivo i tentacoli del mio tormento allentare le loro ventose sulla mia mente e i pensieri schiarirsi a poco a poco.

    A metà dell’angusta rampa di scale fiocamente illuminata, notai macchie più grandi e consistenti sui gradini: Katerina doveva essere scivolata, per poi strisciare fin quasi in cima. Nemmeno una delle mie innumerevoli vittime avrebbe avuto la forza di continuare a salire, ridotta in quello stato.

    Ma Katerina sì.

    Quella donna era una vera sopravvissuta, e neanche la mia nefandezza aveva spento il suo spirito guerriero.

    Ecco perché era lei, la prescelta del mio mostro.

    Superai l’ultimo scalino e varcai la porticina, aspettandomi di trovare il foyer immerso nel suo solito, spettrale silenzio notturno.

    Invece colsi la voce alterata di Henri.

    «Che cosa cazzo sta succedendo, qui?»

    Mi bloccai sul posto.

    Che diamine ci faceva sveglio a quest’ora? Da dove mi trovavo, potevo intravedere che uno dei due maestosi e alti battenti dell’ingresso era spalancato. Perché diavolo mio fratello era fuori, nel piazzale? Aveva forse incrociato Katerina e la stava trattenendo?

    Non riuscii a sentire la risposta del suo interlocutore, chiunque fosse.

    «Quale donna?» inveì Henri.

    Drizzai le antenne. Stava parlando della mia preda con i miei uomini. Katerina era stata così sconsiderata da uscire dal castello e tentare di scappare nel buio pesto della foresta? L’avevano acciuffata?

    Restai immobile.

    Potevo procedere rasente la parete e sgattaiolare nell’ala Ovest, utilizzando uno dei passaggi nascosti per spostarmi nella mia ala e andare a ripulirmi, prima di tornare giù a prendere Katerina.

    Oppure potevo riprendermela adesso.

    Così com’ero.

    Lercio del suo sangue.

    Avvertii i suoi artigli solcarmi la schiena in un tacito, smanioso ordine. Quindi, lentamente, chiusi l’uscio alle mie spalle e feci per avanzare verso l’entrata…

    …quando Marcel, il nostro anziano maggiordomo, sbucò dall’arcata dell’ala Ovest in pantofole e veste da camera. Dapprima non sembrò notarmi, concentrato sul trambusto che stava avendo luogo all’esterno; ma poi i suoi piccoli e velati occhi cerulei, che tanto avevano visto, tanto avevano taciuto e a cui non sfuggiva mai niente, individuarono le tracce cremisi vicino al primo gradino della scalinata e le seguirono a ritroso.

    Fino a me.

    Fu allora, mentre mi squadrava non con repulsione, ma con una tristezza infinita, che compresi che lui sapeva. E come suo padre e il padre di suo padre si erano voltati dall’altra parte, nonostante tutto quello a cui assistevano, e avevano continuato a servire la mia orribile famiglia, così lui era rimasto e si era preso cura di me e dei miei fratelli da lontano, in silenzio.

    Perfino conoscendo il mio turpe segreto.

    Sostenni il suo sguardo con espressione mesta, finché lui, con un flebile sospiro scorato, non si ritirò nuovamente negli alloggi dei dipendenti.

    La vergogna mi serpeggiò sulla pelle come il più schifoso dei rettili, facendomi rabbrividire. Fui tentato di riscendere nei sotterranei e lavarmi al lavello – come ero solito fare dopo aver terminato i miei sacrifici –, ma ero consapevole che l’acqua da sola non sarebbe stata sufficiente per rimuovere tutto il sangue che mi ricopriva mani, braccia e addome, né avevo una camicia con cui coprirmi.

    Azzardai un’occhiata verso l’arcata dell’ala Ovest, ma la puntura delle sue unghie sulla mia spina dorsale si fece più acuta.

    Non avevo altra scelta.

    Vladilena Lamaze esigeva la nostra ultima vittima.

    Dunque, con incedere pesante, raggiunsi mio fratello; non uscii dall’abitazione, però, fermandomi sulla soglia d’ingresso. Anche se era estate, qui, circondati dagli imponenti Carpazi, le notti erano sempre molto fredde, e la temperatura mi sferzò con tutta la sua rigidità.

    Inspirai appieno quell’aria pulita e ristoratrice, poi incrociai le braccia dietro la schiena e mi focalizzai sulla scena che avevo davanti.

    «Che cosa sta succedendo?» esordii, in tono solenne.

    Henri e il soldato più in gamba del mio team – l’unico rimasto a proteggerci da un eventuale attacco a sorpresa di Neela Šarapova o di Aleksej Bower, Regina e Re di Véres – smisero di discutere animatamente e si girarono verso di me. Il mio sottoposto riuscì a mantenere i nervi saldi, le labbra sigillate in una linea sottile. All’opposto, il viso barbuto di Henri si contorse in una smorfia orripilata.

    «Cristo santo, Armand!» trasalì.

    Aveva i folti capelli castani arruffati dal sonno e indossava una maglia larga nera e pantaloni morbidi dello stesso colore, segno che doveva essersi buttato giù dal letto e precipitato quaggiù in fretta e furia.

    Mi venne incontro, domandandomi concitato: «Sei ferito?», mentre mi ispezionava con gli occhi blu oceano dalle screziature indaco. Si rese subito conto che ero tutto intero, e la sua espressione si rabbuiò. «Di chi cazzo è quel sangue?»

    Non gli risposi, e lui fece per insistere, ma sollevai due dita per zittirlo. La sua rabbia subitanea mi travolse come un’onda d’urto, ma rimasi stoico e fissai il mio uomo.

    «Ho chiesto», ripetei inflessibile, «cosa sta succedendo.»

    La guardia prese fiato per aggiornarmi, ma un’altra sentinella ci si avvicinò trafelata.

    «Signore», mi salutò con un secco cenno del capo, l’indice ancora sul grilletto del fucile a tracolla. «Abbiamo sentito il garage aprirsi, e una delle vostre vetture è comparsa dalla curva. Abbiamo provato a contattare la sala comando, ma non abbiamo ricevuto risposta. Poi l’auto ha accelerato di colpo e ci ha quasi investito.»

    «Quando ce la siamo ritrovati nel piazzale», intervenne il primo soldato, «d’istinto abbiamo iniziato a sparare sulla macchina, ma dopo uno di noi si è accorto che la donna al volante era la stessa a cui ha offerto rifugio ieri sera, e abbiamo cessato immediatamente il fuoco.»

    Il sangue mi stava ribollendo nelle vene come lava. «Le avete sparato?» trasecolai tra i denti.

    Henri proruppe in una mezza risata innervosita – era ormai evidente che fosse stata proprio la sparatoria, a svegliarlo di soprassalto.

    «Non hai sentito i colpi?» fece, sbalordito.

    «No», fu la mia lapidaria risposta.

    Lui mi si accostò un po’ di più, ringhiando: «E dove cazzo eri, per non averli sentiti?».

    Ero sicuro che se si fosse soffermato a riflettere, avrebbe realizzato che l’unico luogo della casa completamente isolato da qualsiasi rumore erano i sotterranei. Ma la collera che ora gli stava montando dentro era troppo impetuosa, e come sempre lo aveva già preso al lazo.

    Tenni il suo sguardo tempestoso per qualche secondo, in seguito lo riportai sui miei uomini. «Dov’è lei, adesso?»

    «Non siamo riusciti a fermarla, signore», ammise la prima guardia.

    «Sembrava davvero determinata a lasciare il castello, signore», evidenziò la seconda.

    Mi conficcai le unghie nei palmi fino a percepire la pelle lacerarsi, pur di rimanere assolutamente impassibile. «E voi non siete stati in grado di impedirglielo», li accusai, con voce grave.

    «Non…» La seconda sentinella scambiò un’occhiata incerta con la prima.

    «Non era merce, signore», ribatté questa con risolutezza.

    Certo che no. Lei era molto, molto più preziosa.

    E non era più qui.

    «Okay, basta con queste stronzate», sbottò mio fratello di punto in bianco.

    Prima che potessi reagire, mi piantò le mani sul petto e mi spintonò in casa con tanta forza che mi slittò un tallone viscoso sul pavimento; dovetti contrarre ogni muscolo del corpo, per non capitombolare.

    Henri agguantò il massiccio battente del portone e lo richiuse con tale enfasi che il tonfo echeggiò nell’atrio come una detonazione. Poi mi venne sotto a muso duro, puntandomi un dito in faccia. «Dimmi subito che cosa cazzo hai fatto.»

    Avvertivo la presenza di nostra madre sul balcone che circumnavigava l’ingresso come un ferro di cavallo. Potevo vederla, senza guardarla. Sfilava dietro le colonnine di legno, lenta, letale.

    Mi osservava.

    Mi richiamava.

    Pretendeva tutto.

    «Non è il momento, Henri», sentenziai, teso come una molla in procinto di spezzarsi. Mi avviai verso l’arcata dell’ala Nord, bofonchiando: «Torna a dormire».

    «Non tenermi fuori, Armand!» si adirò lui, provando a trattenermi per un braccio.

    Mi girai di scatto e lo spinsi via con la brutalità di un assatanato. «Vattene, Henri!» urlai.

    Lui mi fissò, completamente sconvolto. Non volevo che mi vedesse così. Perché non se ne tornava di sopra, maledizione? Non doveva preoccuparsi per me, non doveva.

    Io mi preoccupavo per lui. Io pensavo a lui.

    Non c’era bisogno che si allarmasse per me. Sarei stato bene. Presto.

    Dovevo solo riavere Katerina.

    Il mio respiro irrequieto si unì a quello di Henri, risuonando nell’ampio ambiente come quelli di due stalloni in procinto di affrontarsi.

    «Fratello», disse lui con calma apparente. «Sei ricoperto di sangue, e qualcosa mi dice che appartiene a questa femmina che hai ospitato in casa nostra per chissà quale fottuto motivo. Qualunque cosa sia accaduta tra di voi, è evidente che sei fuori di te. Voglio…» Azzardò un passo in avanti. «Voglio solo aiutarti».

    Scrutai la mano che, forse inconsciamente, aveva allungato verso di me. Non avevo bisogno del suo aiuto.

    Volevo solo sentire di nuovo il collo di Katerina sotto le dita. Volevo vederla distesa sul mio tavolo, legata, mia. Volevo cavarle quegli occhi disgustosi, così simili a quelli che infestavano i miei pensieri. Volevo strapparle le unghie e mozzarle le mani. E volevo aprirla. Volevo squarciare ogni lembo della sua pelle e osservare il sangue fluire e fluire e fluire.

    Brillante.

    Incontrastato.

    La brama di eseguire il rituale su di lei mi pervase, incontrollabile, e dovetti voltare le spalle a mio fratello per nascondergli l’eccitazione che mi stava invadendo.

    «Lasciami solo», gli ingiunsi a bassa voce.

    Ma lui non demorse. «Armand…»

    « Lasciami solo!» ruggii con tutto il fiato che avevo nei polmoni.

    Con tutta la mia mostruosità.

    Il silenzio che calò nel foyer aveva il sapore acre del dolore più lancinante.

    «Come hai sempre voluto essere», replicò Henri, in tono greve. Con la coda dell’occhio, lo intravidi incamminarsi verso lo scalone, per poi indugiare sui primi gradini e mormorare: «Ma non lo sei».

    Avrei voluto credergli.

    Ma sapevo che non era così.

    Neppure adesso che eravamo rimasti solo noi due.

    TRE

    Non potendo correre il rischio che uno degli uomini di ronda di Bower notasse un’auto approssimarsi alla città nel cuore della notte, la campionessa giunse a fari spenti ai confini della periferia Ovest. Si tolse dalla strada e arrestò la berlina sul folto prato che, accarezzato da un leggero vento, ondeggiava come una vasta distesa d’acqua sotto i raggi lunari, oscurati di tanto in tanto da qualche nuvola sottile che viaggiava nel cielo.

    Spense il motore e, volgendo il busto per controllare la sua ex allieva, sentì come una stilettata al ventre; durò poco, ma fu abbastanza pungente da farle trattenere il respiro. Nadyia non sembrava neanche lontanamente sul punto di rinvenire – segno che, con tutta probabilità, non si faceva una bella dormita da giorni.

    Dunque, la donna scese dalla macchina e si diresse verso le abitazioni con fare furtivo. Avrebbe dovuto proseguire verso la periferia Nord-Ovest, dove i quartieri erano più diroccati e malfamati, ma fortunatamente trovò un’utilitaria grigia in un vicolo senza uscita. La puzza emanata dai cassonetti di immondizia, ammassati contro la parete in fondo, le fece storcere il naso, mentre si guardava intorno alla ricerca di qualcosa con cui rompere il finestrino.

    Trovò un corto tubo di rame proprio vicino alla spazzatura: lo afferrò e tornò alla vettura trotterellando. Il mondo cominciò a vorticare all’improvviso, e lei si accasciò contro lo sportello con un mugolio di protesta.

    «Oh, andiamo», protestò tra sé e sé, battendo freneticamente le palpebre per scacciare l’alone scuro

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