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La Cina popolare
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E-book739 pagine5 ore

La Cina popolare

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“Un libro che abbraccia l’intero arco temporale che va dalle guerre dell’oppio ad oggi. Questo è importante perché conferisce alle vicende narrate la necessaria profondità storica. Necessaria innanzitutto perché, se inquadrata in un orizzonte plurisecolare, anche la straordinaria crescita della Cina degli ultimi decenni può venire intesa per quello che realmente è: la traiettoria grazie alla quale una delle aree da millenni più civilizzate del mondo si riprende il posto nell’economia mondiale che occupava prima che il colonialismo inglese la umiliasse, facendo regredire il suo contributo al prodotto interno lordo mondiale in meno di un secolo da oltre il 30 per cento del totale a meno del 5 per cento". (dalla prefazione di V. Giacché)
LinguaItaliano
Data di uscita2 dic 2020
ISBN9788894552676
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    Anteprima del libro

    La Cina popolare - Diego Angelo Bertozzi

    Giacché

    Scheda del libro

    Negli ultimi trent’anni la dicotomia tra capitale fittizio e capitale industriale è stata ben rappresentata dal conflitto Usa-Cina. L’Europa ha creduto che la distruzione del sistema del «salario sociale globale», costruito nel dopoguerra, gli avrebbe permesso di giocare in questo conflitto un ruolo decisivo. La storia recente ha mostrato che questa scelta era sbagliata, e che la Cina, ispirandosi proprio al modello italiano, costruito nella Prima repubblica e abbandonato nel 1992, ha potuto conquistare posizioni a danno proprio degli occidentali. In questo nuovo scenario il Mediterraneo conquista la sua antica centralità nel commercio globale. Nuove vie si aprono per l’Italia, nuove possibilità sono offerte ad una diplomazia, anche economica, che abbia il coraggio di volgere lo sguardo ad Oriente, come nel XIII secolo, quando le repubbliche marinare dominavano il commercio mondiale.

    L’Autore

    Diego Angelo Bertozzi (Brescia, 1973), laureato in Scienze Politiche all'Università degli Studi di Milano, si occupa da tempo di storia del movimento operaio e di Cina. Ha pubblicato per Diarkos  La nuova via della seta. Il mondo che cambia e il ruolo dell'Italia nella Belt and Road Initiative (2019)

    Sommario

    Sommario

    Scheda del libro

    Sommario

    Prefazione

    Anniversari in un mondo che cambia: un’introduzione

    Le radici del socialismo cinese: dall’umiliazione alla nuova Cina

    Un passo indietro: le tappe della umiliazione nazionale

    Una rivoluzione condivisa

    Una repubblica a pezzi va alla guerra

    La scelta rivoluzionaria: il Fronte unito e i Tre principi del popolo

    La base è la nostra casa: i primi passi del socialismo con caratteristiche cinesi

    La doppia resistenza: le basi della Nuova democrazia

    Finisce la guerra, finisce un’epoca

    La Cina in piedi

    La transizione al socialismo: Fronte unito, riforme e campagne di massa

    Riprendere le periferie…

    Alleanza con l’Urss, guerra di Corea e primi segnali di protagonismo internazionale

    I nazionalisti a Taiwan. (E se avessero vinto loro?)

    La via cinese e la fuga in avanti verso il comunismo

    Qual è la contraddizione principale?

    Un’altra Onu è possibile: la rottura con l’Urss e la diplomazia rivoluzionaria

    Cinquant’anni fa: la Rivoluzione culturale

    Riforma e apertura: la lunga marcia economica

    Il giudizio su Mao. E il ricordo di Mao

    Partito più elettrificazione: parte la riforma

    Legalità e stato diritto per il socialismo cinese

    In politica estera pragmatici, ma non del tutto. Le basi dell’accordo con Mosca e degli attriti nei mari meridionali

    Tra riforme e proiezione globale: il nuovo corso del socialismo cinese

    La storia di una foto. Un mito da affrontare

    Non fare la fine dell’Urss: la riforma e l’apertura come garanzie

    Verso quale mondo? Tra integrazione e nuove minacce

    Non fare la fine dell’Urss: salvaguardare l’ideologia

    Una democrazia, ma non quella occidentale

    Cambia anche il partito: da avanguardia del proletariato ad avanguardia della nazione

    Dall’aggiustamento armonioso al sogno cinese: la Cina cambia volto

    Confucio all’interno e all’esterno: le radici del sogno cinese

    Tre riforme e un piano per cambiare volto al Paese

    La convergenza di interessi: verso una nuova comunità internazionale?

    Pechino di fronte al Pivot to Asia

    Un vicino ingombrante: la Corea del Nord

    Basi all’estero, possibili interventi e ipotesi di alleanze: Deng in soffitta?

    Taiwan, un quadro complesso

    Xi/Mao o Xi/Deng? Probabilmente entrambi

    Indicazioni bibliografiche

    Prefazione

    di Vladimiro Giacché

    «La storia economica recente della Cina, se la seguiamo facendo ricorso ai principali indicatori economici, è la storia di un successo straordinario, più precisamente la storia del più imponente recupero di un paese in ritardo di sviluppo della storia. Il track record recente della Cina in campo economico è stato definito da Branko Milanovic come il migliore dell’intera storia dell’umanità. Qualche indicatore: il prodotto interno lordo (pil) è cresciuto di 123 volte dal 1949. Il pil pro capite, che nel 1949 era pari a 23 dollari, nel 2016 aveva raggiunto i 9.000 dollari. (…) Dal 1978 a oggi in Cina 700 milioni di persone sono usciti dalla povertà».

    Riprendo da un mio saggio recente queste righe,¹ perché ritengo che introducano nel modo migliore questo libro di Diego Bertozzi. Qualunque cosa si pensi della Cina, del suo assetto istituzionale ed economico, i fatti sono questi. Sono fatti che non soltanto meritano rispetto, ma che dovrebbero soprattutto indurre ad approfondire la dinamica interna di questa storia di successo. Innanzitutto i suoi fatti, e poi i suoi perché. Non tanto per apprendere i contorni di un ennesimo modello da imitare, cosa che non avrebbe senso per molti motivi. Ma per capire cosa sta succedendo di importante nel mondo.

    Da questo punto di vista La Cina popolare di Diego Bertozzi è un testo prezioso, direi indispensabile. Per fortuna sono passati gli anni in cui per leggere qualcosa di non banale sulle vicende cinesi si doveva ricorrere a Maonomics di Loretta Napoleoni (un libro di grande interesse con un titolo completamente sbagliato) e a poco altro. Oggi la letteratura sulle vicende cinesi disponibile al lettore italiano annovera diversi buoni titoli.² Ma nonostante questo si può affermare con ragionevole certezza che il testo di Diego Bertozzi sia la migliore sintesi oggi disponibile al lettore italiano. Questo per diversi motivi, che proverò a passare in rassegna.

    Primo motivo: è un libro che abbraccia l’intero arco temporale che va dalle guerre dell’oppio ad oggi. Questo è importante perché conferisce alle vicende narrate la necessaria profondità storica. Necessaria per più di una ragione. Necessaria innanzitutto perché, se inquadrata in un orizzonte plurisecolare, anche la straordinaria crescita della Cina degli ultimi decenni può venire intesa per quello che realmente è: la traiettoria grazie alla quale una delle aree da millenni più civilizzate del mondo si riprende il posto nell’economia mondiale che occupava prima che il colonialismo inglese la umiliasse, facendo regredire il suo contributo al prodotto interno lordo mondiale - in meno di un secolo - da oltre il 30 per cento del totale a meno del 5 per cento. La storia della Cina degli ultimi decenni è innanzitutto la storia di questo straordinario recupero.  Necessaria, in secondo luogo, perché precisamente le lontane vicende delle guerre dell’oppio, in cui la diplomazia delle cannoniere costrinse la Cina ad aprirsi al colonialismo occidentale, consentono di intendere il motivo dell’estrema attenzione che la Cina contemporanea pone alla difesa delle proprie coste e della propria sovranità sulle acque che bagnano il suo territorio. È decisamente singolare – ma forse non sorprendente – che questa circostanza non sia mai rammentata dai commentatori che chiosano con preoccupazione mista a biasimo le mosse cinesi nel Mar Cinese Meridionale.

    Secondo motivo. L’estrema chiarezza con cui i passaggi storici importanti delle vicende cinesi, in particolare del XX secolo, sono resi e sintetizzati in poche pagine senza mai perdere di vista gli elementi essenziali. Questo consente tra l’altro all’autore di contestualizzare storicamente anche alcuni degli slogan più famosi del maoismo. Ad esempio, la frase il potere nasce sulla canna del fucile – spesso intesa a posteriori in Occidente come una generica apologia della lotta armata – nacque, più concretamente, dalla riflessione sulla sconfitta subita a Shangai nel 1927 dal giovane partito comunista, e dalla terribile repressione che ne seguì. Gli stessi rapporti con l’Unione Sovietica, che si dipanano nei decenni sino a sfociare nella rottura degli Sessanta, nella lettura di Bertozzi sono caratterizzati sin dalla seconda metà degli Trenta dalla capacità della dirigenza cinese raccolta attorno a Mao di interpretare le lezioni dell’Ottobre russo in maniera non dogmatica: è in questi anni che vanno ricercato le lontane radici della sinizzazione del marxismo la cui fase più recente, da Deng in poi, è ben resa dall’espressione socialismo con caratteristiche cinesi.

    Terzo motivo. Ovviamente la parte prevalente del volume è dedicata agli anni dalla fondazione della Repubblica popolare (nel 1949) ad oggi. Questa parte cruciale del volume è completa – non manca nessuno dei passaggi fondamentali di una storia molto ricca e caratterizzata anche da battute d’arresto e brusche svolte – e al tempo stesso caratterizzata da un notevole equilibrio. A differenza delle ricostruzioni agiografiche, si evidenziano con grande chiarezza i gravi errori commessi in più di un’occasione dalla dirigenza cinese, e, a differenza delle ricostruzioni demonizzanti tipiche di molta pubblicistica occidentale, la narrazione non è imperniata sullo pseudo-concetto di totalitarismo, che tra gli altri difetti ha quello di impedire di cogliere la complessa dialettica tra centralizzazione e spinte al decentramento, come pure la sussistenza di diverse forme di proprietà anche nel periodo maoista. In questo libro non solo è correttamente colto tutto questo, ma – cosa importantissima – è reso con grande chiarezza il nesso tra evoluzione politica interna e situazione internazionale. È indubbio ad esempio, che l’isolamento internazionale da parte dell’intero campo occidentale determina non soltanto l’evoluzione dei rapporti con l’Urss, ma le stesse accelerazioni di uno sviluppo sostanzialmente autarchico (prima fra tutte la politica riassunta nello slogan del grande balzo in avanti) che oggi sono generalmente considerate gravi errori. Ma nella storia dei popoli, come in quella degli individui, ci sono errori, se non necessari in senso stretto, senz’altro forzati dalle circostanze e dalla conseguente limitazione delle scelte possibili. Da questo punto di vista, sia detto per inciso, anche il rimprovero a Mao di non aver attuato le politiche di riforme e apertura di Deng e di non aver quindi praticato l’attrazione di investimenti diretti esteri che invece ha caratterizzato la fase successiva al 1978, non ha molto senso: nel mondo della guerra fredda e dell’embargo pressoché assoluto da parte dei paesi occidentali nei confronti della Cina quella politica, anche qualora fosse stata ritenuta desiderabile, era semplicemente impraticabile. Ciò detto, il testo non indulge ad alcuna astratta giustificazione di politiche sbagliate. In particolare il grande balzo in avanti prima, e la cosiddetta rivoluzione culturale poi, sono giustamente analizzate criticamente e giudicate con severità. Il disastroso ritorno del primo a una sorta di comunismo di guerra è analizzato evidenziandone le conseguenze catastrofiche dal punto di vista economico e della vita di decine di milioni di cinesi. Quanto alla seconda, viene rappresentato correttamente lo sfociare dello slogan bombardare il quartier generale (altro molto molto popolare in Occidente negli anni Sessanta) in episodi di vera e propria guerra civile e più in generale in una eversione dell’ordine sancito dalla Costituzione del 1954.

    Quarto motivo. Al lettore vengono presentate anche vicende della storia e della diplomazia cinese che, un tempo ben note, negli ultimi decenni sono state poco praticate e risulteranno quindi sconosciute o quasi alla maggioranza dei lettori. Mi riferisco al contributo fornito dalla Cina allo sviluppo del movimento dei paesi non allineati e delle lotte anticoloniali nel terzo mondo. Ma pagine molto chiare sono dedicate anche alla battaglia per il riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese quale legittimo rappresentante della Cina all’Onu, conclusasi con successo nel 1971 (sino ad allora alle Nazioni Unite la Cina era stata rappresentata da Taiwan) e al riavvicinamento agli Stati Uniti sfociato nella famosa visita di Nixon in Cina nel 1972. 

    Quinto motivo. La svolta di Deng dopo la morte di Mao è spiegata facendo adeguato riferimento alle fonti teoriche cinesi (a cominciare dagli scritti e discorsi dello stesso Deng). Questo è importante, perché la politica di riforme e apertura non fu né una escogitazione solitaria di Deng, né una estemporanea inversione a u rispetto alle politiche precedenti, ma una politica che si accompagnò a una profonda riflessione teorica. Il libro di Bertozzi stabilisce correttamente un parallelo tra questa svolta e la nuova politica economica introdotta nel 1921 da Lenin per rompere con il comunismo di guerra precedente, ma ovviamente il testo non si ferma a questo. È posto in luce il diverso approccio dei riformatori cinesi nei confronti dell’eredità di Mao rispetto a quello che fu di Krusciov nei confronti di Stalin: nel caso cinese la critica anche aspra non diviene demonizzazione assoluta. Ma è soprattutto messo in rilievo il contributo che alle riforme viene dato dal basso, dal nuovo sistema di responsabilità introdotto e generalizzato nelle campagne a partire dalla sperimentazione nata da 18 contadini del villaggio di Xiaogang nel 1978. La politica del PCC consiste da un lato nell’assecondare queste dinamiche economiche spontanee, dall’altro nel fornire loro il quadro giuridico entro cui muoversi: si pensi alla creazione delle zone economiche speciali per attrarre investimenti esteri, o alla dismissione di molte imprese statali (però al tempo stesso mantenendo e anzi rafforzando quelle operanti in settori strategici). Il libro di Bertozzi non sottace le conseguenze sociali indesiderate di queste ultime misure. Al contrario, in questi casi, come in relazione agli sviluppi più recenti, la trattazione è sempre molto equilibrata.

    Non è questa la sede per entrare in modo dettagliato nell’esposizione che Bertozzi fa dello sviluppo della politica di riforme e apertura nel corso dei decenni. Segnalo però l’importanza delle pagine dedicate a piano e mercato, da Deng non più contrapposti ma giudicati entrambi strumenti di politica economica, al pari del resto delle forme di proprietà, pur rimanendo la proprietà pubblica centrale anche dal punto di vista della Costituzione. Più di recente Xi Jinping, l’attuale presidente della Repubblica Popolare Cinese, ha detto che la mano invisibile del mercato (secondo la nota metafora di Adam Smith) deve accompagnarsi alla mano visibile dello Stato, che ha per l’appunto nelle società di proprietà pubblica un suo essenziale braccio esecutivo.

    La stessa iniziativa della Nuova Via della Seta (Belt & Road Initiative), lanciata nel 2013, a ben vedere rappresenta un buon esempio di mix tra dinamiche di mercato e programmazione di lungo periodo. Anche su questa iniziativa – alla quale Bertozzi ha dedicato una monografia specifica³ – il libro fornisce le indicazioni essenziali per orientarsi. In ogni caso, anche a questo riguardo, più ancora che per le informazioni di cui è ricco, questo libro spicca su altri lavori recenti sulla Cina per l’approccio, sempre orientato a capire gli sviluppi e le dinamiche di lungo periodo sottesi agli eventi di cui si ha notizia.  È questa la caratteristica principale che fa de La Cina popolare il miglior testo sulla Cina a disposizione del lettore italiano. 

    Vladimiro Giacché

    Anniversari in un mondo che cambia: un’introduzione

    Il 2014 è stato l’anno del centenario dello scoppio della prima guerra mondiale (per l’Italia si è dovuto attendere il 2015); un anniversario che in Europa è stato occasione per riflessioni, commemorazioni, cerimonie, pubblicazioni, ricerche e una buona dose di retorica, quest’ultima politicamente indirizzata a rivitalizzare il ritratto un poco sgualcito dell’Unione europea, figlia di un progetto di integrazione continentale concepito proprio per evitare che altre guerre coinvolgessero le potenze del Vecchio Continente, che altri nazionalismi si scatenassero l’un contro l’altro.

    L’anno successivo l’atmosfera cambia radicalmente. Un altro anniversario – il settantesimo della fine del secondo conflitto mondiale – riceve dalle nostre parti un’attenzione diversa, di certo minore, produce persino un po’ di fastidio, è oggetto più di polemiche che di ricostruzioni storiche, di anatemi più che di confronti, quasi non appartenga alla nostra storia di europei, come se l’antifascismo che aveva animato idealmente la coalizione delle Nazioni Unite sia ormai nulla più che una retorica superata.

    Ma cosa mostra questa differenza? Il graduale, ma sempre più visibile, mutamento degli equilibri mondiali verso una soluzione multipolare, al quale si accompagna inesorabilmente anche la richiesta del pieno riconoscimento di altre memorie, del ruolo ricoperto da altri Paesi in momenti cruciali e fondativi dell’architettura normativa e istituzionale della comunità internazionale – come quella che ancora viene ricordata come la guerra mondiale antifascista – fino a oggi poco raccontati e altrettanto poco conosciuti (o dimenticati) da un’opinione pubblica via via più globale. Ma non solo: a dividere le memorie, a spezzare con una cortina di ferro celebrazioni e commemorazioni, c’è anche una riedizione della guerra fredda che vede contrapporsi l’Occidente riunito nella Nato alla Russia dello zar Putin e alla Cina governata da un Partito comunista.

    Proprio Mosca e Pechino sono state le due capitali della commemorazione della fine della seconda guerra mondiale, con i rispettivi governi che in più occasioni hanno ricordato le sofferenze e gli sforzi intrapresi dai propri popoli per sconfiggere il fascismo rappresentato dalla Germania hitleriana e dal Giappone imperiale; hanno ribadito il proprio impegno nel contrastare ogni revisionismo e tentativo di riabilitazione di un passato di profonde umiliazioni e condannato il ritorno sulla scena di movimenti politici nazionalisti, xenofobi e violenti quando non apertamente fascisti. Se da una parte la Russia ha vissuto e vive con apprensione il ruolo attivo svolto da formazioni di estrema destra nel rovesciamento in Ucraina del governo di Janukovič,⁵ dall’altra Pechino si confronta con un Giappone che, nell’ambito dell’alleanza militare con gli Stati Uniti, sta rivedendo i dettami pacifisti della propria Costituzione.

    È stata soprattutto la Cina popolare a rivendicare un pieno riconoscimento del ruolo svolto in entrambi i conflitti, soprattutto nella positiva conclusione del secondo, con la chiara intenzione di ribadire il nuovo status di potenza globale con pieno diritto di incidere sulla costruzione di un nuovo ordine mondiale. Se per quanto riguarda la prima guerra mondiale si è riportata alla luce la storia degli oltre cento mila lavoratori cinesi che sono stati utilizzati nelle trincee e nelle retrovie europee (ma non solo) a sostegno dello sforzo bellico di Francia e Gran Bretagna, sulla seconda si è, invece, rivendicata la piena appartenenza al campo delle potenze vincitrici, anche alla luce del sacrificio sopportato nello scontro con l’imperialismo giapponese, a partire dagli anni Trenta. Una volontà che ha avuto rappresentazione nella sfilata militare in piazza Tienanmen, il 3 settembre 2015, per celebrare il Giorno della vittoria alla quale, a simboleggiare lo sforzo nazionale sostenuto contro le truppe occupanti e sottolineare l’unità del popolo cinese nella lotta, sono stati invitati anche i veterani del Kuomintang, gli ex nemici nazionalisti riparatisi a Taiwan al termine della guerra civile. Come ha più volte ricordato lo storico Rana Mitter, in Occidente «pochi si ricordano di un fatto storico che è alla base della cerimonia: la Cina è stato il primo paese a entrare in quella che sarebbe diventata la seconda guerra mondiale, ed è stato l’alleato degli Stati Uniti e della Gran Bretagna a partire da Pearl Harbor del 1941 fino alla resa dei giapponesi nel 1945»; un buco nella memoria che – sempre secondo lo storico – «sta creando sempre più risentimento nei confronti di un Occidente che non vuole riconoscere come la Cina sia stata di per sé un attore importante per la vittoria degli Alleati».

    Soffermiamoci su questo anniversario proprio per le implicazioni connesse e le reazioni prodotte a livello internazionale. Per lo studioso e sinologo statunitense Sidney Ritter la decisione di organizzare per la prima volta in pompa magna la sfilata militare ha rappresentato una sorta di coming out della Cina popolare come grande potenza globale, una dichiarazione aperta sul ruolo che essa intende ricoprire e sugli interessi nazionali e strategici che vuole difendere e vedere riconosciuti.

    Largamente condivisa nella comunità degli studiosi e degli osservatori, è la duplice lettura, interna ed esterna, dell’evento. La dirigenza cinese – la quinta generazione rappresentata dal presidente della Repubblica e segretario del Partito comunista Xi Jinping – ha lanciato diversi messaggi tanto al proprio popolo, quanto alla comunità internazionale. Da un lato una leadership politica che si è mostrata saldamente al comando e unita – accanto a Xi Jinping c’erano i predecessori Hu Jintao e Jiang Zemin – e con un fermo controllo sull’apparato militare, ha voluto risvegliare l’orgoglio e la dignità nazionale di un popolo che si è lasciato definitivamente alle spalle il secolo dell’umiliazione, inscenando una sorta di «trionfo nazionale per il cittadino cinese»,⁸ e con la certezza di non subire più sofferenze come quelle patite a partire dal 1937: «La vittoria della guerra cinese popolare di resistenza contro l’aggressione giapponese è la prima vittoria completa della Cina nella sua resistenza contro l’aggressione straniera in epoca moderna. Questo grande trionfo ha schiacciato il progetto dei militaristi giapponesi di colonizzare e schiavizzare la Cina e posto fine all’umiliazione nazionale cinese e alla serie di sconfitte consecutive per mano di aggressori stranieri in tempi moderni. Questo grande trionfo ha ristabilito la Cina nel suo ruolo di paese importante nel mondo e ha portato al popolo cinese il rispetto delle persone amanti della pace in tutto il mondo».⁹

    Dall’altro, in un’atmosfera di boicottaggio con Stati Uniti, Europa e Giappone che hanno preferito non essere rappresentati da capi di governo o di Stato per evitare di dare credito a una dimostrazione di forza dai toni anti-nipponici, è stata l’occasione per mostrare l’avanzamento tecnologico delle proprie forze armate e al contempo annunciare il taglio di 300 mila soldati, primo passo di una riforma dell’apparato militare che si sarebbe sviluppata velocemente nelle settimane successive, presentandolo come ulteriore dimostrazione della volontà di pace dell’ex Celeste impero: «Nell’interesse della pace, la Cina continuerà ad impegnarsi per uno sviluppo pacifico. Noi cinesi amiamo la pace. Per quanto forte possa diventare, la Cina non cercherà mai l’egemonia o l’espansione. Non sarà infliggerà mai la sua sofferenza passata a qualsiasi altra nazione. Il popolo cinese ha deciso di portare avanti relazioni amichevoli con tutti gli altri paesi, sostenere i risultati della prima guerra del popolo cinese di resistenza contro l’aggressione giapponese e la guerra antifascista, e dare un maggiore contributo all’umanità».

    La riproposizione di temi come quelli dell’ascesa pacifica e dell’opposizione a ogni tentativo egemonico o alla politica di potenza, che da tempo costituiscono le direttrici dell’azione diplomatica cinese, è stata tuttavia valutata in Occidente, soprattutto in ambito Nato, come nulla più che una mascheratura ideologica di un progetto di rafforzamento militare che punta allo stravolgimento degli equilibri del Sud-est asiatico, al ripristino di un secolare predominio cinese. E la parata militare è stata interpretata, pressoché unanimemente, dai maggiori organi di stampa come ulteriore dimostrazione di una crescente assertività del gigante asiatico, di un progressivo allontanamento dalla prudenza in politica ereditata da Deng Xiaoping e la cancellazione della tradizionale linea del «basso profilo».¹⁰ L’autore in questione, nel sostenere la teoria della minaccia cinese, sorvola sul dispiegamento militare in atto da parte statunitense, con riattivazione di tradizionali alleanze, volto ad accerchiare la Cina e mantenere il predominio e il controllo sulle rotte marittime, e sulle conseguenti preoccupazioni di Pechino per la propria sicurezza politica ed economica. Una preoccupazione che data ormai da molto lontano, dalla guerra del 1999 condotta dalla Nato contro la Jugoslavia per il Kosovo,¹¹ che ha visto la Nato agire unilateralmente al di fuori dei propri confini di competenza e, soprattutto, scavalcando l’Onu. E che successivi interventi in Libia e il sostegno alla ribellione anti Assad in Siria hanno ulteriormente confermato.

    Sullo sfondo di una sorta di rinnovata guerra fredda, il recupero delle altre memorie – nello specifico di quella cinese – riveste un’importanza fondamentale per il reciproco riconoscimento e per l’instaurazione di un dialogo proficuo. Il viaggio lungo un secolo di storia della Cina contemporanea permette di comprendere priorità, timori e direttive strategiche del Partito comunista cinese (Pcc) e del governo del gigante asiatico, tanto in politica interna che nella proiezione estera. Tanto più che proprio il precedente storico riveste un ruolo importante nella riflessione politica della dirigenza locale e ricorre spesso nel discorso pubblico in coincidenza con decisioni ritenute fondamentali, oppure per dare una solida giustificazione a svolte politiche.

    Solo ripercorrendo le tragedie del colonialismo e dell’imperialismo che hanno umiliato la Cina e la sua antica civiltà si può capire la costante attenzione rivolta alla difesa di una sovranità nazionale faticosamente ritrovata e di un modello economico che, attraversando anche tragedie e fallimenti, ha garantito sempre più il diritto alla vita a una immensa popolazione che ancora alla metà del secolo scorso era vittima di carestie e del sottosviluppo. Una sostanziale continuità caratterizza, da Sun Yat-sen a Xi Jinping, passando per Mao e Deng Xiaping, la politica estera cinese (ma il legame con il controllo interno è assoluto) che ha perseguito soprattutto l’unità, la sicurezza, la sovranità e l’indipendenza del Paese. E il Partito comunista, al governo dal 1949, si rappresenta proprio come la forza politica, rivoluzionaria e nazionale, che ha raccolto il testimone di una lunga lotta contro l’umiliazione nazionale portandola al successo. Un successo – vale la pena ricordarlo – mai dato per definitivamente acquisito in un Paese che presenta ancora forti contraddizioni sociali e sacche di povertà.

    Le radici del socialismo cinese: dall’umiliazione alla nuova Cina

    Un passo indietro: le tappe della umiliazione nazionale

    «Ci troviamo agli albori di una nuova era, l’era del libero mercato, i cui uomini saranno come me e lei, liberi mercanti che si sono fatti da sé. Se mai c’è stato un tempo favorevole per un giovanotto bianco intenzionato a cercare fortuna in oriente, ebbene, questo tempo è il nostro. Immagino sia al corrente che presto verrà inviato in Cina un corpo di spedizione. Per come la vedo io, è solo questione di mesi prima che il più grande mercato del mondo venga costretto ad aprirsi dalle truppe che si stanno radunando in questa città. Quando ciò accadrà, anche i tiranni manchu che sono l’ultimo ostacolo rimasto all’universale predominio della libertà, verranno spazzati via. Dopo la loro caduta vedremo sorgere un’epoca in cui i disegni di Dio si renderanno manifesti. Coloro che sono stati predestinati a prosperare avranno ciò che spetta loro e otterranno la custodia delle ricchezze di tutto il mondo».

    A pronunciarsi così è il britannico Mr. Burnham, personaggio del romanzo Diluvio di fuoco di Amitav Ghosh, alla vigilia della spedizione militare britannica che sarebbe passata alla storia come prima guerra dell’oppio (1839-1842) e che avrebbe cambiato il corso degli eventi di un Celeste impero che, ancora alla fine del Settecento, era da considerarsi il Paese più prospero, ordinato e stabile del mondo. Un discorso di fantasia certo – ma Ghosh ha scandagliato certosinamente archivi e diari per dare sostanza e spessore alla sua voluminosa produzione romanzesca –,che riassume, però, bene la logica alla base della prima di una lunga serie di aggressioni militari che, dopo aver aperto con la violenza il mercato cinese all’oppio, avrebbero costretto Pechino ad accettare un susseguirsi senza fine di amputazioni territoriali, cessioni di sovranità e umiliazioni: superiorità dell’Occidente (culturale quanto tecnologico-militare), missione di civiltà in spalle all’uomo bianco e libero mercato come sbocco di un disegno divino per l’umanità.¹² Illuminanti sono le parole – reali questa volta – del ministro degli Esteri britannico lord Palmerston, per il quale questa guerra dall’esito scontato «forgerà un’epoca di progresso per la civilizzazione delle razze umane».¹³ L’immagine stessa della Cina è cambiata: da Paese modello degno d’imitazione, retto da re-filosofi ed esempio di saggezza, stabilità ed espansione culturale, via via subisce una rappresentazione opposta che la inchioda a una condizione di decrepitezza e immobilità; di fronte al progresso occidentale c’è solo una «vecchia instabile nave da guerra di prim’ordine» ormai destinata alla deriva, tanto che sarebbe bastato un paio di fregate inglesi per «annientare completamente tutto il traffico navale costiero» e ridurre gli abitanti delle province litoranee «alla fame più completa», come aveva in precedenza riportato l’inviato britannico lord Macartney.¹⁴

    Se alla Gran Bretagna l’impresa bellica permette di riequilibrare favorevolmente la bilancia commerciale con l’impero cinese, quest’ultimo vede formarsi la prima vistosa crepa nell’edificio di una secolare centralità in Asia. Il brutale impatto con la logica delle relazioni internazionali e dei rapporti internazionali stravolge una concezione, come quella sinocentrica, che poneva la Cina in una posizione di superiorità nei confronti dei vicini: «Il mondo è considerato quadrato, mentre il cielo è circolare. La proiezione del Cielo inscrive un cerchio sulla superficie della terra, la zona sotto il cielo (tianxia), dove è situato l’Impero cinese, che solo, in tutta la terra, gode degli effluvi celesti. I quattro settori esterni, i quattro mari, che ne sono privi, sono dimora dei barbari stranieri, dei demoni, dei mostri marini. Ne consegue che ai capi politici di tali popoli esterni non è possibile, per motivi di principio, di entrare in contatto, su un piano di parità, con l’imperatore […]».¹⁵

    Una posizione di primazia rappresentata dall’invio a Pechino di un tributo in cambio della garanzia di protezione da parte dell’imperatore (il figlio del cielo o tainzi), il cui ruolo nel sistema politico tradizionale è quello di intermediario tra natura e società umana e responsabile dell’adeguamento di quest’ultima alla prima, pena la perdita della legittimità a governare (il Mandato del cielo), così come dalla

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