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Reddito di cittadinanza. Una antologia
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E-book725 pagine10 ore

Reddito di cittadinanza. Una antologia

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Info su questo ebook

Il volume è una antologia, con testi che vanno da Plutarco a Martin Ford, nella quale i diversi autori, riflettendo sui cambiamenti economici e tecnologici, sostengono la necessità, pur con diverse argomentazioni, dell’istituzione di un reddito di cittadinanza.
LinguaItaliano
EditoreLicosia
Data di uscita8 feb 2022
ISBN9788899796488
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    Anteprima del libro

    Reddito di cittadinanza. Una antologia - Nunziante Mastrolia

    Introduzione

    di Nunziante Mastrolia

    Questa antologia ha un doppio obiettivo. Da una parte quello di mostrare come la necessità di un reddito di cittadinanza a chi è rimasto indietro, o quanto meno di un sostegno finanziario generalizzato, è una questione non nuova e soprattutto non esclusiva di una singola parte politica.

    Dall’altra mostrare che le ragioni che hanno indotto gli autori a sostenere la necessità di un reddito di cittadinanza sono varie ed evolvono nel tempo. Qui si vuole porre l’accento su quelle ragioni che, a parere di chi scrive, fanno del reddito di cittadinanza una necessità certo economica ma soprattutto politica e non soltanto, come pure molti autori giustamente sostengono, un dovere morale di solidarietà verso i propri simili.

    Qui si vuole sostenere una tesi diversa e cioè che garantire a tutti di che vivere è cosa necessaria a preservare quelle condizioni istituzionali e politiche che sono proprie di una società aperta. Quelle condizioni che sono alla base dello straordinario progresso sociale e dello strabiliante sviluppo economico dell’Occidente e dei popoli che hanno adottato il modello occidentale.

    Per dirla in maniera diretta, senza un reddito di cittadinanza le liberal-democrazia occidentali rischiano di tramutarsi nel loro opposto, vale a dire in regimi autoritari, siano essi di uno solo, di pochi o dei più. E nel momento in cui collassano quelle architetture istituzionali fatte di nomocrazia, divisione dei poteri, pluralismo, diritti individuali, secolarizzazione, democrazia con esse crolla anche quelle istituzioni economiche che hanno creato il miracolo occidentale.

    Sta, infatti, conquistando un consenso crescente la tesi che la chiave della ricchezza delle nazioni vada individuata, capovolgendo la tesi di Marx, in quelle infrastrutture istituzionali proprie di una società aperta. Basti a tale proposito citare il successo planetario del libro di Acemoglu e Robinson, Why Nations Fail¹ che ha il merito di dare una dimostrazione geografica alla tesi del primato istituzionale, mostrando come il confine che separa una società aperta da una società chiusa coincide con il confine che separa il benessere economico dal sottosviluppo. In altri termini, là dove vi è un sistema politico di tipo autoritario là non vi può essere sviluppo economico e progresso sociale².

    Si badi tuttavia che questa tesi è antica e blasonata e tra i suoi sostenitori vi è Polibio, che nelle Storie individua la causa della straordinaria crescita di Roma nella sua conformazione istituzionale, una repubblica per l’appunto. È una tesi che è nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio del Machiavelli nei quali – non a caso - riecheggia Polibio: «tutto viene dal vivere libero allora» scrive il Segretario fiorentino analizzando le ragioni dell’ascesa di Roma, mentre tutti i mali vengono «dal vivere servo»³. Per inciso è stupefacente come Machiavelli, che ha sempre parteggiato per la repubblica, venga considerato il teorico del potere assoluto o addirittura tirannico.

    È, inoltre, una tesi che è presente in Adam Smith che scrive «quando [le persone] sono sicure di poter godere i frutti della propria attività, esse cercano naturalmente di praticarla allo scopo di migliorare la loro condizione e di ottenere non soltanto le cose necessarie ma anche quelle che fanno agio e la raffinatezza della vita»⁴.

    Dunque, la fonte della ricchezza e del progresso è la libertà tutelata dal diritto, vale a dire la società aperta. La stasi e la stagnazione sono il prodotto del dispotismo del potere, vale a dire la società chiusa. Quindi, lo sviluppo economico è una variabile dipendente dell’assetto istituzionale e ciò vuol dire che se una particolare conformazione istituzionale garantisce le libertà dei moderni, la crescita economica si realizza spontaneamente⁵⁵. In questo modo si spiega perché le nazioni ricche siano diventate ricche e le nazioni povere siano rimaste povere.

    Là dove il diritto ha la forza di garantire ai più i più ampi margini di libertà e là dove le istituzioni politiche garantiscono ai più la partecipazione alla gestione della cosa pubblica, là lo sviluppo economico sgorga naturalmente. Al contrario là dove il potere politico non trova di fronte a sé alcun limite e là dove l’arbitrio del potere può impunemente privare un qualsiasi uomo dei frutti del proprio lavoro, là prospera il sottosviluppo e la stagnazione.

    È, dunque, nella forza di quei diritti, che tutelano le libertà elaborate e conquistate nei secoli dalla tradizione liberale, che va individuata la spiegazione di quella che è la miracolosa crescita dell’Europa e dell’Occidente.

    E, infatti, non è un caso se per Max Weber a fare l’Occidente moderno siano state cinque grandi rivoluzioni e cioè «quelle italiane delle XII e XIII secolo, quella inglese del XVII secolo, quella americana e quella francese delle XVIII secolo»⁶. C’è un elemento che accomuna questi passaggi della storia occidentale: tutte e cinque furono rivoluzioni politiche con le quali si costituzionalizzarono, in documenti scritti, le libertà liberali. La rivoluzione comunale italiana produce gli Statuti comunali⁷; la gloriosa rivoluzione il Bill of Rights del 1689⁸; la rivoluzione americana la Dichiarazione di Indipendenza del 1776, la Costituzione e il Bill of Rights del 1789⁹; quella francese la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e la Costituzione liberale del 1791¹⁰.

    Alla base, dunque, del miracolo occidentale vi è una serie di rivoluzioni giuridiche con le quali si forgia quella struttura istituzionale che è la vera fonte dello sviluppo occidentale, dalla quale sgorga quel tumultuoso sviluppo economico che è il capitalismo.

    Tuttavia non bisogna commettere l’errore di pensare che la storia dell’Occidente sia esclusivamente una cavalcata vittoriosa verso nuovi e sempre più alti livelli di complessità tecnologica e di sviluppo economico. Al contrario, se si allarga lo sguardo anche al mondo antico, e si osserva sotto un’altra prospettiva il primo Rinascimento italiano, si può notare come la storia dell’Occidente è anche fatta di crolli, di vicoli ciechi, di lunghissime fasi di stagnazione.

    La repubblica romana, che nell’assetto istituzionale aveva trovato la chiave del suo successo, crolla e dalle sue ceneri nasce quell’impero che ne è l’antitesi. L’Atene che seppe vincere i Persiani e tracciare un confine netto tra Oriente ed Occidente, che fu per Tucidide scuola dell’Ellade e che per prima, per Constant, sperimentò la libertà dei moderni, fu sconfitta dalle armi di una Sparta che è entrata nell’immaginario collettivo come lo Stato caserma ante litteram. Una sconfitta dalla quale l’intera Grecia non si risolleverà mai più e su di essa si allungheranno le ombre prima delle satrapie orientali poi del giogo romano.

    Stessa sorte toccherà alle repubbliche comunali italiane che, uscite per prime dal medioevo, seppero dare vita al primo Rinascimento, per poi cadere anch’esse sotto il giogo delle dittature cittadine delle varie signorie.

    Resta allora da spiegare perché Roma, Atene, e le città repubbliche italiane dopo aver imboccato la strada giusta hanno improvvisamente deviato dal proprio percorso. Perché dopo aver sperimentato la libertà dei moderni, si sono lanciate tra le braccia del dispotismo e scelto pertanto la via del declino economico? Quali sono i fattori che conducono al collasso di una società aperta?

    Il mercato quale fonte di ricchezza e di miseria

    Si è detto che data una particolare conformazione istituzionale (una società aperta) lo sviluppo economico (o capitalismo) sgorga naturalmente. Tuttavia, se è vero che il capitalismo ha prodotto ricchezze sconosciute ai secoli passati, è altrettanto vero che la lotta per la ricchezza e la sopravvivenza produce vinti e vincitori.

    Così, lavorata dal mercato e dalle logiche del capitalismo una società subisce un processo di polarizzazione economica e sociale, che ne lacera profondamente la struttura; il ceto medio si sfalda; i più scivolano verso il basso mentre una piccola frazione della popolazione riesce ad accrescere le proprie ricchezze, ad ascendere economicamente e socialmente.

    È questo un fenomeno che si produce naturalmente e che può essere osservato ovunque le logiche del libero mercato siano state dominanti, anche nella Roma repubblicana del I secolo a.C., dove la piccola proprietà viene fagocitata dal latifondo, e il piccolo proprietario si trasforma in bracciante; o nella Firenze medievale e rinascimentale, dove il piccolo artigiano, perso il proprio telaio, si trasforma in salariato. Nel complesso il risultato, già osservato da Marx, è il formarsi di «più capitalisti o più grossi capitalisti a questo polo, più salariati a quell’altro»¹¹. Il che poi equivale a dire che si ha una «accumulazione di miseria adeguata all’accumulazione di capitale»¹², o per usare le parole di Keynes, il paradosso «della povertà in mezzo all’abbondanza»¹³.

    Il mercato dunque genera contemporaneamente ricchezze delle meraviglie e questioni sociali. Non a caso dopo la sconfitta di Cartagine, Roma sperimenta una straordinaria fase di sviluppo economico a fianco al quale cammina, quasi di pari passo, una gigantesca questione sociale. Così ad Atene dopo la vittoria sui Persiani e così nei comuni italiani tra l’XI e il XII secolo.

    Ecco allora un primo indizio: dietro il collasso di quelle prime esperienze di società aperta vi è una questione sociale, prodotta automaticamente dalle forze del mercato e dall’assenza di politiche correttive pubbliche. I tentativi di riforma di Tiberio Gracco furono stoppati. Allo stesso modo, a Firenze i Ciompi furono macellati sulla pubblica piazza. Falliti i tentativi riformisti, vedono la luce politiche di tipo populistico che non fanno altro che peggiorare le cose: basti pensare alle frumentationes, vale a dire la distribuzione gratuita, o a prezzi agevolati, di grano ai cittadini di Roma; o alla mistoforia, vale a dire il provvedimento voluto da Pericle con il quale si stabiliva un’indennità giornaliera per i cittadini che ricoprivano pubblici uffici ad Atene.

    In sintesi, le leggi che regolano il mercato e che garantiscono lo sviluppo economico sono le stesse che producono disfunzioni sociali, vale a dire il sorgere di una questione sociale. Bisogna ora chiedersi che cosa si debba intendere per questione sociale.

    La questione sociale è un fenomeno complesso che si compone essenzialmente di due elementi. Uno statico, vale a dire una accentua polarizzazione economica e sociale, il che significa l’assenza di una ricca e robusta classe media. Ed un elemento dinamico, vale a dire l’impossibilità per chi si trova in basso di poter riscattare e migliorare la propria sorte. Il che in linea generale significa l’assenza di appigli istituzionali su cui fare leva per poter sfuggire alla povertà e cioè, per limitarsi a qualche esempio, una scuola pubblica e una sanità pubblica. In sintesi, si ha una questione sociale quando si ha la presenza di una marcata polarizzazione economica e vi è l’assenza di Stato sociale.

    Ciò significa che oltre alla polarizzazione economia e sociale, all’assenza di una mano pubblica, che curi gli effetti negativi, che insieme a quelli positivi, il mercato naturalmente produce, consustanziale ad una questione sociale è la disperazione dei più. Disperazione nel senso letterale: vale a dire la perdita di speranza in un futuro migliore per sé e i propri figli.

    Ciò significa anche qualcos’altro: vale a dire il fatto che la sola crescita economica, per quanto intensa e sostenuta nel tempo non è in grado, essa sola, di guarire le disuguaglianze economiche e sociali; la ricchezza prodotta nelle fasi di sviluppo, in assenza di correttivi (come ad esempio associazioni sindacali che chiedono aumenti salariali o una redistribuzione degli utili), scivolerà dalle dita dei più per andarsi a rifugiare tra le braccia di pochi.

    Se quanto si è detto sinora è corretto, allora si può affermare che la causa della povertà e dell’abbondanza, di quella accumulazione di miseria pari all’accumulazione di capitale, è una ed una sola e cioè il mercato. È anzi il perfetto funzionamento delle leggi di mercato, e non qualche loro particolare disfunzione, che produce ricchezza e miseria contemporaneamente, vale a dire disuguaglianze economiche e sociali. La concorrenza perfetta produce polarizzazione economica e sociale, tende al monopolio e se «si lascia libero gioco al laissez faire, laissez passer, - le parole sono di Einaudi - passano soprattutto gli accordi e le sopraffazioni dei pochi contro i molti, dei ricchi contro i poveri, dei forti contro i deboli, degli astuti contro gli ingenui»¹⁴.

    Ora, tutto ciò potrebbe non turbare affatto un liberista ortodosso, che ha fede nella transustanziazione dell’interesse privato in benessere pubblico, il quale potrebbe anzi sostenere che sono proprio le disuguaglianze sociali una delle molle fondamentali del progresso; sono esse la meta per chi sta in basso a cui tendere; sono esse che nutrono le aspirazioni e le ambizioni; e sono esse che dischiudono le porte dell’agiatezza e del benessere a tutti gli uomini di buona volontà. Il risultato complessivo – può sostenere un liberista ortodosso - è che le disuguaglianze prodotte dal mercato si ridurranno spontaneamente nel lungo periodo, la ricchezza sgocciolerà verso il basso e l’armonia sociale si ricomporrà ad un livello superiore in un continuo crescendo.

    Così, le lotte per la sopravvivenza e la ricchezza all’interno del mercato, le ingiustizie, le prepotenze, l’avidità, lo stridore della povertà e dell’abbondanza all’interno di una stessa società si ricomporranno naturalmente nell’armonia superiore di un accresciuto benessere generale e di un più avanzato progresso sociale: in ciò consiste essenzialmente l’atto di fede del liberista.

    Ebbene tutto ciò è falso, non solo non esiste all’interno di un’economia di mercato un meccanismo in grado di ridurre le disuguaglianze, ma col tempo queste si accrescono, con il risultato che i vizi privati restano tali, senza tramutarsi spontaneamente in pubbliche virtù. Non solo, ma la ricchezza che fu il prodotto dell’imprenditore di genio, dell’audacia del visionario, della dedizione, del sacrificio e del lavoro o di una intuizione brillante si trasforma in rendita, che è l’esatto contrario dello spirito imprenditoriale ed una barriera costante e spesso invalicabile per coloro che vivono soltanto del proprio lavoro.

    C’è di più: chi vive di rendita guadagna di più di chi vive del proprio lavoro. Thomas Piketty ha due grandi meriti, il primo è quello di aver provato, dati alla mano, che quello che è sempre stato un sospetto (e forse anche di più) di partiti ed intellettuali di sinistra, e cioè che il mercato lasciato a se stesso produce crescenti disuguaglianze e polarizzazioni economiche e sociali, è una realtà; ed, inoltre, ha il merito di aver dimostrato, dati alla mano, come i proventi della rendita sono maggiori, in un rapporto di cinque a uno, rispetto ai proventi del lavoro. Il che significa che chi vive del proprio lavoro vedrà sempre più accrescersi la distanza che lo separa da chi vive di rendita. Le distanze sociali tenderanno così ad accrescersi e la mobilità sociale si azzererà.

    Pertanto nulla può fare il mercato per rimediare a tale problema: «la concorrenza pura e perfetta non potrà recare alcun cambiamento alla disuguaglianza r>g, la quale non deriva in alcun modo da una imperfezione del mercato o della concorrenza, semmai il contrario»¹⁵, «più il mercato del capitale è perfetto, nel significato che gli economisti danno a questo aggettivo, più è probabile che la disuguaglianza si verifichi»¹⁶. Pertanto, le disuguaglianze, diversamente da quanto l’ottimismo liberista professa, si accrescono anziché ridursi, in assenza di interventi correttivi non soggetti alla logica del mercato, quali ad esempio una sanità pubblica ed una scuola pubblica.

    Si immagini ora una società nella quale non esiste alcuna forma di intervento pubblico, nella quale non esiste una scuola pubblica né un sistema sanitario pubblico¹⁷. È evidente che in una società siffatta la quantità di cultura, scienza e salute che il singolo cittadino può comprare è determinata dalla quantità dei propri averi. Il che significa che gli strumenti necessari al progresso di quella società (scienza e salute) sono disponibili solo per una piccola frazione della sua popolazione, di conseguenza gli ingegni potenziali di chi è senza denaro non verranno mai coltivati e le loro vite saranno costantemente in balia delle malattie e dei colpi della sorte¹⁸. Il che si traduce in una perdita netta per quella società in termini di ingegni, intraprendenza, talenti. Pertanto, è logicamente impossibile sostenere che le disuguaglianze possano essere volano di progresso.

    Le disuguaglianze economiche e sociali, pertanto, in nessun modo possono essere considerate un fattore di progresso, ma l’esatto contrario. Più che progresso si produce una questione sociale che, sulla base di quanto si è detto sinora, è caratterizzata da due elementi: il primo, una crescente disuguaglianza tra i pochi che stanno in alto e i molti che scivolano verso il basso; il secondo, l’assenza di appigli a disposizione di coloro che stanno in basso perché possano risalire la china: ad esempio scuola pubblica, assistenza sanitaria, assicurazione contro i colpi della sorte o della vita, cosicché chi è in basso resterà in basso o continuerà a scivolare sempre più in basso verso la disperazione sociale.

    Se quanto si è detto sinora è corretto allora si può sostenere che il sorgere di una questione sociale è un fenomeno spontaneamente prodotto dal libero gioco delle forze del mercato, in assenza di strumenti correttivi da parte di agenti estranei alle logiche della produzione e della libera concorrenza.

    Questioni sociali e conseguenze politiche

    Una questione sociale non risolta non solo aggrava ulteriormente la situazione economica del paese che ne è colpito ma rischia di avere anche serissime conseguenze politiche.

    Le grandi rivoluzioni liberali hanno prodotto quella società aperta che è il requisito necessario perché il capitalismo possa sorgere. Data dunque una particolare conformazione politica, istituzionale e sociale lo sviluppo economico, come si è detto, sgorga spontaneamente. Si genera una grande trasformazione che produce contemporaneamente ricchezza e miseria, vale a dire lo sfaldamento del ceto medio (in assenza di strumenti politici e sociali correttivi) e la concentrazione della ricchezza in poche mani. Si forma così una vera e propria questione sociale, il che significa che la maggioranza della popolazione non solo si impoverisce ma rischia di perdere la speranza di poter migliorare la propria sorte.

    A questo punto una questione sociale non risolta impatta sulla sfera politica, i diseredati premono sui pubblici poteri perché la questione sociale venga risolta dato che «la distribuzione delle risorse e la ripartizione dei redditi da parte del mercato – senza intervento democratico – produ[cono] un’insicurezza economica radicale che nessuna società può tollerare stabilmente senza reazioni di tipo violento»²⁰.

    Tale pressione può acquisire diverse conformazioni e può produrre diverse reazioni da parte dei detentori del potere politico.

    Un primo modo attraverso il quale la questione sociale si traduce a livello politico è quello in cui è la stessa massa dei diseredati che prende il potere politico e lo usa al fine esclusivo di alleviare nell’immediato la propria sorte e placare in qualche modo la propria fame, senza curarsi affatto della salute e della tenuta di quella architettura liberale che pur aveva prodotto sviluppo economico: «nelle sommosse – scrive Ortega y Gasset – che la carestia provoca, le masse popolari cercano di procurarsi il pane, e il mezzo a cui ricorrono suole essere quello di distruggere i panifici»²¹. Questo è quello che potremmo definire il governo della folla, o oclocrazia, quando cioè è la massa dei poveri e degli sconfitti della grande trasformazione che regge direttamente le sorti della città. Una variante è il governo indiretto della folla, quando cioè essa governa per procura e si ha allora il populismo. In questo senso si può dire che la democrazia sta al popolo come il populismo sta al volgo, dove l’elemento essenziale che distingue il popolo dal volgo è che quest’ultimo non è libero dal bisogno, dalla fame e soprattutto dispera di poter migliorare con le proprie mani la propria sorte.

    Per inciso, si noti che è con la categoria dell’oclocrazia che si spiega il progressivo indebolimento della democrazia ateniese. Lavorata da quella grande trasformazione che si amplificò dopo la sconfitta dei persiani, Atene si era trasformata da una «democrazia oplitica», vale a dire di possidenti, in una «democrazia radicale», come la definisce Domenico Musti, dove anche i non proprietari avevano accesso all’assemblea e ai tribunali. È in questo modo che Atene cade sotto il governo di una folla povera, che ha come unico pensiero quello di riempire il proprio stomaco.

    Vi è poi una seconda strada attraverso la quale la tirannide può giungere al potere: la moltitudine che, consapevole del proprio decadimento economico e sociale, teme la fame e dispera ormai in un futuro migliore per sé e i propri figli, è disposta ad offrire il proprio braccio e la propria mente, spogliandosi volontariamente dei propri diritti di cittadino di una società aperta, a chiunque prometta ad essa il pane ed una speranza per il futuro, vale a dire a chiunque prometta una soluzione rapida di quella questione sociale che avvelena l’esistenza dei più.

    Ciò significa che la tirannide è il prodotto di una questione sociale non risolta. Una questione sociale che, a sua volta, è il prodotto di un mercato lasciato a se stesso. Einaudi è dello stesso parere: «la pura società economica di concorrenza è pronta alla sua trasformazione o degenerazione nel collettivismo puro»²² o per dirla in altri termini: «come la perfetta democrazia sbocca nello Stato collettivistico, così la perfetta concorrenza sbocca nel sistema economico collettivistico»²³.

    Sono le masse vittime della questione sociale, uscite sconfitte dalla grande trasformazione che invocano, e spronano, e magnificano alla luce del sole il tiranno: «Segno caratteristico dello Stato collettivistico di antica e nuova specie – scrive Röpke - è che esso è portato su dai marosi di ampi movimenti di massa: cuncta plebs novarum rerum studio Catilinae incepta probabat»²⁴.

    Ora, la soluzione prospettata dalle vittime della grande trasformazione è semplice ed apparentemente logica. Se la causa della questione sociale, vale a dire l’impoverimento dei più, è, come è, il mercato ed il sistema economico che su di esso si è edificato, la soluzione non può che essere quella di abbattere il capitalismo ed abolire la proprietà privata, in nome della giustizia sociale, al fine di risolvere la questione sociale che danna le vite dei più.

    Di qui la costanza con la quale i movimenti socialisti e il comunismo hanno messo sotto attacco la proprietà privata che è la pietra d’angolo del sistema capitalistico²⁵. La soluzione dell’abolizione della proprietà privata e dell’abbattimento del capitalismo, prospettata dalle vittime della questione sociale, può anche essere definita come la soluzione propria del «socialismo classico». T.H. Marshall definisce tale soluzione quella del «socialismo A» che comprende «tutte le scuole di pensiero che si proponevano di trasformare il sistema economico e sociale abolendo il capitalismo, mediante la violenza o attraverso la penetrazione pacifica. Esso comprende i marxisti e i semimarxisti [...] i fabiani nella prima fase»²⁶.

    Il collasso dei regimi politici del socialismo reale, là dove cioè questa soluzione è stata applicata in maniera più ortodossa, ha dimostrato, senza possibilità d’appello, come la via indicata dal «socialismo classico», sia realmente la via che - per dirla con Hayek - conduce alla schiavitù²⁷.

    Il motivo è semplice: «sostituire la mano invisibile del mercato - centrato sulla proprietà privata - con la mano visibile dello Stato ha due precise ed ineludibili conseguenze: il collasso catastrofico dell’economia e la cancellazione delle libertà e dei diritti dei cittadini"²⁸. Il che significa il collasso di quella città liberale cui si deve l’inizio del miracolo occidentale.

    Le vie sin qui considerate attraverso cui la tirannide può giungere al potere sono quelle che si dipartono dal versante delle vittime della grande trasformazione, di coloro cioè che sono schiacciati dalla questione sociale. Tuttavia la tirannide può percorrere anche strade che si dipartono dal versante dei vincitori della grande trasformazione.

    Vi è, infatti, la possibilità che a governare siano solo i vincitori della grande trasformazione, i quali limitano l’accesso al governo della città liberale ai soli possidenti: «la proprietà sola - scrive Constant - rende gli uomini capaci di esercitare i diritti politici. Solo i proprietari possono essere cittadini»²⁹.

    Una opzione che è, alla luce di quanto si è detto sinora, perfettamente logica e comprensibile: dato che la soluzione prospettata dalle vittime della questione sociale si traduce nella

    distruzione di tutte le architetture liberali della città costruita dalle grandi rivoluzioni borghesi, si comprende perché la folla povera e ignorante debba essere esclusa dal governo della città liberale. E Constant lo scrive a chiare lettere: «quando i non proprietari hanno dei diritti politici accade una di queste tre cose: o non traggono impulso che da se stessi e allora distruggono la società, o lo traggono dall’uomo o dagli uomini al potere e sono strumento di tirannide, o lo traggono da coloro che aspirano al potere e sono strumento di una fazione»³⁰.

    Solo i proprietari, dunque, possono essere considerati cittadini della città liberale e questo perché «soltanto chi possiede il reddito necessario per mantenersi indipendentemente da qualsiasi volontà estranea può esercitare i diritti politici»³¹³¹. Tuttavia per Constant, come per tutti i liberisti, tutti possono, grazie al proprio lavoro e al proprio ingegno, diventare proprietari, quindi tutti possono acquisire i diritti politici; il che equivale a dire che, almeno in linea di principio, la città liberale resta aperta a tutti.

    Ciò significa che, potrebbe continuare un liberista, nella città liberale - retta dai vincitori della grande trasformazione - non si commette alcuna ingiustizia. È vero che il mercato produce polarizzazione e disuguaglianze, ma è altrettanto vero che il mercato stesso dà a ciascun individuo la possibilità di riscattare la propria sorte ed ascendere economicamente e socialmente: «è la credenza – scrive Tawney – che, una volta stabilita la libertà individuale, la misura d’eguaglianza desiderabile da parte di ogni uomo saggio, si stabilirebbe da sé in un prosieguo di tempo»³².

    Il che significa che per il liberista la soluzione per metter fine alle disuguaglianze economiche e sociali e risolvere la questione sociale è il mercato stesso, è il libero gioco delle forze del mercato lo strumento per ridurre le disuguaglianze economiche e sociali. È questa, dunque, la soluzione prospettata dal «liberalismo classico» per preservare la città liberale e nel contempo risolvere, nel lungo periodo, la questione sociale³³.

    Tuttavia anche questa opzione si è dimostrata, al pari di quella proposta dal «socialismo classico», fallimentare e non solo perché, come si è cercato di dimostrare in precedenza, il mercato non è in grado di curare una questione sociale che esso stesso ha prodotto, e una questione sociale è il cancro che corrode dall’interno una società aperta tramutandola nel suo posto, vale a dire in una società chiusa. C’è dell’altro: le grandi rivoluzioni borghesi avevano affermato che ogni uomo, per il solo fatto di esistere, è titolare di un pacchetto inalienabile di diritti, senza distinzione di sesso, di ceto, di credo politico o religioso. Tutti uguali nel diritto.

    È evidente che nel momento in cui nella città liberale si riserva una quota di questi diritti (quelli politici) ad una particolare categoria di cittadini, si mina una delle fondamenta su cui quella stessa città si regge, vale a dire la universalità dei diritti.

    E ancora: diritti politici vuol dire anche diritto a decidere sulle tasse. I diritti politici, infatti, implicano il diritto di decidere chi, in quale misura e per quali fini, debba pagare le tasse. Ora, in linea di principio, pare logico poter affermare che una classe politica benestante non ha alcun interesse a tassare le fonti della

    propria ricchezza, il che implica che in una società dove solo i proprietari governano la tassazione sarà ispirata ad un criterio proporzionale e si privilegeranno forme di tassazione indiretta sui consumi piuttosto che sui redditi e le proprietà, con il risultato di allargare ancora di più il fossato che separa gli haves dagli haves not.

    Ancora: se solo i vincitori della grande trasformazione, vale a dire i proprietari, hanno il diritto di governare la città liberale, ne consegue che l’unica funzione alla quale lo Stato deve essere preposto non può che essere quella del guardiano notturno della proprietà, senza interferire in quelle leggi che governano la produzione e la libera concorrenza, che da sole sono in grado di produrre ricchezza e benessere per tutti. È il paradigma dello Stato liberale agnostico in questioni economiche e sociali, con «una coscienza sociale dormiente»³⁴.

    Se ora si considerano tutti questi elementi propri della soluzione liberale classica e si constata che: il mercato non è in grado di guarire una società dalla questione sociale che la affligge; che un sistema di tassazione proporzionale e indiretto ha l’effetto di inasprire le disuguaglianze sociali; che in assenza di ogni intervento statale per correggere le logiche del mercato i più continuano ad impoverirsi, ne consegue che uno Stato liberale, uno Stato agnostico in questioni economiche e sociali, che si limita al ruolo di guardiano notturno della proprietà e tutore del mercato e della concorrenza, è uno Stato che nutre e fa crescere oltre misura una questione sociale, ponendo così le condizioni perché da quella questione sociale possano sorgere quei totalitarismi che hanno distrutto la città liberale.

    Per inciso vale la pena far notare che la posizione dello Stato e della politica nel laissez-faire e nel neoliberismo contemporaneo è la stessa: la politica si impone una funzione ancillare rispetto al mercato, limitandosi al ruolo di protettore della proprietà privata e di sorvegliante delle regole della concorrenza e della produzione. A tali funzioni nel tardo XX secolo se ne aggiunge un’altra, vale a dire un ruolo attivo nel rimuovere quelle paratie (considerate dai teorici del paradigma neoliberista o hayekiano come ostacoli) che nel corso del tempo il paradigma keynesiano aveva costruito per impedire che il mercato fagocitasse una società libera³⁵. In questo contesto, «la politica – come scrive Carlo Galli – ha solo un ruolo negativo: serve a spazzare via gli ostacoli che altri pongono al libero e naturale corso degli eventi»³⁶.

    Ora, se il fine dello Stato liberale è quello di frazionare e limitare il potere assoluto ed impedire l’avvento del tiranno, allora si può dire che quel piano di difesa elaborato nei secoli dalla tradizione liberale, fatto di separazione dei poteri, rule of law, controllo democratico del potere, non solo non ha funzionato, ma ha creato quelle condizioni che hanno favorito l’ascesa al potere del tiranno. E la ragione di ciò, vale la pena ribadirlo, va individuata in un mercato considerato centro e misura di ogni cosa, ignorando che senza contrappesi e controlli un tale «sistema economico diventa incompatibile con il normale funzionamento della democrazia»³⁷. Sul punto Röpke è chiarissimo: l’economia di mercato «abbandonata a se stessa, diventa pericolosa, anzi insostenibile, perché ridurrebbe gli uomini a un’esistenza non naturale che tosto o tardi essi si scrollerebbero di dosso insieme con l’economia di mercato diventata odiosa. Questa, dunque, ha bisogno di una solida cornice antropologico-sociologica […]. Il principio individuale nel nocciolo dell’economia di mercato deve essere controbilanciato, entro la cornice, dal principio sociale umanitario, se vogliamo che entrambi sussistano nella nostra società moderna e se nello stesso tempo vogliamo vincere i pericoli mortali della riduzione a massa e proletariato»³⁸.

    Se così stanno le cose, è allora evidente che, per evitare che una società aperta colassi sotto il tallone della tirannide, che soffocando ogni libertà soffoca anche le ricchezze prodotte dal mercato, è necessario controbilanciare le esigenze dell’impresa, della concorrenza e della produzione, con le esigenze sociali ed esistenziali dell’uomo e politiche di una società aperta, che è poi lo stesso che dire, con Keynes, che «il problema politico dell’umanità consiste nel mettere insieme tre elementi: l’efficienza economica, la giustizia sociale e la libertà individuale».

    Società e mercato

    Bisogna ora chiedersi quali sono i modi per poter controbilanciare le esigenze del mercato con quelle della società, come fare cioè ad amplificare quanto più possibile i vantaggi di un’economia capitalistica e ridurre gli effetti negativi che questa comunque produce.

    Il modo in cui storicamente si è raggiunto tale obiettivo è stato quello di elaborare ed imporre un corpus giuridico che va sotto il nome di diritti sociali, i quali rappresentano il fulcro di una seconda rivoluzione giuridica, condotta dai movimenti operai e dai partiti socialisti, attraverso la quale nei paesi occidentali i diritti sociali si sono andati ad affiancare ai diritti elaborati nei secoli dalla tradizione liberale. Con il risultato, per dirla con Leon Blum, di ridurre il mercato ad una forma umana; mentre per Crossman in questo modo «il capitalismo si è incivilito e, in larga parte, conciliato con i principi della democrazia»³⁹; e per Röpke così si è giunti alla definizione di un «umanesimo economico»⁴⁰.

    A tale risultato, vale a dire l’incivilimento del capitalismo, si giunge solo bilanciando le libertà liberali con le libertà socialiste; i diritti liberali con i diritti sociali⁴¹. Si tratta, in altre parole di andare oltre una concezione dell’uguaglianza di tipo formale, si tratta di sostituire «la concezione di un’uguaglianza di dignità sociale» alla «semplice eguaglianza dei diritti naturali»⁴².

    Tale bilanciamento si rende necessario perché, conviene ripeterlo, il capitalismo si fonda su una logica che se non corretta conduce al crollo del capitalismo stesso e con esso al crollo di quella struttura istituzionale liberal-democratica che lo ha prodotto e questo perché, come si è visto, «abbandonato alla sua autonormatività, il mercato non solo è incapace di distribuire la ricchezza sociale secondo criteri di equità, è anche incapace di garantire il fisiologico funzionamento della vita economica»⁴³.

    In questo senso, si può dire che i diritti sociali, e con esso lo Stato sociale, sono sia lo strumento necessario per curare la questione sociale e prevenirne nuovamente il sorgere in futuro sia il rimedio necessario ad impedire il crollo del capitalismo, ad impedire, per dirla in maniera più corretta, che il capitalismo si possa autodistruggere, affidando alla mano visibile dello Stato il compito di provvedere alle disfunzioni e rimediare alle mancanze della mano invisibile del mercato. Il che significa poi impedire il crollo della stessa società aperta che ha prodotto il capitalismo.

    In breve: là dove non sono tutelati i diritti sociali là una società aperta rischia di tramutarsi presto nel suo opposto, vale a dire in una società chiusa e nella tirannide, sia essa dei molti, dei pochi o di uno solo.

    Se poi è vero che il mercato naturalmente e quotidianamente produce ricchezze, miserie e disuguaglianze ne consegue che è compito della mano pubblica intervenire quotidianamente perché i diritti sociali siano garantiti e il loro esercizio da parte di tutti non sia eroso.

    Controbilanciare, dunque, le esigenze del mercato, non sopprimerle; smussare gli imperativi della concorrenza e della produzione imponendo loro una declinazione rispettosa delle libertà e della dignità umana, al fine di rendere l’economia di mercato compatibile con la democrazia; avere la consapevolezza che è sì necessario un intervento della mano visibile, teso a correggere le inefficienze ed insufficienze del mercato, ma allo stesso tempo che tale intervento non può mai spingersi sino a sopprimere il mercato, né alterarne le logiche, a meno di non voler spalancare nuovamente le porte alla fame e alla penuria⁴⁴.

    Al fine di rendere compatibile l’economia di mercato con la democrazia ed impedire che si spalanchino le porte alla tirannide diviene allora necessario tentare continuamente di combattere gli eccessivi accentramenti della ricchezza, le disparità della fortuna, equiparare le possibilità ed i punti di partenza, dando a tutti la possibilità di ascesa sociale ed economica.

    Ora, se è vero che le libertà liberali, di cui è fatta una società aperta, sono il presupposto necessario perché il mercato possa produrre straordinarie ricchezze; se è vero che il mercato insieme a queste straordinarie ricchezze produce naturalmente e spontaneamente questioni sociali; se è vero che una questione sociale non risolta conduce alla distruzione del mercato stesso e alla trasformazione di una società aperta nel suo opposto; e se, infine, è vero che solo l’affermazione e la garanzia dei diritti sociali possono prevenire il sorgere di quella questione sociale che tutto può distruggere, ne consegue la necessità di garantire ai diritti sociali lo stesso rango, all’interno della gerarchia delle norme, e la stessa priorità, all’interno dell’agenda politica, che sono riservate ai diritti liberali.

    Solo affiancando su uno stesso livello i diritti sociali ai diritti liberali, le libertà liberali e le libertà socialiste, si può avere qualche garanzia che il mercato e il capitalismo producano in prevalenza effetti positivi, combinando così in modo virtuoso libertà economica e giustizia sociale; solo così si può fare in modo che quelle libertà che furono un tempo esclusivo appannaggio dei possidenti possano essere godute realmente dalla maggioranza dei cittadini. Solo così si può avere una qualche garanzia che il popolo non si degradi, a causa del libero gioco delle forze di mercato, in volgo e che il libero cittadino, che non teme la fame, libero dal bisogno e che non dispera del futuro, quel libero cittadino, che è il fulcro su cui tutta la società aperta si regge, non si trasformi in un servo pronto a vendere al miglior offerente i propri diritti e le proprie libertà.

    Il che per converso significa che non vi può essere un libero cittadino là dove costui non è libero dal bisogno, non vi può essere vera libertà e democrazia là dove i più temono la fame e disperano del futuro, là dove i più sono in balìa delle leggi che regolano la produzione e la concorrenza. Scrive Carlo Rosselli «La libertà non accompagnata e sorretta da un minimo di autonomia economica, dalla emancipazione dal morso dei bisogni essenziali, non esiste per l’individuo, è un mero fantasma. L’individuo in tal caso è schiavo della sua miseria, umiliato dalla sua soggezione; e la vita non può avere per lui che un aspetto e una lusinga: il materiale. Libero di diritto, servo di fatto»⁴⁵.

    Là dove non vi sono cittadini liberi lì non vi sono più neppure libere istituzioni né libere società: «tutti gli altri contrappesi allo Stato - scrive Röpke - si riducono ad un’ombra quando manca il peso principale: quel minimo di indipendenza economica dell’individuo che si basa sopra un minimo di libertà economiche e di sicurezze di esistenza»⁴⁶. In breve: là dove non vi è libertà dal bisogno, là dove non sono garantiti i diritti sociali lì non vi è né libertà né democrazia, né società aperta⁴⁷.

    In conclusione, le vittime della grande transizione hanno ragione nell’individuare nel libero gioco delle forze del mercato, della produzione e della concorrenza l’origine della propria cattiva sorte, ma nel contempo hanno torto nell’individuare la cura ai propri mali nell’abolizione del mercato (si ucciderebbe in un sol colpo la gallina d’oro); i vincitori della grande trasformazione hanno ragione nel temere che una folla povera ed ignorante entri nella cittadella liberale, ma nel contempo hanno torto a limitare le libertà liberali ad un ristretto numero di cittadini, i soli possidenti: si degradano così e si svuotano di significato quelle libertà che furono proclamate come universali e le si distorce trasformandole in privilegio di una sola classe.

    Si tratta di far «combaciare l’eguaglianza dei diritti civili e

    politici, che è nell’essenza della democrazia, con l’ineguaglianza delle opportunità economiche e sociali, che è nell’essenza del capitalismo»⁴⁸.

    Ma come? Come fare per salvare il mercato e le libertà liberali e la democrazia contemporaneamente, pur sapendo che è vero che il mercato riduce il popolo a plebe, che è vero che il mercato produce una questione sociale da cui si genera (per le vie indicate in precedenza) la tirannide?

    La soluzione è quella di costruire una macchina, attraverso la costituzionalizzazione dei diritti sociali, con la quale risollevare la plebe e restituirle il rango di popolo, una macchina che risollevi alla dignità di cittadino, colui che le forze del mercato avevano ridotto a servo. Una macchina, in altre parole, che fornisca ai più quegli elementi (libertà dal bisogno e dalla paura della fame) necessari perché la società aperta possa prosperare: quella macchina è lo Stato sociale, senza il quale una società aperta non può perdurare. Ed è per questo che non si può che essere d’accordo con Ralf Dahrendorf quando ha riconosciuto nell’invenzione dello Stato sociale la più grande e benefica rivoluzione culturale dell’intera storia dell’umanità⁴⁹.

    Tutto ciò cosa significa? Significa che la necessità che le istituzioni pubbliche si prendano cura di coloro che sono rimasti indietro, il dovere di avere a cuore le sorti degli umili, dei poveri, di quanti non ce la fanno a tenere il passo con gli imperativi della concorrenza e della produzione non è solo un obbligo morale, non è solo un dovere di compassione e solidarietà, ma una precisa e vitale esigenza economica (se i più stanno male, l’economia di mercato collassa) e politica (se i più stanno male, le istituzioni liberali della società aperta collassano).

    In altre parole, per usare l’espressione di Fitoussi: «la politica sociale non è, nei nostri sistemi pubblici, una semplice appendice della politica economica, ma è consustanziale alla democrazia»⁵⁰. Röpke, a tale riguardo utilizza praticamente le stesse parole: «L’economia di mercato è sostenibile soltanto con una corrispondente politica sociale»⁵¹. Per Tawney: «la democrazia è instabile come sistema politico fintanto che rimane un sistema politico e nient’altro»⁵². Pertanto, se vogliamo continuare a godere dell’aria libera delle nostre società aperte e del benessere economico che tale libertà produce è necessario che ai più siano garantiti in pari grado i diritti civili e politici, propri della tradizione liberale, e i diritti sociali, propri della tradizione socialista, sia essa di ispirazione laica o cattolica, cui corrispondono precise istituzioni pubbliche che hanno il compito di garantire tali diritti.

    Da ciò ne consegue che se non può esistere una società aperta nella quale i diritti civili, le libertà liberali siano garantite e fatte rispettare da un sistema giudiziario libero, autonomo ed indipendente; se non può dirsi società aperta un sistema dove non vi sono parlamenti né assemblee locali e dove i cittadini non concorrono liberamente con il proprio voto all’elezione dei componenti di queste assemblee, dove si decide delle norme che debbono presiedere alla conduzione della cosa pubblica e alla convivenza civile; allora, allo stesso modo, non può dirsi una società aperta quella in cui non vi è un sistema scolastico pubblico, un sistema sanitario pubblico, un sistema di assistenza agli invalidi e bisognosi, insomma uno Stato sociale nel senso più ampio in grado di garantire a tutti i cittadini i loro diritti sociali. Per dirla in altre parole, togliere risorse allo Stato sociale equivale a toglierle al parlamento e al sistema giudiziario; tagliare fondi alla scuola pubblica è come limitare la libertà di stampa; ridurre gli stanziamenti alla sanità pubblica è come limitare la libertà di parola o di muoversi liberamente nel territorio nazionale.

    Ciò implica che così come la tutela e la difesa dello Stato democratico è (e deve essere) un punto fermo nel programma di qualsiasi partito politico, sia esso progressista o conservatore, allo stesso modo deve esserlo la tutela e il rafforzamento di quegli istituti necessari a garantire i diritti sociali.

    La mercificazione del lavoro

    A questo punto però c’è un ulteriore passo da compiere. Di per sé, infatti, lo Stato sociale non è sufficiente ad impedire il sorgere di una questione sociale. Questa è infatti un fenomeno complesso al cui sorgere contribuisce in maniera decisiva un altro fattore, vale a dire la mercificazione del lavoro, l’idea cioè che il lavoro sia da considerarsi un fattore della produzione come tutti gli altri, al quale il libero gioco della domanda e dell’offerta fornisce un prezzo che è il salario.

    Solo così, sostengono i liberisti, si può garantire una perfetta allocazione dei fattori della produzione, scarsi per definizione, il che implica che il prezzo che il mercato fornisce al lavoro è sempre quello giusto. E solo così, potrebbe continuare un liberista, solo attraverso la concorrenza, che è lotta per la vita e per la felicità, si spronerà ciascuno a dare il meglio di sé.

    Sono affermazioni comuni a tutti i liberisti che meritano qualche precisazione. Il giusto prezzo: ammettiamo pure che le leggi della concorrenza ed il libero gioco della domanda e dell’offerta siano in grado di dare il giusto prezzo alla «merce lavoro». È chiaro che tale prezzo è giusto in rapporto alle esigenze del processo produttivo e in relazione agli imperativi della concorrenza. Eppure il lavoro non è una merce come le altre, in quanto esso è, per dirla con Polanyi, la vita stessa dell’uomo: «Il lavoro è soltanto un altro nome per un’attività umana che si accompagna alla vita stessa, la quale a sua volta non è prodotta per essere venduta ma per ragioni del tutto diverse, né questo tipo di attività può essere distaccato dal resto della vita»⁵³.

    Dal che ne consegue che quel salario, giusto per il processo produttivo, potrebbe non essere anche sufficiente a soddisfare le esigenze della vita dell’uomo e questo perché, per dirla con Röpke, «la produzione ha i suoi fini che non coincidono coi fini umani»⁵⁴.

    Riassumendo: una particolare conformazione istituzionale, che per semplicità si può dire quella di una società aperta, dà avvio al processo della grande trasformazione, che implica la mercificazione (insieme a tutto il resto) del fattore lavoro; il lavoro è considerato, in altre parole, una merce come tutte le altre; è compito del libero gioco della domanda e dell’offerta dare un prezzo a quel fattore lavoro; tale prezzo è il salario; tuttavia non vi è alcuna garanzia che il prezzo che il mercato dà al lavoro sia sufficiente al lavoratore perché possa vivere un’esistenza libera e dignitosa.

    A ciò si aggiunga un altro elemento: come scrive Marx, «la libera concorrenza impone al singolo capitalista le leggi immanenti della produzione capitalistica come leggi coercitive esterne»⁵⁵. E la prima legge immanente della produzione che si impone al capitalista non può che essere la massimizzazione del profitto.

    Se ora si immagina un mercato nel quale non vi è alcun intervento da parte di attori ad esso esterno e che improntano la propria azione a logiche e principi non economici, sembra possibile affermare che il modo più agevole, immediato e sicuro per massimizzare i profitti possa essere quello di ridurre il costo dei fattori della produzione ed in particolare di quel fattore della produzione il cui costo dipende dalla volontà dell’imprenditore, vale a dire il lavoro. Se ciò è vero si può allora dire che «i fini della produzione», per usare l’espressione di Röpke, e le «leggi immanenti della produzione», per usare l’espressione di Marx, vale a dire la massimizzazione del profitto, sono in rapporto direttamente proporzionato con la riduzione del salario. E se maggiore è la riduzione dei salari e maggiore è il profitto, se la massimizzazione del profitto si impone al singolo capitalista come una legge coercitiva esterna, allora ne consegue che il costo del fattore lavoro può scendere all’infinito, anche al di sotto di quella soglia necessaria a tenere in vita il lavoratore stesso.

    È questo principio, insieme all’idea che debba essere il mercato a determinare il costo del fattore lavoro, fornendogli un prezzo, vale a dire il salario, che può essere giusto per il processo produttivo ma non per la vita dell’uomo al di fuori di tale processo, che genera il fenomeno dei working poors, quei lavoratori cioè che, pur lavorando, non hanno introiti tali da poter superare la soglia di povertà⁵⁶.

    Per dirla in altre parole, se le esigenze del mercato corrispondessero in pieno alle esigenze economiche e sociali di ciascun cittadino, se i fini della produzione coincidessero con i fini umani il fenomeno dei working poors non dovrebbe aversi.

    Alla luce di ciò non pare eccessivo sostenere che il lavoratore ideale, per qualsiasi datore di lavoro, è colui che fornisce il proprio braccio e la propria mente, con entusiasmo e dedizione, senza nulla chiedere in cambio. Il lavoratore ideale pertanto è colui che lavora gratis.

    Ecco allora che l’altro strumento per poter impedire il sorgere di una questione sociale è la costruzione di un corpus giuridico a tutela del lavoro e del salario, il cui fine è, essenzialmente, quello di impedire che il lavoro possa essere ridotto dalle leggi di mercato a merce. Basti pensare a tale proposito all’art. 36 della Carta costituzionale italiana con il quale si costituzionalizza proprio il principio che la determinazione del salario non può essere lasciata esclusivamente alle forze del mercato (nel qual caso si parlerebbe soltanto di retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto) ma deve tener conto anche di esigenze extra economiche del lavoratore qual è per l’appunto la necessità di garantire a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

    Diritti del lavoro, ma non solo. Alla tutela che il potere giurisdizionale garantisce a tali diritti si aggiunge la costituzionalizzazione del principio della rappresentanza sindacale, il diritto di sciopero e, in senso lato, quasi il diritto al lavoro.

    Il cittadino lavoratore così diviene il cardine di un ordinamento libero. Sa che è suo diritto vedersi corrisposto un salario necessario a garantirgli un’esistenza libera e dignitosa. Sa che nei rapporti con il datore di lavoro non è solo, ma può avvalersi di quel moderno tribuno della plebe che è il sindacato. Mentre la normativa a tutele del lavoro (ed una concezione di politica economica che impone ai pubblici poteri politiche tese a garantire la piena occupazione) gli garantiscono nel lungo periodo il posto di lavoro. Sa che c’è una rete di protezione che attutisce i colpi delle congiunture economiche negative. Sa di essere protetto dai colpi avversi della sorte ed in caso di malattia potrà ricevere le migliori e più costose cure senza il rischio di dissanguarsi economicamente. E sa che un sistema scolastico universalistico e gratuito consentirà ai suoi figli di migliorarsi e di ascendere socialmente.

    In questo modo, il cittadino-lavoratore è in grado di guardare con serenità al futuro e, senza l’ansia costante del domani, non sarà costretto a vendere il proprio voto o a spogliarsi dei propri diritti per poter mangiare o per poter garantire un futuro migliore ai propri figli. Così il cittadino ha la certezza di poter con le proprie forze (grazie ad un posto di lavoro sicuro) guadagnarsi di che vivere; ed ha la certezza di non essere solo, ma di poter fare affidamento su un’ampia rete pubblica di promozione ed assistenza sociale. Grazie a queste certezze il cittadino, liberandosi dalla paura del bisogno, diviene davvero un uomo libero. E là dove vi sono cittadini liberi, là vi sono società libere, là dove invece il cittadino non è libero dal bisogno e dalla paura del futuro là non vi sono società libere⁵⁷.

    Le rivoluzioni tecnologiche e la fine del lavoro

    Ciò che emerge con evidenza da quanto si è detto sin qui è dunque la centralità del lavoro: senza un lavoro stabile ed un salario sufficiente non vi è il liberto cittadino e senza il libero cittadino non vi sono società libere.

    Bisogna però chiedersi che cosa accadrebbe se il lavoro umano da un momento all’altro dovesse risultare inutile. Esercizio non del tutto di fantasia, sia chiaro. Ma si provi ad immaginare cosa potrebbe accadere se in una società d’un sol colpo il lavoro svolto dagli uomini dovesse essere sostituito dalle macchine. L’uomo ne guadagnerebbe in termini di libertà e creatività e un’economia dell’abbondanza potrebbe essere a porta di mano. Non sarebbe assurdo sostenere che il genere umano sarebbe ad un passo dalla risoluzione del problema economico.

    Tuttavia pare altrettanto evidente che se le macchine dovessero sostituire totalmente gli essere umani e rendere il lavoratore in carne ed ossa inutile da un punto di vista produttivo, si genererebbe una immensa questione sociale che si tradurrebbe in un disastro economico (nessuno avrebbe i quattrini necessari a comprare ciò che le macchine producono), politico (il cittadino che ha fame è disposto a vendersi al tiranno pur di mangiare), tecnologico (quelle macchine che pure potrebbero far fare un balzo in avanti all’umanità verrebbero distrutte) e forse anche scientifico: chi può escludere che la ricerca scientifica non possa essere messa al bando nel timore che essa possa generare altre macchine in grado di sostituire l’essere umano? Si può immaginare che l’effetto combinato di questi quattro disastri farebbe fare un balzo all’indietro di secoli al genere umano.

    Quali siano gli effetti della tecnologia sul lavoro nel lungo periodo è questione dibattuta accesamente da un paio di secoli e quasi puntualmente i timori dei luddisti di ogni tempo si sono rivelati infondati. Le nuove tecnologie hanno certamente avuto degli effetti distruttivi e dirompenti sullo status quo del mondo del lavoro su qui impattavano. Tuttavia la capacità creativa delle nuove tecnologie è stata di gran lunga superiore alla loro capacità distruttiva. Almeno sino ad ora.

    Gli ottimisti ritengono che la disoccupazione tecnologica vale a dire l’impiego di una macchina al posto di un lavoratore e la difficoltà di quest’ultimo nel trovare un nuovo lavoro che non sia stato già sostituito (o sia sostituibile) da una macchina è solo un fenomeno temporaneo.

    È possibile che non tutti i posti di lavoro saranno sostituiti dalle macchine e che nuovi lavori compatibili con una accelerazione tecnologica costante possano venire alla luce. Tuttavia, come ormai molti sembrano concordare, il processo di sostituzione delle macchine all’uomo sta per assumere una velocità tale che la società ed i lavoratori non avranno il tempo di adattarvisi. Il che implicherebbe una esplosione della così detta disoccupazione tecnologica.

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