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Babelfish
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E-book134 pagine2 ore

Babelfish

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Info su questo ebook

Con “Babelfish, racconti dall'Era dell'Acquario”, Gino Pitaro narra una realtà divisa in molteplici tasselli e allo stesso tempo esistente come entità unica. Il tema che fa da sfondo a tutte le trame è il “nomadismo esistenziale”, ossia il saper vivere nell'ambientazione allargata del mondo facendosi strada in mezzo alle molteplici contaminazioni socio-culturali che ne fanno parte. Dalla Spagna a Singapore, da Roma a Ginevra i protagonisti disegnano una sorta di melting pot, una realtà multipla che prende corpo nell’arco della narrazione. Sei storie differenti e sei protagonisti accomunati da uno stesso approccio alla vita, da una stessa condizione dell’anima che affronta ciò che vede cercando sempre l’analisi ragionata e la ricerca del dettaglio rivelatore. Vite uguali e diverse di cui l’intersezione con l’altro e l’osmosi culturale costituiscono il fulcro essenziale. I racconti possono essere letti sia in chiave sequenziale e cronologica che su binari paralleli, come se si trattasse dei molteplici alter ego di uno stesso protagonista alle prese con diversi destini. Per ogni storia un diverso aspetto della vita da sviscerare.
LinguaItaliano
Data di uscita1 dic 2014
ISBN9788868810634
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    Anteprima del libro

    Babelfish - Gino Pitaro

    Gino Pitaro

    BABELFISH

    Èchos

    19

    In copertina: Babelfish © Gabriella Vaghini

    Progetto grafico: Livresse

    Realizzazione grafica: Cecilia Raneri

    © 2013 Edizioni Ensemble, Roma

    © Ass. cult. Edizioni Ensemble

    I edizione Maggio 2013

    ISBN 978-88-6881-063-4

    www.edizioniensemble.com

    direzione@edizioniensemble.com

    UUID: 978-88-6881-063-4

    This ebook was created with BackTypo (http://backtypo.com)

    by Simplicissimus Book Farm

    Indice

    Il toro di Pamplona

    ​Michelangelo, Ginevra e io

    ​Holly

    ​Miss France

    ​Sakura

    ​Il dazio

    L'autore

    ​Collana Èchos

    Ringraziamenti

    a mio padre

    Questo duro sentir che mena al vero

    più saggia renderà la tua coscienza

    e lo spirito plasmerà a nuovi lidi…

    Antonio Pitaro, Nina

    Il toro di Pamplona

    E ansimando rimase così, senza inghiottire né sputare. Ricurvo, teneva le mani poggiate sulle ginocchia con le braccia leggermente storte, quasi contorcendosi per il fiatone che non gli dava tregua mentre il sudore gli colava sulla fronte. Come aveva fatto a ritrovarsi in quel vicolo ombroso, riparato dal sole della città? Non doveva forse correre con gli altri e schivare i tori che erano stati liberati? E invece scorgeva i suoi compagni d’avventura, in tenuta bianca e fazzoletto rosso al collo, che incrociavano l’imbocco del vicolo tirando dritti per un’altra via. I brevi schiamazzi creavano uno strano effetto Doppler in quel punto deserto. Perché si era imbucato in quel vicolo perdendo la direzione della corsa? Le cose stavano così? Forse non si era smarrito, aveva avuto paura nel profondo e la paura l’aveva guidato in un luogo sicuro. E dire che quello era il veroencierro, non come quello di Pamplona che era un percorso studiato nei minimi dettagli per le riprese televisive e il pubblico. Eppure quei tori venivano proprio da là, da Pamplona.

    Deluso, si rimise in posizione eretta apprestandosi a confluire nella strada principale, ormai orfana del gran trambusto. All’improvviso però, in fondo alla via, comparve un toro camminando adagio. Rino si fermò. Quello che aveva davanti era un toro per lui, solo per lui. Il ragazzo e il quadrupede rimasero immobili a studiarsi, distanti circa una trentina di metri l’uno dall’altro. L’animale si scosse come fanno i cavalli, poi diede un colpo con il tacco. Rino quasi non sentì il rumore prodotto dallo zoccolo; avvertiva però il respiro della bestia, intuendo le leggere increspature delle froge quando inspirava. Percepì anche il ronzare dei moscerini che aleggiavano intorno alla groppa, trafitti dal fascio di sole che illuminava l’ingresso della stradina.

    La sera precedente aveva riflettuto su quale motivo avesse spinto molti artisti e scrittori a esprimersi riguardo ai tori e si era chiesto quali pensieri lo avrebbero assalito, quali sensazioni gli avrebbero generato quei momenti. Gli unici pensieri che gli agitarono i neuroni in veloce sequenza furono: che la parola toro aveva quattro lettere − due consonanti e due vocali − come il suo nome, che toro era il modo in cui i giapponesi chiamavano la ventresca rossa del tonno e poi il fatto che non aveva mai visto un toro libero in vita sua, cioè un toro vero. Ogni tanto ne aveva osservato qualcuno nei recinti o nelle stalle delle fattorie calabresi, ma associava quella bestia mogia a una via di mezzo tra un montone e un placido pachiderma. Ma sì, tanta buriana per nulla, per il maschio della mucca, tutto qui.

    Il toro sbatté lo zoccolo una seconda volta, come a richiamarlo a una certa attenzione. Rino cominciò ad avere il sospetto che l’ultima di quelle considerazioni fosse probabilmente sbagliata, quando all’improvviso la bestia si impennò come una tigre che si avventa sulla preda. Con lo stomaco incavato, macinò quelle poche decine di metri a ritmo sostenuto.

    Il terrore di venire incornato suscitò in Rino un flash nella memoria: il film Fifa e arena di Totò. Anche le parole fifa e Totò avevano quattro lettere, due consonanti e due vocali. Queste puerili considerazioni gli tratteggiarono una freccia rugosa di sorriso sulla guancia destra; allo stesso tempo però gli fecero perdere l’attimo giusto e la mancata propulsione delle gambe lo fece sdrucciolare un secondo di troppo. Riprendersi e pietrificarsi fu un tutt’uno.

    "E se mi fossi dimenticato come si corre? Se non sapessi più mettere una gamba dopo l’altra? Che idea del cazzo venire a festeggiare il giorno del mio compleanno qui, solo perché coincide con l’encierro, il sette luglio, il giorno di San Firmino. Che morte di merda! Domani verrà pubblicato un trafiletto sul giornale: ‘Giovane italiano muore trafitto da un toro nei pressi di Pamplona, nel giorno del suo compleanno’".

    Ma ecco, improvvisa, la Voce; parlò dall’inconscio profondo: La ferita ti dà la forza, senza la ferita non saresti così attento e concentrato. Sarà per questo piccolo scivolone che riuscirai ad arrivare alla meta. La ferita suda e trasuda, il sale è la sua benedizione. Il sale è quello che le serve perché brucia, sollecita i lembi e le sue labbra aperte.

    Poi la Voce esplose assieme alle sue gambe: Corri Rino, corri! Il cuore ti arriva in gola e ti soffoca. Ora sì che senti il galoppare veloce del toro, i suoi zoccoli pesanti che timbrano il basalto. Ora avverti quasi il suo fiato in questo vicolo umido e muschioso, protetto dal sole. Non c’è un’anima viva, non c’è un anfratto dove ripararsi; i portoni moreschi per l’occasione sono protetti da tavole di legno e questa città è un labirinto.

    Sì, il toro era veramente vicino e ora lui poteva vederlo senza girarsi. Sentì il suo collo abbassarsi, cercare il punto dove affondare la testa, le spesse e solide corna.

    È la vicinanza, solo quello, che mi spinge a fare così. È più forte di me, pensò il Toro. Nulla di personale, amico.

    Rino diede fondo alle sue forze: il ritmo della respirazione non riusciva a sostenergli le gambe, allora andò in apnea e si concentrò; in fondo alla strada si iniziava a intravedere una luce sabbiosa.

    A un tratto non ci fu più nulla di tutto questo, la morte non esisteva e non c’era nessun rumore, nessuna paura, nessuna angoscia. La corsa era diventata più fluida e la morte era solo un sipario. Avrebbe quasi voluto fermarsi, sicuro che il toro lo avrebbe trapassato come se fosse stato invisibile; invece corse, corse, corse. Non sarebbe stato quello l’ultimo spettacolo.

    Entrò nella Plaza de Toros e un boato impressionante lo accolse, come per il goal di un calciatore alla finale. In quel momento entrarono nella piazza anche gli altri coraggiosi seguiti dai tori, ma il ragazzo per inerzia continuò come un missile dritto verso la balaustra delle autorità ecclesiastiche, andando infine a impattare su di essa. Un prete lo guardò severo e con disappunto allargando l’orbita dell’occhio destro, che lasciava intravedere il rosso sotto la palpebra come uno squarcio nella viva carne, una cerniera che non si richiudeva bene. Lo benedisse frustandolo con l’aspersore dell’acqua benedetta.

    Il toro, il suo toro, era ora distratto da altro. Un uomo gli si era inginocchiato davanti allargando le braccia e gonfiando il petto con sfida. Altro che artificio circense, la bestia lo incornò davvero sollevandolo come fosse un palloncino e con quei bianchi aculei disegnò geometrie di sangue sulla sua camicia candida.

    L’uomo ferito era felice, aveva dimostrato il suo coraggio, era uscito vivo dalla prova. Un altro sfidante abbrancò il toro per il collo ma il bovino si divincolò subito scaraventandolo via con rabbia giocosa.

    Mentre riprendeva fiato Rino venne avvicinato da Rodrigo, un uomo di quarant’anni che lavorava con le bestie; era moro, con i capelli lunghi e neri, un corpo asciutto ma possente, fatto di cuoio. Rodrigo lo guardò e, come un fratello maggiore, gli diede due buffetti sulla guancia con una mano così pesante che le ciocche di capelli gonfie di sudore tremolarono per qualche istante.

    Il ragazzo finalmente ritrovò i suoi amici, che lo portarono in trionfo. Estatico alzò le braccia al cielo e si dissetò con la sangria, che bevve come fosse acqua fresca. Una moretta compiacente lo guardò e gli sorrise.

    È la festa di San Firmino, ma chi è San Firmino? Un cero a San Firmino!, pensò. Poi tutto si confuse in un impasto di sangue e vino fruttato, polvere e sudore, musica e coriandoli.

    − E non è che l’inizio! − disse qualche italiano esperto del luogo. Signore e signori, questo è il sette luglio, è la festa del compleanno di Rino, è la festa dei tori. Non è una festa qualunque, è La Festa!.

    Due anni dopo, bar 90oMinuto, Vibo Valentia:

    −Ma undi è Rinu?!?

    (Ma dov’è Rino?!?)

    −Chiju pensu ch’ancora è chi fuij…

    (Quello mi sa che sta ancora correndo…)

    ​Michelangelo, Ginevra e io

    La Svizzera mi piace, benché per alcuni versi sia anche un po’ asettica e draconiana. Camminare per Ginevra è sempre un’esperienza interessante. Niente come questo luogo dà la sensazione dell’inafferrabilità. E poi le ginevrine sono graziose, è così. È uno di quegli stereotipi − pochi − che confortano perché sono veri, quasi un punto di riferimento. Le studentesse sono vestite casual ma sempre con classe. Il tenore di vita è alto e il gusto nell’abbigliarsi è sobrio, ma non economico. Sobrio ed elegante è anche il modo sbarazzino con cui le ragazze si sistemano il ciuccio dei capelli. Un ciuccio corto e ribelle che scompagina il volto, trasformando la capigliatura in una acconciatura artistica amabilmente sofisticata. A Ginevra anche ciò che è casuale sembra studiato; gli studenti che passano in certi cortili curatissimi paiono far parte di un meccanismo a orologeria.

    Il signor Bertrand ha un negozio nei pressi di rue Ferrier. Egli è un artigiano particolare, crea paesaggi urbani o montani con un meccanismo a ricarica o a elettricità dove gli abitanti, i mezzi pubblici, le ferrovie si muovono in modo sincrono e formano una specie di paesaggio animato, di presepe laico, una città pulsante: gli omini attendono il bus che passa sempre puntuale, poi arriva e questi scompaiono; intanto altri omini e donnine sono alle prese con negozi e attività manifatturiere. Passa anche il treno e parte la funivia, fino a quando si fa sera.

    Già, la sera a Ginevra. C’è un momento unico in questa città. Per diversi minuti, sospesi tra il tardo pomeriggio e l’ora di cena, Ginevra sembra svuotarsi, assentarsi. Gli impiegati si dileguano, le università si trasformano negli elementi di un paesaggio di De Chirico e anche le vie adiacenti

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