Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Aringa rossa
Aringa rossa
Aringa rossa
E-book281 pagine3 ore

Aringa rossa

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Jacopo Brancas, detto Ticchie, è stato trovato morto dalla polizia. Ticchie, un classico topo di biblioteca, stava studiando 'Historia Fiorentina', un vecchio manoscritto al cui interno si celerebbero delle sconvolgenti rivelazioni sulla morte del grande pittore Masaccio. Il tutto dovrebbe essere collegato a un quadro dell'artista, 'La Sagra', andato misteriosamente perduto. L'indomito avvocato fiorentino Corrado Scalzi si trova assegnato al caso e dovrà, ancora una volta, usare tutto il suo ingegno per risolvere l'enigma.
LinguaItaliano
Data di uscita14 mar 2022
ISBN9788728175187

Leggi altro di Nino Filastò

Autori correlati

Correlato a Aringa rossa

Ebook correlati

Thriller criminale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Aringa rossa

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Aringa rossa - Nino Filastò

    Aringa rossa

    Translated by

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 2005, 2022 Nino Filastò and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728175187

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    A James Beck

    e agli amici di ArtWacht

    «…E allora l’abbiamo in pugno, ecco tutto», rispose. «Conosco un cane che seguirebbe quell’odore fino in capo al mondo. Se una muta di segugi può seguire un’aringa trascinata attraverso tutta una contea, pensi fino a dove un cane particolarmente addestrato può seguire un odore così pungente…».

    Arthur Conan Doyle, Il segno dei quattro,

    trad. di Nicoletta Rosati Bazzotto

    Parte Prima

    I

    Grigio

    Fra le braccia ragniformi della Dea Kali e un Guardiano del ponte nepalese scurito dall’acqua piovana e smangiato dal vento, già una volta la vetrina aveva inquadrato Olimpia sotto l’ombrello, diretta al bar. Il richiamo al dovere s’era limitato a un’occhiata di traverso gettata al volo. Riattraversata la strada dopo il caffè, la mano sinistra alzata a pugno a far cadere in bocca una cacauette e la destra che reggeva l’ombrello, la coscienza vigilante dello studio legale spinse la porta a vetri del negozio col ginocchio, aprì una fessura e introdusse la testa.

    «Salute al cenacolo di Borgo Santa Croce. Voglia di lavorare saltami addosso, vero avvocato?».

    L’avvocato Scalzi si sentì in colpa. Quel pomeriggio, le carte ammucchiate sul tavolo gli erano parse più uggiose del solito. Lo squillare del telefono lo infastidiva da non riuscire a star fermo, dimenava le gambe sotto la scrivania, aveva addosso una smania insopportabile. Se alzava gli occhi verso la finestra, vedeva la cappa plumbea del cielo, specchiata sui vetri della finestra, incenerire le foglie del leccio.

    Corrado Scalzi se n’era andato dallo studio mugugnando un’incomprensibile scusa, dopo essersi convinto di non avere appuntamenti, almeno nessuno da non potersi rimandare.

    Il pomeriggio, da grigio, lentamente girava al grigio-scuro. Quando Firenze è grigia non scherza. Se c’è il sole, le pietre del centro tirano fuori una sfumatura d’azzurro. Ma quel giorno di febbraio il cielo era soffice e funebre come il dorso d’un topo, e le viuzze del quartiere di Santa Croce, d’un grigio senza requie, parevano di fumo.

    L’insegna del baretto accanto alla porta dello studio era spenta. I lampioni trasudavano sui muri una bava di lumaca giallastra. L’umidità si spandeva, portando nel giro ovoidale di quelli ch’erano stati al tempo dei Romani i camminamenti dell’anfiteatro, l’afrore di melma corrotta dell’Arno in gran piena. Lungo la strada deserta, Scalzi respirò l’odore di stantio, come uscito dalla sottana d’una vecchia trascurata. I negozietti, dimenticati dai turisti anche durante la stagione, spandevano sul selciato un alone malinconico. Sentiva la pioggia, fine e invisibile, frusciare sommessamente nelle rare pause di silenzio fra lo scoppiettio dei ciclomotori lungo via de’ Benci.

    Scalzi aveva fatto i cento passi che separavano il suo studio dal crocicchio in cui si slargava il Borgo Santa Croce. Giuliano era nella sua bottega, seduto al tavolino del telefono, in quieta conversazione col signor Palazzari, quest’ultimo imbacuccato con cappotto e sciarpa, col cappello a larghe tese calcato in testa.

    Giuliano era ritornato dal suo viaggio in India. Scalzi era entrato nel negozio di antichità orientali Homo Sapiens.

    La porta a vetri richiusasi automaticamente, e la voce inaudibile dall’esterno, l’avvocato comunicò una domanda irritata atteggiando il viso all’interrogazione.

    Olimpia riaprì la fessura, ma restò impavida sotto la pioggia: «In studio c’è gente che t’aspetta».

    «Lasciali aspettare», stronfiò Scalzi.

    La conversazione stava affrontando un nuovo argomento.

    «Quel tizio che passava sempre qui davanti rasente ai muri, quello che si confondeva coi muri come un vecchio sorcio…», disse Giuliano.

    «Quello col barbone?», domandò il signor Palazzari.

    «…con l’aria sempre incazzata, sempre di corsa come se avesse qualcosa di urgentissimo da fare…», dettagliò Giuliano.

    Un senso di noia aggredì Scalzi. Ora avrebbero incominciato a tagliare i panni addosso a qualcuno. Sperava di risollevare l’umore lustrandosi gli occhi coi colori delle tanke tibetane e delle porcellane giapponesi. Forse il viaggiatore mercante aveva da raccontare un’avventura esotica, oppure da esibire un oggetto straordinario acquistato durante il viaggio.

    Ma anche nell’Homo Sapiens l’atmosfera s’intonava alla giornata. Quando Scalzi era entrato, il signor Palazzari stava finendo di lamentarsi di avere addosso i brividi dell’influenza. Giuliano poi sembrava depresso. I nuovi acquisti spediti col corriere dal Nepal sarebbero arrivati dopo una settimana; in ogni caso niente di eccezionale, mercato fiacco, viaggio di noiosa routine, tranne l’eco del terremoto disastroso che aveva devastato il Gujarat.

    La televisione indiana, secondo il drammatico racconto di Giuliano, aveva dato notizia di vittime in quantità tale da raggiungere le due lacche e mezzo. Poiché in lingua indiana la lacca sembra che sia un numerale pari a centomila, il terremoto aveva fatto un’ecatombe di duecentocinquantamila fra morti e dispersi.

    Scalzi tentò di riportare la conversazione sulla catastrofe: «Ci vedo una malignità metafisica. Quei bambini della scuola, per esempio. Quante maledette coincidenze straordinarie ci vogliono perché la scossa dell’ottavo grado arrivi proprio mentre i duecento e più bambini, tutti in carovana, tutti in festa con suoni e canti per celebrare non so quale cazzo di ricorrenza, abbiano imboccato il vicolo incassato in mezzo alle case fatiscenti? Sembra una cosa architettata apposta da un’entità malevola. Tutti quanti schiacciati sotto le macerie, non se n’è salvato neppure uno. Sopra di noi, dallo spazio, domina il mondo un Extraterrestre Onnipotente con un carattere sadico…».

    Ma nessuno raccolse la blasfema provocazione escatologica.

    «Lo conosco bene», riprese il signor Palazzari senza far caso all’interruzione dell’avvocato. «Una volta l’ho scambiato per un fantasma».

    «Chi?», chiese Giuliano, distratto da Olimpia che avvicinava il naso alla bigiotteria esposta in vetrina, la sbagliava per una potenziale cliente.

    «Quel tizio che dicevi. Quello grigio che sembra un sorcio frettoloso. Il fantasma…».

    Al signor Nino Palazzari piacevano le storie d’occultismo. Raccontava spesso di un’antenata della sua famiglia regolarmente beatificata dal Papa, il cui cadavere giaceva in un convento di Messina, dimenticando che la leggenda metropolitana, gabellata per storia autentica, era risaputa fino alla nausea dai frequentatori dell’Homo Sapiens. Il corpo della santa sarebbe rimasto quasi intatto, a sentir lui, benché fosse morta nel Milleseicento. Secondo il Palazzari, le unghie continuavano a crescere all’antica zia, le suore del convento gliele tagliavano di tanto in tanto per venderle ai fedeli come reliquie.

    Lo scroscio improvviso della pioggia che rinforzava vinse il fruscio delle automobili sull’asfalto bagnato di via de’ Benci.

    Il signor Palazzari ridacchiava. Stronfiava col naso affogato nella nicchia fra il bavero del cappotto e la sciarpa: «Calogero Catanese, lo conosci?».

    «Quello delle truffe? Come no!», annuì Giuliano con una smorfia di disgusto.

    «Il Catanese riuscì a sfilargli dalle mani, al tizio che dicevi, quello che passa sempre qui davanti, una collezione di francobolli importante. Roba da duecento milioni, più o meno. Il sorcio grigio se l’era procurata pezzo a pezzo spigolando per anni negli archivi delle famiglie cittadine d’alto lignaggio. La cedette al Catanese in cambio di un vitalizio: mezzo milione al mese, avevano fatto il contratto scritto e tutto. Il gentiluomo Catanese pagò per tre o quattro mesi, poi smise. Il tizio fantasmatico… Non ricordo come si chiama…».

    «Si chiamava Jacopo Brancas», precisò Giuliano, «Ticchie di soprannome».

    «Ecco, proprio lui: Ticchie. Perché gli dicono così? La ragione dei nomignoli che affibbiano a Firenze è spesso incomprensibile. A me, per esempio, da giovane, quando studiavo qui all’università, mi chiamavano Nino Grappino. Perché?».

    «Sarà che in gioventù alzavi un po’ il gomito?», congetturò Giuliano.

    «Eh già, il povero Ticchie… Ora che ci penso, forse è l’abbreviazione di lenticchie. Il Brancas a furia di finirsi gli occhi sulle zampe di gallina dei manoscritti non vede sette in un olmo. E porta un paio di occhialini con la montatura di metallo, ma piccini, di tipo vecchio, tondi tondi… Sentite cosa mi va a capitare…». Di nuovo Palazzari soffocò il riso nel cappotto: «Ticchie sapeva che ero amico del Catanese, lo conoscevo fino dall’università. Anche gli amici non si possono scegliere sempre. Il Ticchie venne da me con le lacrime agli occhi, poveraccio. Mi pregò di intercedere col truffatore. Che gli rendesse la collezione di francobolli era escluso, s’era messo il cuore in pace. Ma almeno che gli pagasse una parte del vitalizio, non ogni mese, magari uno sì e l’altro no, se non la somma periodica per intero, almeno la metà… Presi l’impegno di parlare al Catanese, perché mi fece compassione. Ticchie non riusciva a sfangarla neppure per mangiare. Così ogni volta che incontravo il pataccaro, lo vedevo spesso all’epoca: "E pagalo, accidenti a te, sistemalo in qualche modo, dagli una cifra una tantum, ti sei messo a castigare i poveri cristacci, ora? Fai schifo…". E via di seguito… Ogni volta gli mettevo il tormento, una spina nel fianco, un grillo parlante».

    Olimpia ne aveva abbastanza di aspettare sotto l’acqua. Chiuse l’ombrello, lo scosse, si decise a entrare nel negozio: «Avvocato: o allora? In studio una persona t’aspetta dalle cinque», disse sottovoce.

    «Ora vengo», sbuffò Scalzi.

    «Un giorno», continuò il signor Palazzari, «ho appena incominciato la giaculatoria, che il Catanese mi stoppa subito: Come non lo sai? Il misero Brancas alias Ticchie è morto. Saranno tre mesi che defunse. Morto di fame, farabutto, penso io. Ma sono contento che la faccenda si sia conclusa in qualche modo, cominciavo a stufarmi. Non ho motivo di dubitare perché in effetti da un pezzo il Ticchie non lo vedevo più in giro. Passa un po’ di tempo, non ricordo quanto. Una sera… come oggi, una sera piovosa, me ne sto qui… cioè: dall’altra parte della via, sotto il loggiato del bar delle Colonnine. Aspettavo che spiovesse per attraversare e venire qui da te, venivano giù le funi, come ora. Mi sembra di vederlo, di vedere il Ticchie, grigio sul grigio, fermo sulla cantonata all’angolo con via de’ Neri. Un abbaglio, di sicuro: fra la pioggia e le luci da mortorio di questo crocicchio… Ma poi lo vedo che attraversa, pallido come un cencio, lento lento, un passettino dietro l’altro. Tiene gli occhi fissi su di me, lo sguardo rampognoso. Quando arriva in mezzo al crocevia, non ho dubbi: è lui! Ma sono così convinto ch’è morto, che sento un brivido ghiaccio nella schiena. A un imbroglio del Catanese non ci penso neppure, svio gli occhi che mi fissano, il brivido mi scende dalla schiena fino ai calcagni, si ferma nel culo e me lo stringe che non ci passerebbe un capello. Sono convinto ch’è uno spettro uscito dall’oltretomba per rinfacciarmi di non essere intervenuto con esito positivo col truffatore. Il fantasma del Ticchie mi passa a fianco senza salutare, scivolando come sul ghiaccio. Quando s’accosta alla porta del bar delle Colonnine, sono sicuro che ci passerà attraverso, mi meraviglio quando m’accorgo che la spinge normalmente. Riprendo un po’ il filo di come vanno le cose normali di questo mondo infame quando lo sento ordinare un cappuccino. Ma la strizza di sedere s’allenta solo quando glielo vedo bere».

    «Se lo incontrassi oggi», disse in tono malinconico Giuliano, «sarebbe un fantasma per davvero. L’ho saputo martedì scorso all’Osteria de’ Benci. Lunedì hanno trovato Ticchie morto stecchito, seduto a un tavolo di una stanzetta riservata nella Biblioteca Nazionale. Ma pare che avesse lasciato la valle di lacrime da due giorni. Dal sabato prima, almeno, il sorcio si confondeva anche coi libri, non solo coi muri, si vede. Dice che incominciava a puzzare, per questo uno studente s’è accorto ch’era morto».

    «L’ho saputo anch’io. Me n’ha parlato un’impiegata della biblioteca. Ma dice ch’è stato ammazzato», disse Olimpia, allegra perché le storie macabre le piacevano. «Prova ne sia che da lunedì una camionetta della Squadra Mobile sta ferma in permanenza davanti alla Nazionale».

    II

    Nero

    L’ammazzamento del Brancas non fece granché notizia. Sarebbe stato un mistero che i giornali in tempi diversi ci sarebbero andati a nozze.

    Per cominciare, il modo in cui l’avevano ucciso, tecnica non comune, ma da professionisti, garrottato alle spalle con una corda. Quando l’avevano trovato, stava col capo chino sul libro antico che aveva davanti, il colletto a girocollo del maglione mimetizzava il segno rosso del laccio, probabilmente metallico, con cui era stato strangolato.

    Al Ticchie, forse per alleggerire la biblioteca da una presenza che avviliva l’ambiente, la direzione aveva destinato uno stanzino che in passato serviva da deposito di libri da restaurare. Un posto molto defilato, che Brancas condivideva in tempi più recenti, allo stesso tavolo, con un altro ricercatore anziano, ma più ben messo di lui.

    Il compagno consueto era assente fino dal sabato, e il suo posto occupato, precariamente, da uno studente extracomunitario.

    A farci un minimo d’attenzione, la testa dell’ucciso appariva piegata in maniera innaturale, di traverso e allentata, come un pollo cui avessero fatto la festa.

    Ma lo studente seduto di fronte al morto era troppo preso dal Libro rosso degli Ufficiali dell’Onestà. Lo andava consultando nel manoscritto originale. La sua tesi d’argomento storico e sociologico riguardava l’ambiente peccaminoso di Firenze nel Rinascimento. Comprendeva un’analisi giuridica sulle tasse e sui balzelli imposti dal Comune alle prostitute che fra il quattordicesimo e il sedicesimo secolo abitavano l’area del Mercato Vecchio, piena di bordelli e di professioniste da strada, in tale numero, così invasive e prepotenti che una delle zone centrali della città era ridotta a una specie di quartiere a luci rosse. Il Libro degli Ufficiali dell’Onestà, in latino imperfetto, e scritto con una grafia burocratica svolazzante, era difficile da decifrare. Così, lo studente per quasi tutta la mattina non aveva fatto caso al compagno di tavolo. S’era accorto di stare davanti a un cadavere solo dopo mezzogiorno suonato. Soltanto allora s’era reso conto che l’odore cattivo non usciva dal contenente, cioè dagli abiti da straccione indossati dalla figura immobile dirimpettaia, ma dal contenuto stesso. Diceva il giornale che lo studente distratto, dopo avere inquadrato la situazione, era andato in bagno di corsa a vomitare.

    Il movente, poi, misteriosissimo. Chi poteva avercela con il Ticchie, di mestiere archivista, che sbarcava il lunario con ricerche bibliografiche, commissionate quando gliele commissionavano, negli ultimi tempi piuttosto di rado?

    I non doviziosi incarichi gli venivano innanzitutto dall’Istituto Araldico, che gli faceva scavare quarti di nobiltà per conto di bottegai ambiziosi, spesso forzandogli la mano e la naturale onestà. Qualche altro incarico gli arrivava da un notaio riguardo a piccole beghe d’eredità. Alcuni studiosi d’arte, da potersi contare sulle dita d’una mano, si facevano aiutare da lui quando stavano per dare alle stampe un libro che comprendeva una parte storica sulla Firenze antica. Il Ticchie aveva fama di essere preparatissimo nel ramo, da farci sicuro affidamento quanto alle fonti e all’attendibilità dei dettagli.

    Ma era un’occupazione, la sua, destinata a scomparire. Negli attuali tempi democratici, di bottegai che ambivano alla coroncina da apporre sopra il nome nei biglietti da visita se ne trovavano sempre di meno. E sempre più rari gli scrittori d’arte che ritenevano indispensabile documentarsi sul piano storico. La maggior parte si considerava più à la page esercitando il linguaggio ermetico della critica estetica.

    D’altra parte il bel sole di Internet stava spazzando via tutti i topi di biblioteca di questo mondo. Ripulisti generale, niente più roditori incanutiti dalla polvere degli antichi volumi, finito di rovinarsi gli occhi tentando di decifrare incunaboli e vecchie scartoffie, quando bastava cliccare una voce, e aspettare pochi secondi: persino le biblioteche in sé, ormai, che senso avevano?

    Sicché mistero fitto sul cur e sul cui prodest.

    Sennonché, a spegnere la connaturata sete dei cronisti per l’inesplicabile, c’era il fatto che la città ne aveva abbastanza di misteri. A Firenze il noir era diventato tanto di casa da non fare più notizia. Negli ultimi anni la città sembrava destinata alle matasse aggrovigliate al punto da non potersi sbrogliare.

    Senza contare i delitti del mostro, c’era la serie di puttane uccise in casa propria o altrove, da tal tempo invendicate dalla giustizia, da essere cadute nell’oblio generale. Una più, una meno, con tante che ce n’erano di tutti i colori, dal bianco latte delle slave, al nero come la notte delle nigeriane, taccheggianti sui viali di circonvallazione, alla stazione, sui Lungarni, chi se n’importava, se qualcuno, bontà sua, di tanto in tanto sfoltiva il bel numero? Tanto più che le uccisioni riguardavano donne straniere: africane, albanesi, mitteleuropee, russe, lasciando indenni quelle che frequentavano le viuzze intorno al Mercato di San Lorenzo, meno ostiche e più amichevoli, inquinanti si anch’esse, ma una zona destinata da secoli ai commerci d’amore mercenario. Forse per questa ragione gli ammazzamenti efferati delle prostitute foreste non facevano più notizia.

    Poi c’erano gli omosessuali uccisi nottetempo alle Cascine. Essi pure in sì grande copia, e i delitti avvolti nelle tenebre di tanto fitto mistero che l’amministrazione comunale si dibatteva in un dilemma: o dotare le Cascine di un’illuminazione sfarzosa, così sostituendo le palle giallastre cimiteriali, che invece di vincere l’oscurità la rendevano più sinistra, o mettere cancelli sui viali d’accesso, e chiudere il parco di notte. Dinanzi all’aut-aut i reggitori della cosa pubblica avevano optato per la politica consueta, cioè lasciare le cose nella penombra in cui stavano.

    S’aggiungevano i due nobiluomini accoltellati nel palazzo avito. Quindi il negoziante di arredi sacri trucidato barbaramente con trenta colpi di coltello nella sua bottega in pieno centro storico alle nove del mattino… Pareva che il mistero avesse scelto Firenze come patria d’elezione. Calcare troppo la mano sui delitti irrisolti rovinava il turismo.

    Quest’ultimo omicidio pareva proprio un rebus capzioso, escogitato apposta per far scervellare senza costrutto gli inquirenti.

    Dopo una settimana che il delitto aveva tenuto le pagine nazionali e i notiziari della televisione, il Brancas finì in cronaca locale, finché in meno di due settimane sparì del tutto, neanche fosse morto un sorcio per davvero.

    Non bastò tuttavia il trascorrere di quindici giorni per spegnere nel negozio Homo Sapiens l’interesse per la vicenda. Giammai il delitto aveva toccato l’ambiente della conventicola tanto da vicino. Non esisteva solo la conoscenza della vittima da parte del signor Palazzari, conoscenza superficiale, seppure accentuata dalla singolarità dell’episodio del fantasma, a tener desto l’argomento. C’era anche il fatto che il Ticchie era stato un amico intimo di Niccolò Pasquini, un altro frequentatore della bottega di antichità orientali.

    Pasquini, ribattezzato il Messia, con soprannome blasfemo quanto pomposo, capitava di regola nell’Homo Sapiens con periodicità mensile. Lo scopo delle sue visite era duplice: da un lato lo spionaggio, e dall’altro la maldicenza.

    Niccolò si considerava un concorrente di Giuliano, poiché faceva commercio delle medesime cose asportate dal lontano Oriente. Ma il suo esercizio era situato in una zona periferica, molto distante dalla riva turistica dell’Arno, in prossimità della quale si trovava invece il negozio Homo Sapiens. Sicché, quale concorrente? Ma Pasquini era un tipo fatto così, che vedeva sempre il lato competitivo delle cose. Da Giuliano si trovavano cose analoghe a quelle che vendeva lui? Giuliano visitava gli stessi posti, percorreva il medesimo itinerario esotico? E allora la concorrenza c’era, e non importava che l’Homo Sapiens vendesse a turisti stranieri, in special modo americani, che transitavano per il Borgo Santa Croce tagliando il tragitto fra gli Uffizi e la Basilica, e che lui, Niccolò, avesse invece una clientela fissa di collezionisti ai quali faceva pagare la stessa roba offerta da Giuliano tre volte tanto. Il negozio Homo Sapiens andava comunque tenuto d’occhio, esercitando la sagacia e la capacità, degna d’un confessore professionista, di penetrare i segreti del concorrente.

    Dall’altro punto di vista, Pasquini, il quale vedeva molto di rado persone per intavolare una conversazione onde ammazzare il tempo nella sua botteguccia periferica, priva di nome, soffocata nel quartiere di palazzine modernissime – il Messia commerciava soprattutto per corrispondenza – si sentiva stimolato dal pubblico sempre presente nell’Homo Sapiens a dar sfogo alla sua linguaccia maldicente. Di questo era maestro: nella divulgazione di cose segrete, di genere sessuale innanzitutto, riguardanti questa

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1