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Caravaggio enigma
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E-book368 pagine5 ore

Caravaggio enigma

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Info su questo ebook

Dall'autrice di Cospirazione Caravaggio
Ai primi posti delle classifiche italiane

Un grande thriller

Quale segreto nasconde il pittore maledetto?

Il giovane Michelangelo Merisi da Caravaggio è cresciuto come un reietto. Cacciato dalla famiglia, ancora adolescente è stato costretto a fuggire da Milano perché accusato di omicidio. Quando arriva a Roma, solo e senza un soldo, scopre presto che l’accecante bellezza della città nasconde anche un aspetto pericoloso e sinistro: sopravvivere nel quartiere degli artisti significa destreggiarsi tra ricchi committenti e spietati criminali. Sotto la protezione del potente cardinale del Monte, Caravaggio inizia la sua turbolenta ascesa, intrecciando una relazione con la musa Fillide, “la più famosa puttana di Roma”. Con la gloria cresce però anche la sua arroganza, e Caravaggio si troverà a un bivio dal quale non potrà più tornare indietro. Di nuovo nella polvere, di nuovo in fuga, con una taglia sulla testa. Tra gli splendori dell’arte e i violenti piaceri della carne, questa è la travolgente, enigmatica storia di un uomo fuori dal comune. 

Dall’autrice del bestseller mondiale Cospirazione Caravaggio

La storia del pittore maledetto sta per essere riscritta
I misteri della sua vita nascosti nei suoi capolavori

Hanno scritto di Cospirazione Caravaggio:

«Il giallo di Alex Connor, ai primi posti della classifica dei libri più venduti, è ambientato nel mondo dell’arte.» 
Il Corriere della Sera

«Un thriller bestseller. Un’autrice che possiamo definire, senza ombra di dubbio, la nuova Dan Brown al femminile.»
Libero

«Un thriller scritto ad arte, una trama elaborata fitta di colpi di scena di cui sono protagonisti uomini avidi e ambiziosi.»
Tu Style
Alex Connor
È autrice di molti thriller e romanzi storici, perlopiù ambientati nel mondo dell’arte, tutti bestseller e in cima alle classifiche di vendita. Lei stessa è un’artista e vive in Inghilterra. Cospirazione Caravaggio, uscito per la Newton Compton nel 2016, è diventato un bestseller immediato. Con Il dipinto maledetto ha vinto il Premio Roma per la Narrativa Straniera. Caravaggio enigma è il primo romanzo di una nuova trilogia.
LinguaItaliano
Data di uscita3 ott 2017
ISBN9788822715074
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    Anteprima del libro

    Caravaggio enigma - Alex Connor

    INFANZIA

    Caravaggio, Lombardia

    Comincerò da quando avevo cinque anni. Sì, cinque. Poco più di un bambino. A prescindere da tutto quello che è stato scritto su di me, da ciò che si pensa, a quei tempi facevo parte di una famiglia, con una madre, un padre, un nonno, fratelli e sorelle. Imparai presto a leggere e a scrivere; non eravamo contadini e godevamo della protezione del marchese Francesco i Sforza di Caravaggio, sposato a una donna della potente famiglia Colonna. Mio padre, Fermo Merisi, lavorava alle sue dipendenze. Come ho già detto, non eravamo contadini. Di umili origini, neanche tanto poi, ma con i contatti giusti. Facciamo chiarezza fin dal principio, non ero uno zotico di campagna, checché ne abbiano detto.

    Correvo insieme ai miei fratelli, mi prendevano in giro perché ero un tenero piccolo toro. Con la corporatura robusta, gli occhi neri, sempre a inseguire gli animali nei campi e a scalare il muro del panettiere. Quell’estate faceva caldissimo, i grilli chiacchieravano nell’erba alta. Vicino a casa nostra c’era uno stagno dove nuotavamo nudi, finché un pomeriggio non rimasi impigliato nei giunchi e rischiai di annegare. Mio fratello mi riportò a casa, inerme tra le sue braccia, e mi finsi morto per godermi le premure di mia madre. In quei pochi istanti ricevetti tutta la sua attenzione; si addolorò, pianse per il figlio perduto, e io tenni le palpebre chiuse mentre la sentivo gemere in preda allo sconforto. Quando aprii gli occhi e risi, non comprese l’umorismo del mio scherzo. Anzi, mi sgridò, e io corsi fuori di casa, nel campo.

    Ma lì mi fermai di colpo, perché era cambiato qualcosa. I grilli erano scomparsi, c’era un silenzio fitto e assoluto, e il cielo era diventato di un color porpora velenoso che oscurava il sole.

    Per il resto della mia vita, mia madre continuò a ripetere che quella morte infantile era stata una premonizione, facendomi gravare sulle spalle un senso di colpa che non mi ha mai abbandonato. Vedete, quella notte a Milano arrivò la peste, e io credetti – e forse lo pensavano anche loro – di esserne la causa. La mia famiglia era religiosa, superstiziosa, le mie azioni erano una tragedia premeditata. Basta arrampicarsi sul tetto del panettiere, basta stare a guardare mio padre, scalpellino, mentre sudava sopra i blocchi di pietra, basta sdraiarsi sotto le stelle ad aspettare l’arrivo di una luna estiva. Avevo solo cinque anni e la morte che avevo inscenato era diventata realtà.

    Quell’estate imparai una lezione sulla morte.

    Uno

    Datemi un bambino nei primi sette anni di vita e io vi mostrerò l’uomo.

    (Dottrina gesuita)

    Milano, 1576

    Quando a Milano tornò la peste, il cielo era fitto di mosche. Sopra una densa cortina di nubi, un sole malsano si lagnava dall’alto mentre la città sottostante brulicava di ratti. Gli stessi roditori che portavano le pulci, colpevoli della pestilenza. La malattia si era diffusa in modo esponenziale nel giro di pochi giorni: alcuni parlavano di una maledizione, dell’indescrivibile tortura dei corpi con le emorragie interne, gonfi di pus; altri accusavano gli ebrei di Venezia, che avevano venduto merci d’importazione. Un altro pettegolezzo parlava degli untori, spagnoli che avevano diffuso il morbo contaminando mura e androni. Furono accusati persino i turchi che occupavano l’Ungheria. E la Chiesa? I sacerdoti dicevano ai fedeli che la peste era una sentenza, una punizione di sangue. Cercarono di calmare le loro comunità; forse la malattia sarebbe passata in fretta, forse non si sarebbe rivelata letale come in passato.

    Nella prima settimana, la famiglia Merisi fu risparmiata. Nel calore stordente, i vicini cominciarono a contrarre il morbo uno dopo l’altro, e le porte delle loro case furono bloccate dall’esterno per evitare che uscissero. La famiglia Merisi, invece, poteva ancora andare e venire a piacimento, e Lucia Merisi, pia e nervosa, pregava incessantemente e andava a fare visita alle chiese e alle croci della peste che avevano cominciato a fare la loro comparsa.

    «Entra, Michele», lo ammonì sua madre, prendendolo per un braccio. «Non toccare niente, non toccare le pareti, stammi vicino». Girarono alla larga da un mucchio di sporcizia marcescente in mezzo alla strada, un topo sgattaiolò in un vicolo. «Rimetti il panno davanti alla bocca».

    Lui ubbidì e le corse dietro per tenere il passo.

    Donna sempre devota, si consolava dicendosi che Dio avrebbe risparmiato la sua famiglia. E per un po’, Lui la esaudì. Ma Milano era in tumulto persino prima che la peste colpisse. Governata dagli spagnoli, la città era vicinissima alla Francia, la rivale europea della Spagna, allora in preda alle guerre di religione. Con una guarnigione di ottocento soldati, la Spagna controllava Milano con la violenza e l’intimidazione, e il cardinale dal naso aquilino, Carlo Borromeo, aveva un suo esercito personale. Gli austeri tentativi di tenere sotto controllo la moralità milanese condussero a un attentato fallito, e il suo proibizionismo draconiano portò i cittadini ad accusarlo di aver messo Dio contro Milano, soprattutto dopo una serie di raccolti guastati e di carestie. Fu in questo scenario, in un tale ribollire di risentimento, che attecchì la pestilenza.

    Sentendo la presa di sua madre sul braccio, Michele sollevò lo sguardo. Stava fissando un punto di fronte a sé e stringeva il rosario, il viso ovale pallido come un cammeo in contrasto con i capelli scuri. Riusciva a percepire il rimprovero insito nella stretta; non aveva detto niente, nessuna parola severa, c’era stato solo un terribile cambiamento. Non lo guardò dritto in faccia, non l’aveva più fatto dall’incidente dello stagno, teneva gli occhi lontani da lui. Era diventata diffidente, il gesto lo dava chiaramente a intendere, e il bambino di cinque anni avvertì un lento e terrificante declino d’amore.

    Il loro incedere fu subito interrotto da un sacerdote, e Lucia piegò la testa, con la mano ancora stretta attorno al braccio di Michele. «Stiamo andando in chiesa, padre».

    Lui annuì, cereo ed esausto, costretto in un ruolo da cui desiderava fuggire. Ma se Borromeo in persona restava in città e andava a fare visita alle vittime della peste, come poteva lui ritrarsi dai suoi doveri? Specie quando il cardinale aveva dato istruzione a tutti i sacerdoti di dare la comunione ai malati e ai moribondi.

    «Venite a messa?», domandò padre Stefano.

    Lucia annuì mentre il prete lanciava un’occhiata al bambino al suo fianco. Rammentava l’ultima confessione della donna; le labbra quasi premute contro la griglia del confessionale, spaventata all’idea di essere udita dagli altri fedeli. Aveva cercato di parlare più di una volta, ma le parole le erano venute a mancare, e lui l’aveva incitata.

    «Prenditi il tempo che ti serve, figlia mia».

    «Si tratta di Michele», aveva detto alla fine. «Sono preoccupata per lui».

    La pausa, il fruscio sulla panca di legno, le labbra riaccostate alla griglia. «Possibile che Dio punisca un bambino?».

    Un attimo di sorpresa. «Cos’ha combinato?»

    «Michele ha fatto finta di essere morto, di essere annegato. Per un momento, era morto davvero. Dico sul serio, padre. Poi si è ripreso, si è messo a ridere ed è uscito di corsa nei campi».

    «È stato uno scherzo infantile…».

    «No», aveva insistito lei, «se n’era andato, e poi è tornato indietro… e quella notte è arrivata la peste».

    Il sacerdote aveva provato a consolarla, a dirle che non era successo niente, ma lei aveva dissentito. Michele aveva avuto una premonizione, insisteva. Si era preso gioco di Dio.

    «È un bambino, non aveva intenzione di fare alcunché», aveva replicato il prete. «Non si può ritenere responsabile di ciò che sta accadendo».

    Sapeva che non gli aveva creduto e che si era arrabbiata, che la paura tramutava gli incidenti inoffensivi in presagi. Non aveva forse sentito parlare di famiglie che si azzuffavano tra loro, abbandonando i malati? Persino i bambini. Quando venivano chiamate a risponderne, le madri negavano di aver sacrificato la prole. No, quello non è mio figlio. Non lo conosco.

    La follia era nell’aria, penetrava le mura dalle quali erano circondati e la mente delle persone timorose.

    «Non potete lasciare la città e andare in campagna?», aveva chiesto. I ricchi erano già partiti, e anche se i Merisi non erano abbienti, avevano contatti influenti. «Se potete, partite. Se avete qualcuno che vi possa dare una mano, chiedetegli di portare via la vostra famiglia e aspettate che il peggio sia passato».

    Ma le offerte d’aiuto non erano arrivate e loro erano ancora in città. La peste si diffondeva giorno dopo giorno, e le possibilità di sopravvivenza si riducevano ogni ora. Le case dei contaminati erano già state barricate dall’esterno per mantenere confinato il contagio e i senzatetto erano stati rinchiusi nel famigerato lazzaretto, l’imponente edificio circondato da un fossato che era stato eretto durante una precedente epidemia di peste. I defunti venivano ammucchiati all’interno delle sue mura oscure, in attesa di essere raccolti dagli odiati monatti, coloro che raccoglievano i corpi. Il lazzaretto era un posto per cadaveri, dove ogni rivolta finiva sedata a suon di frustate, dove i monatti lavoravano in branco, azzardandosi a contravvenire agli ordini del cardinale pur di mettere le mani sui beni di valore dei defunti.

    Con il trascinarsi dei giorni, alcuni cittadini imprigionati nelle loro case impazzirono, vedendo perire uno dopo l’altro i membri delle rispettive famiglie. Alcuni morirono di fame, perché nessuno portava loro da mangiare; altri, in preda alla disperazione, si tagliarono i polsi o la gola; chi era immune alla malattia urlava e scuoteva le porte barricate, supplicando di essere liberato.

    E mentre le loro grida riecheggiavano per le strade, i medici della peste, con le maschere a becco d’uccello riempite di mazzetti d’erbe, si occupavano dei moribondi. Mascherate e irriconoscibili, le figure con le toghe nere si muovevano come un coro di demoni, aggirando i mucchi di rifiuti sulle strade. Si sparse la voce che non tutti i medici fossero degni di fiducia; non erano ciò che sembravano. Un uomo, in chiesa, giurò di aver strappato via la maschera da uccello dalla faccia di uno di loro, e di averci trovato non un viso, ma solamente un teschio. La paura crescente generò altra follia, il bisogno di un capro espiatorio, di un mangiatore di peccati che allontanasse la peste da Milano.

    Nelle case con i battenti chiusi, le famiglie pregavano rannicchiate negli angoli mentre gli editti proibivano di abbandonare la città. Imprigionate, confinate, mentre la peste serrava la sua presa letale, i sintomi inconfondibili. Febbre, vomito, diarrea e il marchio della morte, i bubboni, e i corpi delle vittime sanguinavano dall’interno all’altezza di collo, inguine e ascelle, stillando sangue e pus. Al momento del trapasso, i cadaveri erano cosparsi di chiazze nere e viola di tessuto imputridito. Il cielo aveva perso la sua tonalità azzurra e si tingeva di una cupa sfumatura violacea persino prima che calasse la notte. Imitava il livore dei defunti, con le nuvole che lo imbrattavano di nero, e l’empio cicaleccio di grida e preghiere si riduceva al silenzio mano a mano che morti e moribondi si contendevano un po’ di spazio. In strada, la gente cadeva mentre camminava, c’erano cadaveri ammassati negli angoli, e i tanto odiati monatti continuavano ad arrivare e a reclamare le vittime.

    Solo i criminali, i ladri, gli assassini e gli stupratori accettavano il lavoro più pericoloso, per denaro, e ricevevano un compenso per ogni cadavere raccolto. Un bottino di sangue. Ne valeva la pena. Se avessero contratto la peste, sarebbero morti. In caso contrario, sarebbero diventati ricchi… Maneggiavano i corpi che ancora trasudavano pus con le mani protette dai guanti. Spostavano bambini, anziani, persone che fino a pochi giorni prima godevano di buona salute. Mercanti e scalpellini, mogli o meretrici, cosa importava alla peste di quale fosse la loro estrazione sociale?

    Arrivavano di notte, con i carretti che arrancavano nei vicoli angusti; udibili molto prima di essere visti. Spesso ubriachi, violentavano le donne in punto di morte che non si potevano difendere ed esigevano pagamenti dalle famiglie disperate per evitare di portare via anche i vivi. I poveri che non avevano soldi vedevano i familiari caricati di peso sui carri insieme ai morti, e chi respirava ancora scompariva sotto una pila crescente di cadaveri.

    La conta delle vittime continuava a salire.

    A Milano, in quella terribile estate, c’era un’afa insolita. I ratti impazzirono a causa del caldo e le pulci saltarono via dai loro corpi morenti per cercarsi un’altra casa. Un cane di passaggio, un medico mascherato, un sacerdote che andava di fretta, non aveva importanza, la peste si diffondeva a ogni movimento. E in quel malsano calderone fumante, la gente cercava qualcuno da incolpare.

    Persino un bambino.

    «Lasciate la città, scappate al sicuro, è la vostra unica speranza», ripeté padre Stefano, lanciando un’occhiata al ragazzino accanto a sua madre. Occhi scuri, aria di sfida, non era il bambino che ricordava di aver visto solo poche settimane prima.

    «Non dare la colpa al bambino».

    Ma l’aveva già fatto. E suo figlio lo sapeva.

    Due

    Dopo aver atteso che i familiari si fossero addormentati, Michele strisciò giù dal letto e si fermò a vedere se avesse svegliato i fratelli. Una volta sicuro che non si fossero mossi, scese al piano di sotto, aprì la porta e scivolò in strada. Il prete aveva ragione, era cambiato. Non era più il figlio adorato, era evidente sia dalle occhiate del fratello che dal riserbo di sua madre. Solo il rapporto con suo padre era rimasto invariato, ma Fermo Merisi non era un uomo perspicace. Buono, ma emotivamente ottuso, incapace di percepire il cambiamento, l’allontanamento tra il figlio di cinque anni e il resto della famiglia. Inoltre, era troppo preso dai propri pensieri, concentrato sulla preoccupazione di portare via la famiglia dalla città. Le persone, persino i genitori, sottovalutano le afflizioni di un bambino. Fermo non era crudele, ma non riusciva a capire che all’interno del suo nucleo familiare ci fosse un ragazzino sofferente.

    Abbastanza piccolo e agile da sgusciare via da ogni guaio, Michele si allontanò in fretta verso un vicolo, poi si arrampicò su un tetto non troppo alto, si distese a pancia in giù e osservò la strada sottostante. Prima aveva pianto con il viso affondato nel cuscino e la bocca chiusa, tenendosi dentro i singhiozzi. I fratelli, un tempo alleati e adesso rivali, dormivano tranquilli accanto a lui, ma quando li aveva guardati in faccia era riuscito a immaginarli morti. E sarebbe stata colpa sua. Era stato lui a portare la malattia.

    Non l’aveva forse sentito dire a sua madre quando aveva parlato con il prete? Non aveva forse visto gli sguardi accusatori che gli lanciava la gente? Ecco il ragazzino, ecco il colpevole… Era lui la causa di ogni morte, la sofferenza degli estranei era colpa sua, e la peste avrebbe potuto colpire la sua famiglia da un momento all’altro. O magari sua madre lo avrebbe abbandonato? L’avrebbe lasciato indietro se mai fossero riusciti a fuggire dalla città.

    In cima al tetto, Michele afferrò una manciata di rena e polvere, strinse con forza i pugni e si sfregò il viso con i palmi insanguinati. Provò un senso di disperazione che gli fece sussultare il cuore, una fitta di solitudine, il presentimento di un’altra tragedia. Riaffiorò un ricordo, avvertì il gelo dell’acqua dello stagno, i lunghi giunchi che gli agguantavano le gambe, i polmoni che si riempivano, il panico che lo faceva sudare. Sarebbe stato meglio se fosse annegato davvero… Dal basso giunse un rumore, fu l’istinto ad avvertirlo, e Michele sbirciò giù sentendo il carro in avvicinamento.

    Stavano arrivando i monatti.

    Solo pochi giorni prima sarebbe scappato da sua madre in cerca di riparo; solo pochi giorni prima non avrebbe mai lasciato casa sua. Ma quei giorni erano finiti, ed era spaventato e affascinato allo stesso tempo. Trattenendo il fiato, Michele attese il loro arrivo. Ne vide dapprima le ombre, spiriti neri come la notte, distorti, sagome animalesche sui muri, poi li sentì entrare nel vicolo e ne osservò i volti illuminati dalle torce accese. Il bagliore rischiarava la superficie piatta di guance e fronti, le ombre si scurivano sotto i menti. Non erano volti familiari delle zone rurali della Lombardia; non erano volti di uomini che coltivavano i campi e raccoglievano i meloni. Erano visi rozzi, profondamente scavati, con le teste rasate e i denti rotti. Visi crudeli, con occhi spenti e subdoli, con arti grossi e sgraziati.

    Michele li osservò dalla sua posizione sopraelevata. Aveva sentito le voci che giravano, sapeva quanto fossero temuti. Erano uomini malvagi ai quali i preti rifiutavano di dare la comunione. Più odiati della peste stessa. E li odiava anche lui, con tutto il suo cuore da bambino. Si chiese perché non dessero a loro la colpa della pestilenza, perché avessero scampato il castigo mentre lui stava soffrendo. Mentre sbirciava dal bordo del tetto, vide uno dei monatti aprire la patta dei calzoni e pisciare contro il muro, proprio sotto il suo nascondiglio. Sentì il fiotto e poi il gocciolio dell’urina, persino l’odore mentre il rigagnolo giallo defluiva nel vicolo.

    Distolse lo sguardo dagli uomini e lo posò sul carro, su un cadavere disteso a gambe divaricate, con un braccio piegato sotto il corpo. Non aveva mai visto un uomo morto: gli arti anneriti, il viso contorto, gli occhi chiusi sopra la bocca aperta, come un supplice che invocava il paradiso. Stava pregando? Era morto mentre pregava? In tal caso, Dio non l’aveva sentito. Forse Dio non aveva udito neanche le sue preghiere. Michele si rimproverò, Dio lo aveva sentito eccome, doveva avergli prestato ascolto, perché nessun membro della sua famiglia si era ammalato.

    Mentre fissava il cadavere, i monatti fermarono il carro e cominciarono a tempestare di pugni una porta che affacciava sul vicolo.

    «Aprite, cazzo! Sappiamo che dentro c’è un corpo!». Urlarono ancora per reclamare il cadavere. «Sappiamo che dentro c’è un corpo!». E la porta si socchiuse di un centimetro appena, ma fu sufficiente.

    Con una spallata, gli uomini si fecero strada all’interno, poi trascinarono fuori il corpo floscio di una ragazzina. Indossava una camicia da notte, simile a quella della madre di Michele, ma il tessuto era irrigidito dal sangue secco e, quando la gettarono sul carro, sventolò come la vela di una nave. Atterrò sopra l’uomo morto, la testa si piegò di lato e le dita della mano sinistra si incurvarono verso il palmo. Michele fissò la scena nella luce tremolante delle torce. I cadaveri, rigidi come statue, gli ricordarono i tableaux vivants religiosi che aveva visto a Milano. Quadri viventi, ma non vivi. Reali, ma surreali. Macabri.

    I monatti sbatterono la porta in faccia ai familiari della ragazzina morta, poi sollevarono le impugnature del carro e cominciarono a spingerlo. Michele sgattaiolò sul tetto per seguirli. Non riusciva a distogliere lo sguardo dalla bambina. Aveva all’incirca la sua età, e lo commuoveva. Anche quella morte era colpa sua? Era stato lui a uccidere quella ragazzina? Si affrettò, non voleva perderla di vista, ma si fermò alla fine del tetto. Non poteva proseguire. Sopraffatto dalla rabbia e dalla frustrazione, si chinò e afferrò manciate di rena e ghiaia.

    Quando lanciò il primo pugnetto di sassolini, i monatti stavano uscendo dal vicolo. Il tiro andò perlopiù a vuoto, ma un uomo fu colpito alla spalla e si voltò, poi guardò su. Michele non si stava più nascondendo; quando lanciò la seconda manciata di ghiaia, si era alzato in piedi con aria di sfida. Se lo avessero inseguito, sapeva che sarebbe riuscito a seminarli, e la rabbia era più grande della paura. Facendo gesti osceni, il bambino di cinque anni li canzonò e imprecò come aveva sentito imprecare i contadini lombardi, poi gli sputò addosso dalla sommità del tetto.

    Profilandosi contro una luna malsana, agitò le braccia e lanciò grida isteriche, provocatorie, danzando come un pazzo e chiedendo a qualunque Dio si fosse messo in ascolto di punirlo.

    Tre

    Avevano in programma di lasciare Milano il giorno seguente, perché Costanza Colonna, moglie del potente marchese Francesco i Sforza, aveva usato la propria influenza. Alle prime ore del mattino, poco prima dell’alba, la famiglia si mise in attesa. La sera prima, Fermo aveva ricevuto notizia che sarebbero stati scortati di nascosto fuori città e si era assicurato che gli effetti personali fossero stati radunati e che la famiglia fosse pronta. Sapeva quale rischio avrebbero corso se fossero stati sorpresi a infrangere gli editti e il coprifuoco, perciò rimase seduto in silenzio, nervoso, con gli occhi incollati sulla porta.

    Sul tavolo in cucina ardeva una candela, che emanava poca luce; le finestre erano sbarrate e il calore rendeva irrequieti i bambini più piccoli. Persino Giovan Battista, il fratello minore di Michele, il bimbo tranquillo destinato alla carriera ecclesiastica, era insofferente. Impaziente, dopo aver fatto cenno ai figli di stare buoni, Fermo riportò lo sguardo sulla porta. Sua moglie Lucia sedeva al suo fianco, la testa chinata come se stesse pregando, mentre Michele se ne stava lontano dagli altri, nell’ombra. Passarono i minuti, l’orologio di una chiesa batté l’ora, ma non arrivò nessuno.

    «Sicuro che verranno a prenderci?».

    Fermo lanciò un’occhiata alla moglie e annuì. «Sì, verranno».

    Aveva smesso di pregare e giocherellava irrequieta con il laccio di cuoio di un borsone. «Presto arriverà l’alba…».

    «Verranno», la rassicurò lui. «Verranno. Costanza Colonna ha dato la sua parola».

    Tornarono a fare silenzio, e Michele li osservò dalle ombre. Al buio si sentiva al sicuro, nessuno poteva vederlo, e si era tenuto vicino alla porta per essere certo che lo portassero via con loro. Con la gola secca e la lingua impastata dall’agitazione, immaginava che i familiari se ne andassero e poi, all’ultimo momento, lo spingessero dentro casa e chiudessero la porta. Abbandonandolo, come la ragazzina morta che aveva visto la notte prima. Essere lasciato lì sarebbe stato il suo castigo. Il bambino sventurato, il bambino che aveva portato la peste.

    Alzò gli occhi sull’alta finestra sbarrata sopra di loro; di lì a poco, l’alba avrebbe fatto filtrare un sottile raggio di luce nella stanza, una striscia di chiarore sul pavimento… All’improvviso, uno dei suoi fratelli si agitò nel sonno, si lamentò, la testa appoggiata sulle braccia, accasciato sul tavolo.

    «Ssst», lo calmò Lucia, accarezzandogli i capelli. «Ssst».

    Nel bagliore della candela, Michele riuscì a scorgere la mano che tremava, le dita illuminate, il palmo nero. Nero come la pelle degli appestati… Ma sua madre non era malata, si rassicurò, nessun familiare era malato. Sarebbero scappati, sarebbero tornati in campagna, dai coltivatori di meloni, negli ampi campi aperti. Si sarebbe di nuovo arrampicato sul tetto del panettiere…

    Un rumore all’esterno spinse Fermo a balzare in piedi. Un raspare alla porta, poi una sorta di miagolio.

    «Non sono loro! Non aprite la porta», sussurrò.

    Si sentiva ancora raspare, il miagolio si tramutò in un gemito. All’interno, nessuno si mosse. Ogni notte, da quando era scoppiata l’epidemia, qualche moribondo girovagava per le strade e implorava di essere fatto entrare per evitare le guardie di pattuglia. Persone malate che erano state portate via dalle loro case, dalle loro famiglie. Infette e pericolose, si erano come inselvatichite; attente ai rumori del carro dei monatti in arrivo, si acquattavano contro i muri e negli androni. Si nascondevano nell’oscurità.

    Michele le aveva sentite parecchie volte; lo avevano svegliato, e lui si era tirato il lenzuolo fin sopra la testa e aveva cercato di attutire il rumore, ma quando si era riaddormentato, gli avevano fatto visita nei sogni, tetre figure che si profilavano fuori dalle tenebre e incombevano sopra di lui mentre l’acciottolio del carro dei monatti riecheggiava alle loro spalle.

    L’orologio della chiesa rintoccò di nuovo; era passata un’altra ora e l’alba era imminente. Dalla postura di suo padre, proteso in avanti sulla sedia, intuiva quanto fosse ansioso. Il viso era calmo, ma corrucciato attorno alla bocca, perché si stava sforzando di tenere a bada la paura. Se non fossero giunti a salvarli, presto sarebbe stato troppo tardi; sarebbero stati costretti a restare a Milano. A morire a Milano, con le campane della chiesa che ogni ora suonavano a morto, pubblici proclami che annunciavano la conta crescente delle vittime.

    Il raspare si era interrotto. Chiunque avesse cercato di entrare aveva tirato dritto. O stava aspettando là fuori? Con la bocca asciutta, Fermo fissò la porta con il chiavistello tirato. Forse era una trappola. Sospettavano che i Merisi stessero cercando di scappare e volevano denunciarli alle autorità?

    «Presto arriverà l’alba…».

    Fermo interruppe la moglie a metà frase. «Fai silenzio! Verranno».

    Lei si coprì la testa con uno scialle e strinse il pugno destro, con il rosario che oscillava come il cappio di un impiccato. Aveva esaminato quotidianamente i bambini in cerca dei sintomi del morbo, di tracce dei bubboni. Quando Michele si era rifiutato di mangiare, lei era andata nel panico, e quando Fermo aveva lamentato un senso di nausea, il terrore aveva preso il sopravvento. «È solo colpa del cibo», l’aveva rassicurata il marito. «L’olio è troppo pesante, tutto qua…». Ma si era coricata accanto a lui e aveva osservato ogni respiro, dentro e fuori, temendo i primi accenni della malattia.

    «Ascoltate», disse Fermo all’improvviso. «Sono arrivati».

    Qualcuno bussò alla porta. Con forza, senza timidezza, senza timore.

    Fermo si alzò e si accostò allo stipite di legno. «Chi è là?»

    «Siamo stati mandati

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