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Il XXI Mistero
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E-book91 pagine1 ora

Il XXI Mistero

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Info su questo ebook

Siamo a Trapani, mancano pochi giorni alla Processione dei Misteri del Venerdì Santo – in verità un carosello di bande e figuranti. I venti gruppi statuari che raccontano la Passione di Cristo, appunto i “misteri”, sono pronti per l’esibizione. Ciccio Bellezza, detto Africa, sta giusto riparando il cavalletto di una vara, quando si ritrova fra le mani un anonimo quanto minaccioso biglietto in cui si asserisce che “i Misteri sono ventuno” – mistero dei Misteri! Ciccio Africa, perplesso e sospettoso, si rivolge al professore Peppe Rallo, autorità intellettuale indiscussa della città, per capirci di più. Sembra una cosa da niente, e invece ci scappa un morto. Ma siamo in Sicilia, dove gli omicidi godono di un diminutivo, sono solo ammazzatine. E in un luttuoso Venerdì Santo, fra una ammazzatina e qualche ammucciatina, si dà il via al giallo de Il XXI Mistero, che sarà risolto dalla mente del tenente Nicola Sammartano grazie all’aiuto dello stesso Africa, del professore Rallo e di Elsa.
Un romanzo di genere sostenuto da una prosa densa che, nella sua leggerezza e ariosità, modella personaggi intensi e attinge all’autenticità di un linguaggio dialettale. Qualche nota musicale e un pizzico di buona cucina, a stuzzicare palato e sentimenti.
LinguaItaliano
Data di uscita17 dic 2014
ISBN9788868991111
Il XXI Mistero
Autore

Rocco Pollina

Rocco Pollina è musicista e insegnante. Con Coppola Editore ha pubblicato i romanzi Il XXI Mistero (2008), Madre Mediterranea (2009) e Le teste di Cozzo (2011), ora riediti in versione ebook da VandA.ePublishing (2014). Sempre per Coppola Editore, ha curato con Umberto Leone il libro-cd dedicato al cantastorie Pino Veneziano Di questa terra facciamone un giardino (2009). Con il gruppo etno-rock Mondorchestra ha pubblicato il cd La mafia non esiste (2007) e si esibisce dal vivo con le sue canzoni in siciliano.

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    Anteprima del libro

    Il XXI Mistero - Rocco Pollina

    Nota dell’autore

    Non sono un poeta e neanche uno scrittore. A stento potrei definirmi un musicista autodidatta con il vizio della poesia. Probabilmente sono solo un uomo curioso che ama sperimentare diversi linguaggi, dal video alla letteratura, insieme a quella forma d’arte che utilizzo ed esploro da più di trent’anni: la musica popolare. Per questo motivo non mi offenderò se direte che non so scrivere gialli.

    Forse me la prenderei maggiormente se diceste che la mia musica non vale niente.

    Forse.

    Però anche in questo malaugurato caso non ne sarei stupito. Non sono il chitarrista più veloce del west, né la mia voce è limpida come quella ben impostata dei cantanti lirici o, peggio ancora, ruffiana come quella dei cantanti sanremesi. Ma ve lo immaginate un carrettiere che canta come il compianto Pavarotti o il figo Biagio Antonacci?

    Ecco, nello stesso modo, le mie storie sono cunti siciliani come quelli di Giufà. Non sono commensurabili alla letteratura alta che popola i vostri scaffali. Magari non meritano nemmeno di arrivarvi e in fondo, com’è noto, i cunti siciliani non affollano le librerie dei colti intellettuali e neanche quelle della gente comune.

    Avete mai sentito una storia di Giufà? Ce n’è una in cui una banda di ladri si è nascosta in una caverna a spartirsi il bottino. Giufà passa casualmente lì vicino e gli scappa da pisciare. Si mette dietro un albero e comincia a innaffiare un angolo di terra. La pisciata è abbondante e i rivoli cominciano ad andare in diverse direzioni. Allora Giufà comincia a dire a voce alta e con tono perentorio: «Tu vai di là! Tu invece prendi di qua!» e, visto che i rivoli sono molti, il giochino dura un bel po’. I ladri nella caverna sentono tutto quanto e si lasciano prendere dal panico. «Picciotti», esclama il capo, «arrivaru li carrabbinera! Minchia quanti sunnu! Prestu, amuninni!», e così dicendo scappano via, lasciando il loro tesoro. Giufà li vede uscire di corsa dalla caverna e, incuriosito, entra e trova il bottino abbandonato nella fuga.

    Non so quanti uomini, donne e bambini, siciliani e non, da quasi un secolo si sono divertiti ad ascoltare, ma sono certo anche a narrare, questa storia, ’stu cuntu. Non credo che si siano posti il problema della verosimiglianza degli eventi o della coerenza dei contenuti. Se la sono goduta e basta. Ecco, fate lo stesso con le mie storie, se vi piacciono. Oppure, perdonatemi se vi ho fatto perdere un po’ del vostro tempo. Il mio, vi assicuro, è trascorso piacevolmente.

    Questo racconto è dedicato a Gianfranco Galia,

    detto Africa, il mio primo tecnico del suono.

    1

    Ciccio Bellezza diede l’ultimo colpo di martello al cavalletto di legno che reggeva la vara dell’Ascesa al Calvario; poi, compiaciuto, si fermò a guardare la propria opera. Quando decise che era giunta l’ora di tornarsene a casa si alzò in piedi, siccu siccu e longu longu, e si avviò verso l’altare per salutare il Signore prima di uscire.

    Aveva avuto un incarico di massima responsabilità dall’Unione Maestranze e si era ripromesso di fare nel più breve tempo possibile quanto gli era stato affidato: verificare e riparare tutti i cavalletti in legno che sostenevano le vare della processione del Venerdì Santo.

    Lui, Ciccio Bellezza, detto Africa per i capelli ricci, il colore della pelle e l’aspetto dinoccolato, lavorava nella chiesa del Purgatorio da quasi due settimane. Arrivava di buon mattino e se ne andava nel primo pomeriggio, ma quel giorno aveva fatto davvero tardi per uno schifìu di imprevisto. Cinque giorni prima della processione, all’improvviso, un cavalletto aveva ceduto sbilanciando la vara dell’Ascesa al Calvario. La vara era caduta rovinosamente per terra danneggiandosi, ma Ciccio Bellezza, detto Africa, non si era scoraggiato e, con l’aiuto di alcuni lavoranti, l’aveva rimessa in piedi su di un cavalletto nuovo nuovo. Per fortuna il danno al Gruppo Sacro era stato di entità lieve: pochi graffi.

    Il cavalletto vecchio era rimasto abbandonato in un angolo della chiesa e l’artigiano, dopo essersi fatto il segno della croce, si diresse proprio verso quell’angolo. Sostò dinanzi alle travi di legno che avevano sostenuto la vara del Popolo chissà per quanti lustri e scosse la testa con disappunto, poi si decise a varcare l’uscio della chiesa per tornarsene nel suo appartamentino a Casa Santa.

    Africa viveva da solo fin da quando era morta la vecchia madre, donna Maria Bellezza. Il padre non l’aveva conosciuto; di lui sapeva solo che era un pescatore tunisino passato da Trapani 33 anni prima. La madre diceva di avere chiamato il figlio Francesco in onore del santo sul calendario il giorno della sua nascita, ma in realtà gli aveva dato il nome del padre, François, lo splendido masculo nordafricano che l’aveva messa incinta e poi aveva avuto la bella pensata di farsi divorare dagli squali.

    Quando Ciccio Bellezza, detto Africa, uscì era buio e, fatti pochi passi, cominciò a sentirsi preso dai morsi della fame. Dopo essersi rifocillato con un carbucio nella vicina pizzeria e avere bevuto un buon quantitativo di vino ambrato si sentì riconciliato con la vita. Solo a quel punto, ancora seduto al tavolo del locale affollatissimo, tirò fuori dalla tasca dei pantaloni la piccola zeppa di cartoncino che aveva rinvenuto quella mattina dopo che il Sacro Gruppo dell’Ascesa al

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