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Un biglietto per il naufragio: Pagani e Marino tra Genova e Barcellona
Un biglietto per il naufragio: Pagani e Marino tra Genova e Barcellona
Un biglietto per il naufragio: Pagani e Marino tra Genova e Barcellona
E-book212 pagine3 ore

Un biglietto per il naufragio: Pagani e Marino tra Genova e Barcellona

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Info su questo ebook

Il cadavere di un marsigliese trovato nel greto del torrente Bisagno il giorno dopo l’ultima alluvione che ha colpito la città di Genova e una donna scomparsa a Barcellona. Cosa unisce i due casi e, inevitabilmente, le due città? La terza indagine di Pagani e Marino si snoda nei due grandi porti del Mediterraneo: tra papponi, trafficanti di esseri umani e criminali dal cuore nobile. Mentre il commissario Pagani indaga sulla morte del marsigliese, il giovane professor Marino si imbarca insieme all’ispettore Pittaluga alla volta della città catalana per un’inchiesta parallela che metterà di fronte i protagonisti alla condizione di eterno naufragio in cui vive l’essere umano. Una deriva che non è solo spirituale, ma troppo spesso assume i colori drammatici della tratta di esseri umani, in particolare donne che vengono obbligate alla prostituzione.

Alessio Piras (Genova, 1983) è dottore di ricerca in Discipline Umanistiche. Vive e lavora a Barcellona nel settore import/export. Collabora con il Grupo de Estudios del Exilio Literario dell’Università Autonoma di Barcellona, occupandosi di letteratura e filosofia spagnola. Per Fratelli Frilli Editori ha pubblicato i romanzi della serie Pagani/Marino, Omicidio in Piazza Sant’Elena e Nati in via Madre di Dio, e i racconti Città sconfitta e Ahmad nelle antologie Una finestra sul noir (2017) e 44 gatti in noir (2018).
LinguaItaliano
Data di uscita11 dic 2018
ISBN9788869433207
Un biglietto per il naufragio: Pagani e Marino tra Genova e Barcellona

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    Anteprima del libro

    Un biglietto per il naufragio - Alessio Piras

    PRIMA PARTE

    1

    Dolcenera

    Genova, 9-10 ottobre 2014. Notte

    La pioggia batte, fende l’aria spessa di umidità e inonda il suolo, goccia dopo goccia, a una velocità irreale, con violenza, inesorabile. Le strade sono già gonfie, vecchie crêuze imbottigliate dal cemento e rimpinzate d’asfalto che non drena, non assorbe, ma lascia correre. E corre l’acqua da monte a valle, come un fiume in piena. Si riversa nel Fereggiano, un rigagnolo insignificante che improvvisamente mette paura.

    È buio e sono passate da poco le 22:30 quando Claude Rino, agente francese dell’Interpol, si presenta in un largo Merlo deserto. È sotto copertura, infiltrato nella camorra genovese che controlla il traffico di donne che transitano nel capoluogo ligure. Prostituzione, sesso a pagamento, quell’oro che mai cesserà di esistere e sul quale gli uomini si arricchiscono avidamente: chi di danaro, chi di piacere, chi di entrambi.

    L’appuntamento è sotto i portici del caseggiato che taglia in due lo spiazzo: un edificio senza senso, messo in mezzo a una piazzetta e sul greto, o quasi, di un rivo che confluisce nel Bisagno. La strada è ormai un lago quasi navigabile e deve arrivare fin lì a piedi, lasciando la macchina alla fine di via Fereggiano. Seduto sulla panchina di fronte al supermercato c’è l’uomo con cui ha appuntamento, uno scagnozzo del Centauro con il quale dovrebbe accordarsi per un lavoro, un regolamento di conti dalle parti di San Fruttuoso, roba di pizzo e spaccio sotto-banco.

    – Sei in ritardo, francese.

    – Lo vedi il tempo che c’è? È già un miracolo che sia arrivato – risponde Rino accendendosi una sigaretta e scrollandosi di dosso la pioggia. Si siede sulla panchina e accavalla le gambe. Il pantalone di velluto si solleva leggermente lasciando intravedere le calze a righe; le scarpe in pelle color cuoio sono zuppe, ma mantengono il piede asciutto. Si sfila il cappello con la tesa blu e lo calza al ginocchio sinistro.

    – Allora, cosa vuoi?

    – Non avere fretta, francese. Sei ancora un novellino. Non lo sai che la lentezza è l’unica vera virtù di un camorrista di razza? Lento fino a sfinire: a interrogare, ad ammazzare e a scopare.

    Claude non trattiene una smorfia di ribrezzo di fronte a un tale fango umano. Deve però restare calmo: accenna un sorriso di complicità, che l’uomo vicino a lui non coglie perché troppo impegnato a ripensare alla Nora, la prostituta che si è ripassato gratis mezz’ora fa.

    – Non fare il coglione.

    – Ehi, francese! Tu devi imparare a portare rispetto e devi anche capire che qui nessuno ti protegge. Sei solo.

    – Non ho bisogno di protezione. So cavarmela da me, si vede che non mi conosci.

    – La storiella dell’uomo che si è fatto da solo? Magari sei pure un povero orfanello. Ma la sai una cosa? Io sono come te: quando avevo tre anni ammazzarono mio padre perché non pagava il pizzo, giù a Napoli. Bello il destino, vero? La camorra mi toglie l’unico punto di riferimento della mia vita e poi divento un camorrista. Sai cosa è successo dopo?

    – Fammi indovinare: sei migrato al nord con tua madre che per mantenerti si è dovuta prostituire. Avevi due percorsi possibili: la Polizia o la strada. Ma hai scelto la strada, salvato tua madre e ucciso tutti i vecchi boss che se l’erano portata a letto.

    – Bravo, hai studiato!

    – No. La tua vita è banale.

    In quel momento Claude Rino sente dei passi. Istintivamente si volta verso l’uomo con cui sta parlando: sorride compiaciuto, uno stuzzicadenti nella bocca e l’occhio destro, di vetro, fisso nel vuoto. Claude spegne la sigaretta e getta il mozzicone nel tombino che non riesce più a contenere l’acqua. La pioggia si infittisce, diventa insopportabile. È una frazione di secondo, un colpo secco, poi Rino non sente più l’acqua che cade, batte, gonfia il rivo e travolge la città.

    2

    Notte fonda

    Genova, dicembre 2015

    Decisi di mettere un disco jazz, di un jazz profondo e ricco di pianoforte, di quelli che ti trasportano sulle onde del ricordo fino a farti vivere in una dimensione senza tempo. Come se il tempo fosse davvero un foglio A4 che puoi piegare a tuo piacere avvicinando presente e passato fino a farli coincidere. Feci partire Solitaire di Uri Caine e mi sedetti al tavolo del salone. Mary stava dormendo da un paio d’ore e José se ne stava appollaiato sul suo sgabello di fronte alla finestra: contemplava i tetti d’ardesia della città vecchia, Genova, e il suo mare che, fedele, si adagiava contro la diga foranea del porto. Guardai l’orologio atomico posizionato sopra lo stipite della porta che divideva il salone dalla cucina: segnava le due del mattino. Le casse al volume minimo stridevano sotto le note di Say it in French, chiusi gli occhi e vidi le dita di Uri correre all’impazzata sulla tastiera del pianoforte, un vortice di tasti bianchi e neri, una vertigine di suoni, pause, acuti e bassi fino agli ultimi due accordi separati da un breve silenzio che spezza il ritmo, chiude il brano e lascia spazio alla traccia successiva, As I Am: come io sono. E com’ero io, dopo essere tornato là, nella mia città-tana?

    Le luci dell’albero di Natale scalfivano l’arancione striato del pelo di José, che si voltò piantando i suoi grandi occhi gialli nei miei, allungò il collo annusando l’aria che sapeva di notte, e sonno, e coperte. Scese agile dallo sgabello e venne verso di me, si strusciò sulle mie gambe e si prese giusto una carezza, poi corse via infilandosi in camera da letto per andare a dormire acciambellato ai piedi di Mary. Rimasi solo e tornai a Uri Caine: As I Am, come io sono. Erano passati due anni da quando il mio aereo era atterrato a Genova dopo tre lustri di assenza. Un viaggio di sola andata, aspettato e desiderato per lungo tempo da un esilio dorato, ricco di comodità e amici, ma pur sempre esilio. Già, perché la nostalgia aveva bussato alla porta della mia stanza, in un appartamento condiviso con altri colleghi quasi ogni notte; implacabile e costante quel nodo alla gola si era ripetuto ogni volta che la mia mano si avvicinava all’interruttore dell’abatjour per spegnerla.

    De André aveva detto che Genova è una città da rimpiangere. Forse aveva ragione. Me ne ero andato arrabbiato e deluso, mi sentivo stretto a vent’anni tra quei carruggi o nelle strade di San Fruttuoso, il quartiere dov’ero cresciuto. Ma quando finalmente ero lontano, ecco che quel dolore del ritorno aveva bussato alla porta della mia anima e non mi aveva più abbandonato. Per oltre dieci anni avevo cercato di ignorarlo, sminuirlo, isolarlo. Mi buttai nell’unica cosa che sapevo fare: studiare e insegnare. Riempii i miei vuoti con lunghi viaggi, convegni in giro per il mondo, soggiorni di ricerca in mezza Europa, ma mai in Italia, mai a Genova. Quando tornai a settembre del 2013 lo feci per non ripartire.

    E ora mi ritrovo a cercare un senso, stabilire un punto zero per andare avanti. Di tanto in tanto ne ho bisogno, è come darmi la corda ed evitare che l’ingranaggio si fermi. La tensione e la pressione arrivano a livelli intollerabili, sento che la mia proverbiale nostalgia si mescola a un sentimento di rabbia difficile sia da reprimere sia da sfogare e questo brodo di sensazioni ribolle dentro di me fino ad arrivare a un punto di esplosione. Esplosione che voglio evitare scrivendo il resoconto di quanto accaduto poco più di un anno fa, quando dovetti aiutare un amico; un aiuto che mi obbligò a fare i conti con una nostalgia al contrario di cui avevo letto solo nei libri: la nostalgia dell’esilio, il rimpianto dell’espatrio.

    Lui è Riccardo Mignanego, un marinaio che avevo conosciuto a Barcellona. Quella notte era da poco uscito dal mio appartamento di Campo Pisano: mi aveva lasciato in custodia i quaderni in cui aveva trascritto la storia di Paco, il figlio di Alba¹, morto ammazzato pochi giorni dopo il mio ritorno a Genova, e quella di Roberto Centurioni, strangolato dal figlio dell’uomo che aveva contribuito a mandare al patibolo durante la guerra, storie di partigiani per i quali il conflitto mondiale non era finito il 25 aprile 1945.

    Proprio lo stesso giorno in cui gli raccontai quella storia di guerra e Resistenza, gli chiesi se aveva chiuso tutte le porte della sua vita, se si sentiva in pace con se stesso. La risposta la conoscevo benissimo, anche se non potevo immaginare quali ragioni si celassero dietro la sua inquietudine. Aveva sempre dimostrato una calma quasi irritante, quella calma tipica degli uomini di mare, così abituati al lento ritmo del viaggio da non avere mai fretta; contemplativi fino a sembrare apatici, ma ciononostante estremamente sensibili al minimo variare del vento. Una calma che era venuta meno in un paio di occasioni, quando Mary aveva mosso i capelli per sistemarli con un gesto quasi automatico che, mi confessò, aveva riattivato nella sua mente un ricordo che era rimasto sepolto per diversi anni, dimenticato in chissà quale recanto buio della memoria. Non appena mi sedetti di fronte a lui, Riccardo Mignanego tornò indietro nel tempo, a una notte di quasi cinque anni prima.

    3

    L’ultima notte

    L’ultima notte che trascorsero insieme fu quella tra il 12 e il 13 ottobre del 2009. Riccardo era arrivato da pochi giorni a Genova; sbarcato da un mercantile battente bandiera cinese, avrebbe dovuto riprendere il mare il 16 dello stesso mese su una petroliera diretta in Qatar. Raisa si era nascosta da qualche giorno in una pensione della città vecchia.

    Appena mise piede a terra andò a cercarla. Sei mesi prima aveva ricevuto un sms in cui Raisa lo avvertiva di avere i due fratelli, Boris e Sergej, alle calcagna. La inseguivano per mezza Europa per riportarla a casa e venderla a un trafficante di esseri umani, con i soldi avrebbero potuto curare la madre gravemente malata, quella stessa madre che aveva picchiato e martoriato Raisa, forse perché gelosa della sua bellezza. Si incontravano nei porti in cui lui sbarcava: a Istanbul, a Barcellona, a Tangeri. Lui per mare, lei in aereo, fino allo scalo finale, Genova. Un amore itinerante e pellegrino, in fuga da un destino vigliacco che li aveva tormentati dal primo momento.

    Per nascondersi a Genova, Riccardo le aveva dato il nome di una vecchia pensione in cui lavorava una prostituta di cui ci si poteva fidare: una di quelle che battono il vicolo da vent’anni e si sono conquistate rispetto e indipendenza.

    – Affidati a lei, sarai al sicuro.

    – D’accordo. Ma raggiungimi presto.

    – Contaci, ci vediamo a Genova.

    Così si erano salutati all’aeroporto del Prat di Barcellona. Il sole stava tramontando investendo l’estuario del Llobregat con una luce diffusa color albicocca, la pelle olivastra di Raisa si era colorata sulle gote mettendo in evidenza le lentiggini, quasi a disegnare una mappa, un percorso che permetteva di leggere quali emozioni stava provando. Ma era un codice che conoscevano in pochi, forse solo Riccardo. Le mani curate della donna afferrarono la cerniera della giacca di lui. Un gesto automatico e nervoso che tradiva la paura che la pervadeva nell’affrontare quell’ultima tappa del viaggio che li avrebbe dovuti portare in un posto sicuro. Riccardo le baciò la mano e le accarezzò il tatuaggio sul polso con la scritta Raisa in corsivo, tra due fiori color pastello appena accennati. Lei sorrise.

    – Sempre insieme, ricordi?

    – Sì – una lacrima solcò il suo viso, socchiuse gli occhi, di un colore imprecisato tra il verde e l’azzurro, ora acquosi e appena arrossati. Riccardo le spostò la frangia per baciarle la fronte, lei appoggiò il mento nel centro esatto del suo petto e lì rimase gli ultimi dieci secondi prima di lasciarlo e passare i controlli di sicurezza.

    Arrivò a Genova e si sistemò nella pensione di vico della Posta Vecchia, protetta da Susanna, la prostituta amica di Riccardo. Si sentiva rincuorata per il modo in cui era stata accolta: più che una donna di vita, sembrava una madre a cui erano morti i figli e non aveva potuto dare loro affetto. Era stata con lei premurosa come un genitore, non solo le aveva fatto riservare la stanza più grande, l’unica con bagno completo, ma le aveva anche fatto fare il letto con lenzuola nuove e le aveva fatto trovare fiori freschi sul cassettone; emanavano un profumo discreto e piacevole. Le aveva lasciato sul tavolo una teglia di lasagne, un piatto, coltello e forchetta. Mangiò con gusto e voracità: sapeva tutto di casa. Subito dopo, Raisa si buttò a letto e si addormentò esausta: dormì quasi dodici ore filate e quando si svegliò si fece una lunga doccia. Allo specchio, mentre si asciugava, ripercorreva con lo sguardo il suo corpo dalla vita al seno: era stato Riccardo a farle vedere l’armonia che esisteva tra i segni indelebili della malattia e i tatuaggi che si alternavano sul suo tronco. Con il pollice percorse la cicatrice che dall’inguine saliva fino alla punta dello sterno, chiuse gli occhi e le parve di sentire la mano di Riccardo che passeggiava su quel sentiero doloroso facendola rabbrividire.

    Trascorse i due giorni successivi in stanza, senza uscire. Susanna l’andava a trovare a colazione, a pranzo e a cena. Cercava di non farla mai mangiare sola. All’alba del terzo giorno sentì bussare alla porta, era Riccardo che era appena sbarcato.

    – Stai bene?

    – Sì, Susanna è molto premurosa.

    – È un angelo.

    – Ma dove l’hai trovata?

    – Una lunga storia, ma non è come pensi.

    Scoppiarono a ridere e la questione venne chiusa lì. Dovevano pensare ad altro, a come muoversi, dove andare e come cercare un equilibrio che avrebbe dato loro un futuro. Ma prima c’era da recuperare il tempo perduto, c’era da ritrovarsi, i loro corpi e le loro anime avevano bisogno di riconoscersi e darsi del tu, essere uno per la prima volta e poter affrontare il fiume in piena. I problemi potevano aspettare qualche ora.

    Alle 10:30 in punto Susanna bussò alla porta della stanza di Raisa, che aprì gli occhi: Riccardo non c’era; l’altra metà del letto vuota, un momento, un instante di panico, la paura dell’abbandono e la disperazione che si perde in un cosa faccio adesso appena pensato.

    – Chi è? – chiese con la voce ancora impastata dal sonno.

    – Sono Susanna, apri.

    – Mi dia un minuto.

    Si alzò frastornata, con gli occhi che facevano fatica a inquadrare la realtà di quella stanza d’albergo; barcollò alla ricerca di un punto di riferimento, la finestra che dava luce o il lucernario che si affacciava sul corridoio del piano. Trovò la via del bagno ciabattando come un ubriaco, accese la luce e un fastidio insopportabile si impossessò delle sue pupille. Ci volle un minuto buono per ritornare nel mondo reale, uscire dal sonno ed entrare nella veglia. Guardò davanti a lei, si vide riflessa nello specchio del lavandino: i capelli arruffati, il segno del cuscino sulla guancia destra e quella cicatrice sopra il seno che le rammentava ogni volta il punto esatto in cui veniva somministrata la chemioterapia. Aveva un anno e mezzo quando la ope-rarono la prima volta e quando iniziarono il

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