Sopravvissuti
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Anteprima del libro
Sopravvissuti - Lara Zavatteri
Sopravvissuti.
I DENTI DI HITLER
Se volete veramente conoscere la mia storia, lasciate da parte tutto ciò che avete letto, che avete studiato sui libri di storia. Se volete davvero sentirla, abbandonate i vostri pregiudizi, il vostro scetticismo e preparatevi ad ascoltare una vicenda che mai troverete scritta in nessun testo. Vi racconterò di un uomo che per molti anni è stato capace di parlare a un popolo, risorto dalle sue ceneri, di un uomo che aveva fatto del suo Paese, piegato dalla prima guerra mondiale, una potenza forte, terribile, terrificante per certi versi. Vi racconterò la mia vita e la mia presunta morte, perché non sono morto come tutti pensavano, anche se ormai mi resta poco tempo. Ma allora ero vivo più che mai e quella vita rubata, quella vita sottratta mi hanno permesso di continuare, seppure su scala molto minore, il mio piano. Mi chiamo Adolf Hitler e quelle che leggerete sono le mie memorie, perché so che ormai sono, stavolta davvero, alla fine dei miei giorni, so che mi resta poco da vivere. Non importa dove io sia ne quale malattia mi porterà alla tomba, sono cose secondarie. L’importante è ciò che leggerete in queste carte, scritte per lasciare una traccia di me, per dire che nonostante tutto il Führer era riuscito a sconfiggere anche la morte. Inizio dal 30 aprile, giorno in cui, secondo la storia, mi uccisi nel bunker con mia moglie Eva.
Mi tirai a fatica verso un punto in cui il fumo permetteva, anche se per poco tempo, di respirare di nuovo. Mi pareva di aver respirato caligine e fumo per ore, e forse era proprio così. Non so quanto tempo trascorsi sdraiato a faccia in giù, ma presumo diverse ore perché sentivo freddo nelle ossa e dolori a tutti i muscoli, come quando restano fermi a lungo e s’indolenziscono. Avevo freddo, fame ed ero stanco, una sola cosa mi faceva star bene: l’assoluta certezza che nessuno si era accorto di me, altrimenti mi avrebbero scoperto e tirato via da quel boschetto già da un pezzo. Ero salvo, ero vivo e nessuno lo sapeva. Molto bene. Anche in quei momenti d’incertezza, pensai a com’era stato facile ingannare tutti, mi parve impossibile che nessuno avesse avuto il minimo sospetto, ma d’altra parte lo spavento, la confusione per ciò che stava accadendo avevano di sicuro giocato a mio favore e tratto in inganno le menti di coloro che ancora lavoravano all’interno del bunker e che trascinarono i corpi di Eva e di un uomo che credevano fossi io fuori da quel budello sotterraneo, all’aria aperta, prima di cospargerci di benzina e dar fuoco a ciò che rimaneva dei nostri corpi. Non ero uno stupido, come molti credevano. Mi ero reso conto che la guerra ormai era perduta e che il mio sogno di un Reich che governasse sul mondo, guidato da una razza ariana, stava per crollare in mille pezzi.
Pur sapendolo, non per questo avevo cessato di fare piani per il futuro, e fu per questa ragione che ideai per tempo un piano che aveva due funzioni: far credere a tutti di essere morto e continuare a vivere cercando di non far morire le mie idee e i miei progetti. Capitò circa un anno e mezzo prima della mia presunta morte. Mi chiese udienza un uomo, all’incirca della mia età e che nei tratti mi somigliava abbastanza, anche se non si poteva dire che fosse un sosia. Pareva un povero diavolo da come vestiva e difatti come appresi poi non se la passava molto bene. Il figlio, disse, era stato in guerra ed era rientrato in Patria senza una gamba, la moglie era morta anni prima e lui stentava a mandare avanti il suo negozio di barbiere perché doveva badare al figlio che, senza un lavoro, beveva tutto il giorno e si commiserava per la sua situazione. In poche parole mi domandò di offrire un posto, un impiego qualsiasi a suo figlio, tenendo conto che aveva servito il suo Paese con onore. Gli risposi che ci avrei riflettuto e lo congedai. Poco dopo, m’informai sul suo conto: tutto ciò che aveva raccontato era vero. Era un’abitudine che avevo assunto quando mi ero accorto di quanti ipocriti passavano dal mio studio mendicando un lavoro, vantando chissà quali presunti meriti di guerra e quali difficoltà, quando in realtà erano solo sporchi pidocchi che volevano un lavoro ben pagato dal Führer. Ma che tipo d’impiego avrei potuto offrire ad un ragazzo zoppo? Decisi che gli avrei fatto mettere una protesi, una di quelle moderne, quelle che parevano gambe vere e non quelle in legno, e che avrebbe lavorato a casa di Eva, qualcosa gli avrebbero fatto fare, non m’importava granché. Non lo domandai a Eva né ai suoi, dovevano accettarlo e basta: non mi curavo mai delle loro opinioni. Il giorno dopo feci convocare quell’uomo e gli esposi la mia idea e questi quasi svenne dalla gioia. Non terminava più di ringraziarmi e piangeva come un bambino, ma lo frenai subito. Gli dissi che ero disposto ad aiutarlo, ma che se un giorno fossi stato io ad aver bisogno di lui, doveva accettare qualunque cosa, senza fiatare. Quella era la condizione, o suo figlio non avrebbe avuto il posto.
L’uomo mi tese la mano e rispose che avrebbe fatto qualunque cosa,