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Il Rifugio dell'inferno
Il Rifugio dell'inferno
Il Rifugio dell'inferno
E-book768 pagine11 ore

Il Rifugio dell'inferno

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Info su questo ebook

Il giovane e determinato Ivano si prepara ad affrontare il suo primo giorno di lavoro come archivista in una biblioteca di sette piani, sontuosa e ricca di volumi pregiati; un impiego da favola se non fosse per la sua ostinata acrofobia che lo rende insofferente agli ambienti vasti e dotati di una notevole altezza. Ivano accetta ugualmente la sfida perché ritiene che chi non combatte le proprie paure non diventerà mai nessuno, ma non immagina quanto queste paure verranno stimolate nel profondo. Fa conoscenza di tutto il personale che qualcuno definisce “una grande famiglia”, eppure la notizia di libri rari rubati e i suoi stessi sensi lo inducono a percepire tutt’altro, fino a deformare la realtà che gli è di fronte. 
Mentre allucinazioni inquietanti e incubi minacciosi lo tormentano, avverte che qualcosa di malevolo e misterioso serpeggia tra le sale della biblioteca e la confinante abbazia; del resto è proprio un libro in cui si è imbattuto che lo avverte di non fidarsi di nessuno. Ivano si accorge di essere precipitato in un rifugio infernale, che sarà costretto a esplorare e in cui dovrà lottare per evitare di perdere la sua anima e la sua luce. 
Con fervida creatività e ricercatezza, l’autore costruisce un mondo fantastico, suggestivo e oscuro dove indaga nelle emozioni più intime e selvagge dei suoi personaggi, esibendo uno stile scorrevole e un linguaggio dalle venature poetiche. 

Ivano Papi (Roma 11/07/1979 – Parma 01/10/2019)
Si è diplomato in Cinematografia e Televisione all’istituto Professionale R. Rossellini di Roma.
Ha vissuto gli ultimi anni a Reggio Emilia.
Da sempre appassionato del genere noir ha lavorato come bibliotecario presso una delle più famose e importanti biblioteche della Capitale da cui ha tratto l’ispirazione per scrivere Il Rifugio dell’Inferno.
 
LinguaItaliano
Data di uscita30 apr 2022
ISBN9788830663053
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    Anteprima del libro

    Il Rifugio dell'inferno - Ivano Papi

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    Ivano Papi

    IL RIFUGIO DELL’INFERNO

    © 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-5277-4

    I edizione aprile 2022

    Finito di stampare nel mese di aprile 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    IL RIFUGIO DELL’INFERNO

    A mia madre, mia zia Maria Pia e mio nonno Emidio.

    Persone di gran classe.

    Anche nel momento di andarsene...

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Parte Prima

    Descrizioni

    Capitolo 1

    Davanti all’ingresso

    Nessuno mi disse in che razza di posto sarei andato a lavorare.

    Perché a volte anche un piccolo particolare può fare la differenza mentre ti trovi di fronte a un’importante decisione da prendere. Se avessi giocato d’anticipo probabilmente l’evoluzione di questa storia avrebbe preso una piega diversa. Il mio particolare problema. Dannazione! Ma che ne sapevo! La mia paura dei luoghi ampi e alti! Nemmeno ci avevo pensato quel giorno davanti alla scrivania del capo, mentre mi spiegava la mansione che avrei dovuto svolgere e io che mi scorticavo le mani per il nervoso. Ma nonostante questo dissi di sì. Ignaro dell’avanzare del nemico ho detto sì a quel lavoro.

    E gli effetti di quell’avventato consenso non tardarono ad arrivare.

    Quel dannato palazzo.

    Dovevo piegare la testa all’indietro per farmi travolgere dall’enormità dell’edificio, imponente come la Torre di Babele, esagerato, come a dimostrare (con maledetta presunzione) di voler essere la struttura più grande e mastodontica al mondo. Bene. Faticavo a tenermi in piedi mentre osservavo con timore l’enorme portone di ingresso, così gigantesco e pesante, provando la spiacevole sensazione di essere stritolato dal suo pietrificante abbraccio… come se da un momento all’altro le porte mi sarebbero potute cadere addosso.

    Per non immaginarmi ridotto in poltiglia, ripescai in fretta e furia nella memoria i ricordi della mia assunzione: quell’interminabile scorticamento di mani, quella stanza chiusa satura di fumo di sigaretta, il posacenere colmo di cicche, quell’espressione enigmatica e sarcastica e la voce roca e profonda del mio futuro capo.

    Tutto cominciò da lì.

    «Caro ragazzo, questo lavoro se lo sognano in tanti, eh», ripeteva cantilenando il grasso omone che, fiero del suo potere, mi sorrideva con sfacciataggine. Quel sorriso celava ciò che di più marcio poteva esistere, nascosto sotto un’aria di ipocrita benevolenza. Solo che questo l’avrei constatato troppo tardi. Lo guardavo ingenuamente: mi sentivo come un bimbetto affamato davanti alla vetrina dei dolci! Beh! Parliamoci chiaro. Volevo quel lavoro.

    La montagna di grasso sprofondata in quella poltrona, che faceva un tremendo rumore a ogni minimo movimento, continuava a fissarmi sorridendo, mentre fumava la sua ennesima sigaretta. Aspettava solo che mi prostrassi al suo cospetto… Il Salvatore delle cause perse. L’osannato dai poveri in cerca di lavoro. Il Creatore dei miracoli a tempo indeterminato. Insomma… Dio.

    Ma sarebbe stato veramente da stupidi paragonare a Dio quell’ammasso di grasso e peli che continuava a ridere al ritmo della sua voce catarrosa e all’odioso cigolio di quella scricchiolante poltrona, però a me toccava farglielo credere.

    «La ringrazio per avermi scelto!», d’altronde non trovavo risposte alternative a quella risata. Potevo essere scambiato per un ingenuo. Che continuasse pure a vedermi in quel modo. Tanto ormai era fatta. In reazione alla mia risposta il suo petto si gonfiò, mentre inspirava compiaciuto il fumo della sigaretta.

    «Vedi, mio caro. Se io decido di volerti mettere sotto la mia ala è perché mi fido di te», disse sempre con quel tedioso senso di onnipotenza. Oh, come ci godeva ad autocelebrarsi!

    «Non so come ringraziarla. Non potrei ricevere complimento migliore di questo», era veramente un dialogo così ipocrita, così ben strutturato e continuò su questa falsa riga.

    «Eh, eh… Non serve ringraziarmi. Se posso aiutare le persone serie…», certo… come no! Diciamo che qualcun altro stava aiutando lui e anche molto. Sebbene io odi il lavoro di mio padre che si trova ai vertici di una famosa e importante casa farmaceutica, il grassone non ha indugiato nemmeno un attimo ad assumermi nel suo team. Io do, tu dai. Ecco fatto l’accordo. Ed ecco che gratuitamente e senza nessun controllo sanitario, la casa del capo sarebbe stata rifornita di tutti i generi farmaceutici per i suoi problemi al cuore, vista la stazza, visto il numero infinito di sigarette fumate e soprattutto per la più totale assenza di attività fisica nella sua vita quotidiana. In fondo, che lui ottenesse tutta quella merda chimica a sbafo a me non fregava proprio nulla.

    «E quindi, precisamente, entrerei a lavorare in una biblioteca come archivista», dissi con garbato entusiasmo.

    «Certamente. Il lavoro non è stressante. Non richiede sforzi fisici e non è impegnativo. Che si può volere di più?» Pensai che quest’ultimo intervento sarebbe stato l’adeguato slogan per una penosa campagna pubblicitaria.

    Mi lasciai sfuggire una leggera risata a quel pensiero, col rischio che potesse risultare fraintesa come riscontro alla sua ridicolaggine.

    Ma era talmente preso dalla sua spessa e lardosa superbia che non si accorse di nulla e proseguì: «Vedrai che ti ambienterai subito nella biblioteca», dicendo questo spense con forza il mozzicone, facendo sprofondare le dita tra la montagna di altre cicche rinsecchite e ciancicate. Poi mi mise davanti il contratto.

    «Hai domande da farmi?», il suo tono era diventato apprensivo il che, tradotto, suonerebbe come la solita storia del capo che si preoccupa solo dei suoi interessi.

    «Oh! Che dire? No, tutto chiaro! Firmo qui?», lui annuì e io non dissi altro, concludendo così quel memorabile incontro.

    Sbagliai a non chiedere informazioni su quella biblioteca. Presi sottogamba la mia più grande fobia e lei mi castigò severamente proprio davanti a quell’imponente edificio. Ero a un bivio: entrare o non entrare. Farsi persuadere dall’entusiasmo del lavoro ottenuto e avanzare a occhi chiusi o preferire l’altra strada: arrendersi alla paura con il rischio di perdere per sempre quella grande occasione.

    Erano passati cinque giorni da quando avevo firmato il contratto e nel frattempo mi ero gingillato la mente con immagini davvero patetiche e stupide. Ma che pensavo? Di entrare dentro la casa delle bambole? Un posto a prova di paura? A che biblioteca pensavi, scemo? Due o tre libri in croce potrebbero bastare per fornire la tua bibliotechina?

    Un passante, inavvertitamente, mi urtò con la spalla. Provai una sensazione di smarrimento e amarezza, come se mi fossi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. I giochi erano stati fatti, non potevo tornare più indietro. Pensavo però che certi eventi non si verificassero per caso. La vita a volte, per evolversi, ti mette di fronte a situazioni da risolvere che corrispondono al livello di coraggio maturato. Cercai di cogliere quel messaggio come un segno del destino. O vai avanti e combatti la tua paura o non diventerai mai nessuno. O vivi o muori.

    Non era il caso di mandare tutto a puttane solo perché qualcosa mi atterriva. Quando mi sarebbe mai ricapitata una occasione così?

    Promisi a me stesso che appena finita quella giornata mi sarei premiato con qualche cavolata. Lo dicono tutti, no? Premiarsi quando si supera qualcosa che non avresti mai pensato di affrontare. È un’ottima terapia per l’autostima.

    Non è così semplice, però.

    Nessuno poteva capire quell’enorme disagio, se non provandolo in prima persona. Nessuno mi diede il coraggio per varcare quella soglia.

    Nessuno mi aveva detto di quel piccolissimo problema, perché nessuno poteva sapere.

    Nessuno si sarebbe mai immaginato che, da lì a pochi giorni, quell’imponente struttura demoniaca chiamata biblioteca sarebbe stata protagonista di strani e orrendi eventi.

    O vivi o muori. O muori anche se vuoi vivere.

    Ma non lo sapevo ed entrai, ignaro del fatto che tutti quei pensieri angoscianti non erano comparsi per caso e non erano solo il sintomo della mia strana patologia.

    Erano l’evidente segnale che non dovevo assolutamente entrare lì dentro.

    Capitolo 2

    Nell’incubo

    Non avevo previsto o non volevo credere che una volta entrato nella biblioteca la sensazione di disagio sarebbe peggiorata.

    L’atrio si presentava sontuoso e con un soffitto alto fino all’inverosimile. La testa prese a girarmi. Chiusi gli occhi per qualche secondo. Il cuore mi batteva in modo anomalo. Non mi sarebbe bastata una semplice cavolata come premio per quella prova di coraggio. Il pavimento in marmo lucido, color argento, rifletteva la mia immagine. Ai lati erano situate due cabine di vetro trasparente; al loro interno potevo vedere delle guardie che controllavano ogni persona che accedeva nell’ampio vano. Davanti a me si trovavano il metal detector e lo scanner per il controllo delle borse.

    D’altra parte entravo in un ambiente di enorme importanza. Mi avvicinai a una cabina mentre la guardia di turno stava vagliando su un display il contenuto dello zaino di un ragazzo.

    Misi mano al portafoglio, tirai fuori il permesso (me lo avevano dato il giorno del colloquio assieme al contratto) e lo feci passare sotto la fessura del vetro.

    «Salve. Primo giorno di lavoro, posso parlare con il responsabile della biblioteca?»

    La guardia, un tipo calvo dalla faccia di chi si faceva tre lampade la settimana, mi guardò malissimo. Al Genio della Lampada probabilmente non piacqui nemmeno un po’, o forse gli giravano i coglioni perché aveva perso l’appuntamento per un’altra sessione di tri-facciale e doccia solare completa. Poi prese a osservarmi con occhi da triglia arrosto.

    Riprovai.

    «Avete per caso qualche lista con le persone che sono autorizzate a entrare qui dentro?» La guardia per un attimo continuò a squadrarmi con una espressività simile a quella di un facocero. Chinò il capo davanti a sé e impugnò una cartellina. La aprì. Prese il mio foglio di permesso e controllò la lista.

    Poi alzò di nuovo lo sguardo e socchiuse gli occhi per mettermi più a fuoco. Il documento che aveva in mano era corredato anche da una piccola foto in cui ero ritratto con un’espressione non proprio naturale. Alzato il foglio di fronte a lui, con fare interrogativo prese a controllare prima la foto e poi me alla ricerca, forse, di qualche differenza.

    Fai pure con calma, eh! Augurati solo di non farmi ritardare già il primo giorno altrimenti ti vengo a cercare in ogni solarium della terra!

    Poi finalmente parlò: «Qui non c’è nessuno con il suo nome. È sicuro che lei debba venire a lavorare proprio qui?», domandò l’idiota.

    No, sai, sono qui per caso. Anzi, passavo da queste parti e sono venuto a farmi una chiacchierata con te, brutto deficiente!

    Non riuscivo a capire come quel grandissimo imbecille potesse essere finito lì di fronte a me, bello pulito con quella divisa da soldatino di piombo e quella pelle color merda sciolta!

    Nonostante avessi una gran voglia di farlo nero a furia di cazzotti (che tanto gli avrei fatto solo un piacere) esternai una pacatezza da premio Nobel.

    Tirai fuori uno dei miei sorrisi a doppio taglio.

    «Può controllare meglio? Forse ha sbagliato lista!» In aggiunta al terrore suscitato dal posto, mi stavo sentendo pure un intruso. Oltre il danno anche la beffa.

    La guardia con lentezza prese alcune cartelline. Almeno quello! Cominciò ad aprirle tutte, ne aprì anche altre che si trovavano sparpagliate sul tavolo. In quel momento arrivò un altro collega in suo soccorso. Sembrava portasse un parrucchino. A bassa voce gli domandava che cosa stesse cercando ma l’altro, a testa china, ciancicò qualche parola che non riuscii a capire. Poi Mr. Toupet si avvicinò al vetro e domandò con aria strafottente: «Lei chi è?»

    Chiusi gli occhi per un secondo e inspirai.

    Ritenetevi davvero fortunati a essere protetti da queste lastre di vetro, perché avrei tanto da fare con queste mani che Dio solo lo sa!

    «Sono il nuovo assunto, come ho detto al suo collega. Il mio permesso è lì, cos’altro serve per poter parlare con il responsabile della biblioteca?» e riempii di nuovo d’aria i polmoni.

    Mr. Genio della Lampada era ancora tutto preso nella ricerca della lista e così anche Mr. Toupet cominciò ad aiutarlo. Rimbambiti… Ero sconsolato nell’appurare che, per poter entrare, dovevo ricevere il nulla osta da quei due cretini.

    Poi, mentre cominciavo a temere il peggio (per loro) vidi giungere dall’atrio un altro uomo che si avvicinò a me:

    «Sei tu Ivano?», chiese l’ometto vestito in giacca e cravatta. Era leggermente stempiato, aveva occhi scuri e stanchi e una voce bassa e pacata. Indossava una giacca troppo larga di spalle, per i miei gusti, il che rendeva la sua testa alquanto sproporzionata rispetto al resto del corpo.

    «Sì, sono io», risposi sorridendo. L’ometto mi fece cenno di scostarmi dal vetro.

    «Il ragazzo sta con me, Giulio. Controlla la lista che ti ho dato stamattina», disse. Le guardie lo osservarono per un attimo, poi presero ambedue, come dei fessi, il foglio nominato dall’omino. Poi Mr. Toupet lo rese al suo collega senza alzare lo sguardo e sempre a testa china uscì dalla stanza mentre Mr. Genio della Lampada prese il documento e controllò la lista.

    «Mi chiamo Edoardo. Il responsabile della biblioteca.» Sorrisi senza dire nient’altro, il mio nome già lo sapeva.

    La guardia mi passò sotto il vetro, assieme al foglio di permesso, una tessera di riconoscimento. Presi il tutto e, senza ringraziarlo, passai alla tappa successiva. Mentre Edoardo mi aspettava al di là del varco, feci passare la mia borsa sotto lo scanner e, mentre questa veniva inghiottita per poi passare dall’altra parte, varcai il metal detector. Presi la borsa e seguii il mio nuovo capo attraversando una grande porta a vetri. Davanti a me c’era un enorme corridoio con soffitto a botte ai cui lati si ergevano alte librerie colme di tomi e volumi. E nuovamente la paura si risvegliò di colpo. Mi sentii come in stato di allerta e nauseato. Vedevo tutto strano, orribilmente distorto, deformato. Gli scaffali si scioglievano al mio passaggio, mentre i libri cascavano con effetto domino quasi assumessero una vita propria e nell’aria le copertine in cuoio si trasformavano in lame taglienti pronte a torturarmi. Edoardo era di spalle e continuava ad andare avanti senza accorgersi del mio malessere. Mi sentii per un momento incompreso, solo, disperato.

    Un libro assassino piombò a ghigliottina atterrando ai miei piedi. Mi fermai di colpo. La copertina aveva tagliato di netto il pavimento come se quest’ultimo fosse fatto di burro e il libro ci sprofondò dentro. Presi a sprofondare lentamente anche io, il mio cuore cessò di battere, i miei occhi si spalancarono per rincorrere inutilmente un ultimo respiro. Guardai davanti a me.

    Vidi Edoardo svoltare ed entrare in una stanza. E tutto tornò fermo e stabile come prima. Mi affrettai verso la porta. Sull’uscio mi bloccai di nuovo. Lo stato di soffocamento e agitazione di poco prima tornò a invadere il mio corpo senza pietà, in quel preciso istante, mentre Edoardo si girava a guardarmi. Non ebbi che un attimo per accorgermi del suo cambiamento d’espressione. Pareva avesse visto un fantasma. Ma ero solo io che stavo lentamente afflosciandomi, rapito da uno svenimento. Mentre Edoardo correva per soccorrermi, tutto davanti a me si spense.

    Era buio. Sapevo solo di essere seduto su una gracilissima sedia pronta a disintegrarsi da un momento all’altro. Attorno a me nessun punto di riferimento per orientarmi. Da sottoterra proveniva un coro di voci maschili che intonava un lugubre canto gregoriano. Ebbi un presagio. Non sapevo bene che cosa fare. Non riuscivo nemmeno ad alzarmi per il timore che anche un piccolo movimento avrebbe causato chissà quale catastrofe. Rimasi lì seduto ad ascoltare quel terribile canto. Ogni volta che il canto aumentava di volume il pavimento tremava. Tutto sembrava così stranamente reale. Poi, alle mie spalle, udii un rumore di catene trascinate dirigersi verso di me. L e n t a m e n t e. Dopodiché il lamento si fece sempre più assordante emanando un riverbero tale da far tremare la terra ancora più forte. Avevo il terrore che la sedia si frantumasse lasciandomi cadere in chissà quale vuoto o quale buco nero, risucchiato dal mio stesso incubo, dalla mia paura.

    Improvvisamente tutto si bloccò. In quell’istante si accese un faro puntato dritto su di me. Mi protessi gli occhi con le mani. Era tutto finito, ero seduto e incolume. Non ancora per molto, pensai. Abbassai le mani cercando di abituare gli occhi a quella fonte di luce. Dopo qualche secondo, riacquistata la vista, compresi finalmente perché non percepivo così sicura quella sedia. Poggiava su quattro lunghi ed esili fiammiferi piegati ad arco a causa del mio peso. Vedevo la tensione di quei rachitici pezzi di legno che continuavano a sostenere il mio corpo. Provai una profonda pena. Pena per loro. Pena per un oggetto. Non me lo riuscii a spiegare ma in quell’incubo ogni cosa, ogni sentimento, sembravano enfatizzati.

    Mi alzai di scatto senza perdere tempo, senza indugiare nemmeno un secondo di fronte a quell’immane sacrificio di cui mi sentivo il carnefice. A quel punto la sedia crollò a terra in mille pezzi. Disperatamente mi avvicinai verso quel piccolo cumulo di legno. Potevo salvare qualcosa? Avrei potuto evitare quella distruzione? C’era un modo per rimediare? Sarei riuscito a cambiare qualcosa. E lo avrei dimostrato, non so a chi, ma lo avrei fatto. Era solo un presentimento. Ma fin dall’inizio provavo la sensazione di essere osservato e in quel momento, davanti a quell’improbabile tentativo di soccorso, ero convinto che qualcuno mi volesse sfidare. Non mi tirai indietro di fronte a quella provocazione, sebbene non trovassi alcuna spiegazione alla fantomatica presenza. Con improvvisa violenza quello che restava della sedia prese fuoco. Arretrai di qualche passo. Velocemente le fiamme consumarono tutto. Dopo qualche secondo, in quello stesso punto pareva non ci fosse mai stato nulla e solo allora si accese la luce.

    Ero rinchiuso in una stanza ovale con le pareti bianche e senza porte. Il pavimento era a scacchi, bianchi e neri. Non c’era nient’altro oltre me. Il soffitto non c’era. Potevo vedere il cielo. Ed era nero, coperto di nuvole che si spostavano troppo velocemente, cariche di pioggia e di elettricità. Da dove proveniva la luce? Vidi dei lampi tagliare le oscure nuvole, mentre i tuoni accompagnavano i fulmini che squarciavano il cielo e cominciò a piovere a dirotto. Dove mi trovavo? Forse in una landa sperduta, in una stanza estrapolata da chissà quale luogo e messa lì per un motivo che ancora non riuscivo a concepire. Ero bagnato fino al midollo. Non avevo alcun riparo. L’acqua aveva iniziato a riempire lo spazio, arrivandomi in poco tempo ai polpacci. E continuai a guardare il cielo. Scie di fuoco correvano attraverso le nuvole, lasciando dietro una cascata di scintille come polvere d’oro. Ero totalmente rapito da questa visione, mentre l’acqua continuava a salire.

    «Ma così sarà la fine», una voce di indefinita sessualità, proveniente da quel cielo in tempesta, mi spaventò più dei fulmini.

    «Chi ha parlato?», domandai avvertendo un senso di inquietudine verso quell’entità.

    «Sei tu che parli.»

    «Io? Io non ho questa voce!»

    Udii una delicata risata.

    «E chi ti dice che quella che stai utilizzando sia la tua VERA voce?», domandò con tono altezzoso.

    Ero confuso. La voce riprese a ridere allegramente.

    «Vedo che ti ho messo in difficoltà. D’altronde non ti sei mai abituato a parlare con te stesso.»

    «Che significa?» Più il discorso andava avanti e più mi sentivo disorientato.

    «Non serve che ti spieghi nei minimi particolari. Basta che tu sappia della mia presenza.»

    «E tu saresti me?», domandai laconicamente.

    «Conosci già la risposta», replicò ora in tono grave e roco.

    Intanto l’acqua mi arrivò alle ascelle. Iniziai a inquietarmi. Potevo giustificare tutto questo solo perché mi rendevo conto di non trovarmi nella realtà. In effetti un sogno può eludere qualunque legge della fisica ma non capivo perché mi sentissi così agitato. I miei piedi erano come saldati al pavimento e qualsiasi sforzo facessi per liberarmi non aveva alcun effetto. Oltre alla paura, ebbi la certezza che tutto era opera di quell’entità. Trovarmi in quella situazione significava solo una cosa: che sarei annegato, in un attimo. Continuai lo stesso a spingermi verso l’alto ma senza risultati.

    Ero in preda al panico. Dalla mia bocca uscivano solo urla isteriche, sempre meno umane. Un misto tra grugniti animaleschi e il gracchiare di un corvo.

    Intanto la voce dall’alto rideva sempre più forte. Quella che prima era una risatina educata e dolce si trasformò in una delirante manifestazione di ilarità senza ritegno. Anche il mio corpo, che con tutte le sue forze cercava di liberarsi da quella trappola, cominciò a mutare. Le mani si ricoprirono di squame grigie e lunghi e affilati artigli presero il posto delle unghie. Istintivamente cacciai un agghiacciante grido acuto.

    Poi, all’improvviso, sentii un terribile schiocco all’altezza delle ginocchia e la successiva insensibilità dei polpacci e dei piedi. Mi travolse il dolore più feroce mai provato. Le rotule si erano completamente distaccate dal resto degli arti che continuavano a rimanere fissati al pavimento, mentre la parte superiore del mio corpo ondeggiava come un palloncino legato a un filo e mosso dal vento.

    Ancora non completamente sommerso dall’acqua guardai, in uno stato di profonda catalessi, quelle nuvole nere e quel fuoco che tagliava il cielo tra stelle e scintille. Senza più un’anima, senza più resistenza, lasciato solo a farmi cullare in quel pozzo di lacrime che mi sommergevano piano. Alcuni momenti ancora per poter respirare e chiudere gli occhi per sempre. Poi di nuovo il buio. Di nuovo, come al principio del sogno. Ma stavolta il buio era dentro di me.

    Capitolo 3

    Risveglio

    Il buio.

    Mentre tornavo a galla da quello stato di incoscienza, riacquistai lentamente il senso dell’udito. Sentivo in lontananza delle voci, sottilissimi ami che galleggiavano nel mare dell’oblio. Aspettavano che abboccassi per tirarmi fuori. Più mi avvicinavo a quegli appigli e più le voci si facevano vicine e chiare.

    «… anche la testa, ti dico…»

    La compassione in quella voce fu l’esca perfetta per tornare in superficie.

    Aprii gli occhi. Sebbene in maniera ancora sfocata, distinguevo attorno a me tre sagome.

    «Si sta risvegliando!», esclamò una voce di donna. Le sagome si mossero ancora mentre una mano mi toccava la faccia e i miei occhi ebbero una reazione ricevendo un fascio di luce.

    Subito dopo cominciai a sbattere le palpebre più volte e a mano a mano recuperai la vista.

    Ero sopra una barella. La stanza era completamente bianca e sentivo l’odore pungente di disinfettante, acqua ossigenata e alcool.

    Mi trovavo dentro un piccolo ambulatorio.

    Riconobbi Edoardo. Poi un altro uomo con il camice bianco, un dottore che mi stava auscultando il torace. Scorsi quindi una donna dai grandi occhi adornati da lunghe ciglia e sulle labbra un sorriso amabile e rassicurante. Era vestita con un camice blu scuro sul quale aveva appuntato un tesserino di riconoscimento. Mi teneva la mano – seppi poi che me l’aveva tenuta per tutto il periodo che ero rimasto svenuto – e con dolcezza mi domandò: «Tutto bene, Ivano?», a quella domanda così delicata e apprensiva sorrisi.

    «Sì. Mi sento meglio», poi guardai Edoardo e anche lui, un po’ più intimidito, mi sorrise.

    «Ti abbiamo portato nell’ambulatorio della biblioteca. Che te ne pare? Non male come luogo da visitare il primo giorno di lavoro!»

    Nel frattempo seguii con la coda dell’occhio il dottore che si era seduto e stava scrivendo qualcosa. Poi tornai a guardare Edoardo e la donna.

    «Ma cosa mi è successo?»

    «Sei svenuto prima di entrare nella mia stanza. Così! Di punto in bianco. Un momento prima stavi bene, un momento dopo sei crollato a terra come una pera cotta», rispose Edoardo mentre la donna continuava a stringermi la mano tra le sue.

    «Oh Edoardo! Sono dispiaciuto. Non mi era mai successo prima d’ora!» La donna mi rassicurò carezzandomi la testa.

    «Ma stai scherzando? Non devi assolutamente giustificarti!» Edoardo cercava a suo modo di tranquillizzarmi.

    Il dottore venne verso di me con un foglio in mano. Nel frattempo lei mi aiutò ad alzarmi.

    «Ecco qui. Prendi queste compresse, una la mattina e una la sera. Hai subìto un improvviso calo di pressione. Assumi dello zucchero e per qualche giorno non fare sforzi» disse il dottore porgendomi la prescrizione medica.

    «Niente sforzi, dice? Partiamo proprio col piede giusto il primo giorno di lavoro…», dissi con rammarico e autoironia guardando Edoardo.

    «Ma smettila, dai. Oggi farai una bella visita alla biblioteca e conoscerai i tuoi colleghi, poi ti assicuro che in questo lavoro di sforzi se ne fanno ben pochi» mi disse lui mentre usciva dalla stanza.

    La donna mi aiutò delicatamente a scendere dal lettino.

    «Visto che siamo in argomento colleghi, ne approfitto per presentarmi. Mi chiamo Carla.»

    Le sorrisi per gratitudine e lentamente riacquistai una camminata sicura.

    «Grazie dottore!», mi girai per salutarlo, poi proseguii verso Edoardo che aprì la porta dandomi la precedenza.

    Nell’enorme corridoio era un andirivieni di gente in giacca e cravatta, tutta impettita, distinta, seria e compresa nel proprio importante ruolo.

    «Vedrai, ti troverai subito bene con tutti quanti. Come in una nuova grande famiglia», mi rassicurò Carla con uno dei suoi sorrisi da tepore primaverile.

    Lei e Edoardo mi accompagnarono fino alla stanza dove avevo avuto lo svenimento. Dietro l’unica scrivania sedeva una ragazza alquanto minuta che indossava un camice simile a quello di Carla. Evidentemente era un’altra collega. Mi dava le spalle e stava parlando al telefono. Il telefono di Edoardo. Precisamente il telefono sulla scrivania del mio capo! L’avrebbe ripresa, come minimo. Edoardo passò vicino a lei con fare calmo, per nulla alterato. Poi la guardò mentre si girava verso di lui e gli faceva cenno di aspettare. Qualcosa stonava. Perché non succedeva nulla? Perché non la stava cazziando?

    Nel frattempo riuscii a vedere il volto della ragazza, il taglio corto e sbarazzino dei suoi capelli color prugna e il viso dai lineamenti delicati vistosamente truccato. Aveva uno sguardo vispo e sorridente. Chiuse la conversazione e tornò a guardare Edoardo.

    «Era il famoso responsabile di stamattina, capito chi?», Edoardo fece cenno di aver compreso. Poi la ragazza proseguì.

    «Gli ho detto che alcuni dei volumi richiesti sono stati mandati a rilegare e che saranno disponibili solo fra qualche settimana. Così almeno questo te l’ho tolto di mezzo…»

    Poi la ragazza si alzò con fare sicuro dalla scrivania mostrando tutta la sua sbalorditiva bassezza. Sembrava sentirsi fiera di essersi fatta trovare al telefono! Era così fuori dal normale quella situazione! Responsabili che sono allo stesso livello dei loro dipendenti? E pensare che ero sempre stato abituato a dover quasi strisciare a terra davanti ai miei superiori. Eppure, nonostante la stupefacente novità, non mi sarebbe dispiaciuta quella nuova versione.

    No. Deve essere la segretaria! Non c’è alternativa!

    La ragazza tutto pepe si girò a guardarmi e con un sorriso disarmante mi salutò. Edoardo intervenne subito dopo.

    «È Ivano. Il vostro nuovo collega.»

    Ma lei mi era già di fronte tendendomi la sua mano. Ricambiai stringendola.

    «Piacere, Ivano.»

    «Ciao sono Federica. Ho saputo che ti sei sentito male. L’emozione del primo giorno di lavoro, immagino. A parte tutto, ora come va?» Sorpreso da come quella notizia si fosse sparsa così velocemente esclamai: «Sono già talmente famoso e non lo sapevo? Sto bene, grazie.»

    «Lo so perché ho dovuto sostituire Edoardo mentre era occupato a farti riprendere, bell’addormentato…»

    Okay. Non era una segretaria. Edoardo ha dato a lei l’onore e l’incarico di sostituirlo mentre era con me. Bel gesto di fiducia, direi.

    «Ma fidati che lo sapranno già tutti. Facci l’abitudine. Ogni cosa che succede qui la sanno pure i francescani dell’abbazia dietro la biblioteca!», rispose senza pudore Federica. Carla nel frattempo si era avvicinata a lei.

    «Ma dai!» esclamai sorpreso «Un’abbazia? Qui dietro? Ma quei poveri frati la vedono la luce del sole? Insomma, questa biblioteca è immensa! Non riesco proprio a immaginarmeli circondati e oppressi da un edificio del genere!»

    Carla aggiunse: «Già. Il palazzo ha sette piani! Ma ti spiegheremo dopo. Oggi farai una bella gita turistica.» Si voltò verso Edoardo, che nel frattempo mi stava porgendo la divisa da lavoro.

    «Per il tesserino di riconoscimento dovrai aspettare un po’. È la prassi.» Presi il camice e lo ringraziai.

    Al suo fianco, Federica continuava a discutere con lui, mentre Carla prese lì vicino una pila di libri e sorridendomi mi disse: «Andiamo. Ti porto a visitare il tuo piano, così inizierai a prendere confidenza con i colleghi più stretti», e, rivolgendosi a Edoardo, aggiunse: «Edo, porto Ivano con me! Ciao.»

    Ma certo! Ora passiamo anche ai nomignoli. Ci manca solo che arrivi un altro collega, dia una pacca sulla spalla al mio capo e gli dica: Ehi, Edy! Allora per stasera è confermata la partitina a poker a casa tua?!

    A quanto pare lì dentro non c’era proprio quella forma di rispetto rigido quasi monarchico a cui ero sempre stato abituato nei lavori passati. Altro che senso di responsabilità o confidenze!

    Edo. Educcio… t’ho sbrogliato io la faccenda del responsabile… Edy, Edy caro, tanto lo so che mi permetterai pure di regalarti un bel vaffanculo, siamo in confidenza, no?

    Dovevo aver assunto un’espressione evidentemente perplessa perché Carla intuì il disagio:

    «Sei sorpreso? Ti capisco. Non è facile trovare un’organizzazione come la nostra. Edoardo non ha proprio il carattere per fare il padrone, il capo. Preferisce stare al nostro livello. Vedila come una questione di rispetto reciproco. Qui siamo come una grande famiglia, te ne renderai conto. A parte ciò, Edoardo ci permette – entro certi limiti, è ovvio – di partecipare a gran parte del suo operato. Hai visto Federica, no?»

    «Eh sì! Tipa sveglia», risposi.

    «Federica è una persona molto diplomatica. A Edoardo manca un po’ di questa diplomazia. A volte si fa prendere dall’agitazione e…», proseguii io per lei.

    «… invece lei riesce a risolvergli la situazione.»

    Carla rise un po’ più forte, ma se lo poteva concedere. Eravamo arrivati in una saletta piena di armadietti in legno e accanto a essa c’era un bancone dietro al quale una signora, che stava leggendo un giornale, al nostro passaggio alzò la testa per guardarci sorridendo a Carla. Dietro la signora scorsi una serie di appendiabiti pieni di stampelle, alcune vuote, altre con dei giubbotti appesi. Era la stanza del guardaroba. Ripresi il filo del discorso:

    «E tu invece? Sostieni Edoardo tutte le volte che ha a che fare con un morente?» Carla sorrise. «Casualità. Dovevo venire da Edoardo per prendere questi libri e invece ho assistito a tutta la scena dello svenimento.»

    «Ho capito. Beh. Pensavo che anche tu avessi un ruolo simile a Federica.»

    Carla mi puntò amichevolmente gli occhi addosso ed esclamò: «Io ho un grande ruolo invece. Sono sua moglie!»

    «Dunque, il discorso di prima sulla grande famiglia non era poi così tanto per dire. Federica è per caso un’altra parente di Edoardo? Sua sorella?»

    Carla sbottò di nuovo a ridere: «Ah, no. È solo una brava ragazza che ha sempre fatto bene il suo lavoro e Edoardo si fida di lei.»

    Nel frattempo avevamo raggiunto un ascensore.

    Carla mi condusse al primo piano. Nulla a che fare con i saloni del piano terra. Aveva, invece, una serie di stanze con un soffitto non molto alto, riempite da una schiera di scaffali ricolmi di volumi di tutte le dimensioni. Su ogni ripiano era apposto un cartellino con una serie di numeri e codici.

    «Allora. Ogni piano ha una parte biblioteca con l’accesso degli utenti esterni e una parte magazzino dove possiamo accedere soltanto noi. Lo stesso vale per il secondo piano, il quarto e il quinto. Questo è solamente il magazzino, e ci lavorerai per la maggior parte del tuo tempo» spiegò Carla mentre mi mostrava le altre stanze. La mia attività richiedeva solo una buona dose di memoria nel ricordare la collocazione dei libri e i loro codici. Non avrei avuto problemi. Avevo già una soluzione in merito.

    Arrivammo poi in una stanzetta dove si trovava uno strano macchinario. Era costituito da tre piccoli binari verticali. I due più esterni proseguivano al piano di sotto e a quello sovrastante grazie a dei fori situati sia sul pavimento che sul soffitto, mentre il binario centrale formava una curva ponendosi orizzontalmente e terminando di fronte a una torretta di metallo con sopra un piccolo display e una tastiera numerica.

    «Questo si chiama tele lift. È lo strumento con cui lavoriamo. La chiamiamo stazione e ne troverai una per ogni piano sia nella parte biblioteca che, ovviamente, nei magazzini.»

    «Così questi binari fungono come arterie dell’intero stabile, giusto?»

    «Esattamente. Quando ti capiterà di andare negli altri piani li vedrai passare ovunque o attraverso muri o sui soffitti.»

    In quel momento sentii un rumore metallico di ruote stridere sopra i binari. Il rumore si fece sempre più forte, quando dall’alto vidi scendere una scatola rossa che percorreva uno dei binari esterni per poi scomparire al piano di sotto.

    «Visto? Quelli sono i carrelli. Lì vengono messi i libri che gli utenti richiedono», Carla si avvicinò alla torretta con la tastiera.

    «Una volta messi i libri nel carrello bisogna fornire un codice, affinché giunga a destinazione. Ogni piano ha un suo codice di ricezione, ma la maggior parte delle volte dovrai spedirlo sempre qui sotto, dove si trova la distribuzione e altri due colleghi che smistano le richieste degli utenti. A seconda del piano in cui si trova il libro lo spediscono con i carrelli. Non è difficile. Devi solo ricordarti i codici di ogni piano. In ogni caso abbiamo anche uno specchietto qui sulla parete se dovessi dimenticarti qualche riferimento. Ora scendiamo che ti faccio conoscere quelli della distribuzione.»

    «Ehi! Carla!»

    Una nuova collega con in mano un libro ci stava venendo incontro. Aveva un viso leggermente paffuto con capelli lisci castani legati a coda. Gli occhi erano esageratamente truccati come anche le labbra, nello stesso stile di quella tipa tutto pepe di Federica.

    Se ci tengono già così tanto ad agghindarsi al lavoro, figuriamoci fuori da qui.

    Lasciai subito da parte i pregiudizi, tanto sapevo di dover rivedere il prima possibile la mia concezione su regole e stile lavorativo. Anche se coperta dal camice che ne attenuava le forme, notavo una struttura alquanto robusta che i passi un po’ goffi mettevano in risalto. Carla le andò incontro mentre io rimasi al mio posto dietro di lei. Appena raggiunta, la ragazza disse:

    «Uff. Questo piede non mi convince proprio. È da un po’ di giorni che mi fa un male cane» Carla la condusse vicino a me.

    «Sarebbe anche l’ora che prendessi in considerazione l’idea di utilizzare l’ascensore, no?», la ragazza mi guardò, poi girò velocemente la testa verso Carla e con tono impaurito esclamò: «Per carità, non se ne parla proprio. Ho paura degli ascensori. Te l’ho detto! Mai e poi mai!»

    «Ti capisco. Anche io ho paura. Ma al contrario di te, dei luoghi alti e ampi. Si chiama acrofobia» mi agganciai al discorso con l’occasione di presentarmi.

    «Uh! Bel termine! Sei finito proprio nel posto giusto, eh. Però qualcuno che mi capisce, finalmente. Piacere, Rebecca. Da ora in poi saprò con chi sfogarmi, visto che qui nessuno sembra comprendermi…»

    «Ivano, piacere mio. Purtroppo chi non vive in prima persona un disagio del genere non può capire…»

    Rebecca pareva sorpresa tant’è che si girò stupita verso Carla:

    «Dimmi che Ivano lavora in questo piano…»

    «Sì lavorerà con te» rispose Carla. A Rebecca si illuminarono gli occhi.

    Carla frenò la sua euforia: «Sì, ma le chiacchiere a momento debito. Ivano avrà tutto il tempo poi per sorbirsi i tuoi lamenti. Ora si deve ambientare.»

    «Voi li chiamate lamenti. Per me invece, e sono sicura che anche Ivano la pensa così, è questione di sensibilità.»

    «Tu stai alla sensibilità come il gatto sta col topo. Non vivono bene assieme» la schernì Carla che si mise a ridere. La sua risata contagiò anche me e Rebecca.

    Ero certo che sarei stato bene lì e che non avrei avuto problemi a trovare il mio posto in quel gruppo che pian piano stavo conoscendo.

    Capitolo 4

    Il sotterraneo

    Mentre assieme a Carla scendevo al piano terra per una scalinata a chiocciola, ripassai mentalmente tutto il mio progetto. Volevo dimostrare al mio responsabile di essere già in grado di operare in modo abbastanza autonomo.

    Prima di arrivare alla porta dove mi aspettava Carla, azzardai con una domanda che non c’entrava nulla.

    «Hai figli?»

    «Sì, una splendida figlia!» rispose.

    Probabilmente il mio era solo un tentativo per entrare in maggiore confidenza con lei, ma la conversazione finì lì.

    Le sorrisi e procedemmo al piano terra, verso il piccolo corridoio che conduceva a un’altra porta. La aprì.

    Il silenzio che fino a quel momento ci aveva accompagnato per tutto il tragitto si interruppe. La sala di distribuzione sembrava appartenere a un’altra dimensione o per lo meno mi trovai lì in un momento di discreto caos. Alla mia sinistra c’era un’enorme scaffalatura, divisa in scomparti, nella quale i libri erano classificati in ordine alfabetico; alla mia destra un grande bancone in legno chiaro e, dietro di esso, come fosse l’allegra caricatura di una coppia di attori comici, due colleghi raccoglievano le richieste di alcuni ragazzi e fornivano loro informazioni. Munito di camice e tesserino di riconoscimento, sebbene seduto su una comoda poltroncina da ufficio, uno dei due era senza dubbio molto alto. Di carnagione pallida, costui aveva un naso pronunciato e i lineamenti molto marcati, soprattutto gli zigomi che rendevano il suo viso esageratamente magro, quasi scarno. La bocca inespressiva chiusa a fessura e gli occhi semi addormentati non denotavano di certo l’entusiasmo e l’accoglienza richiesti a una persona addetta a relazionarsi con il pubblico. Trovavo stonato quel singolare personaggio e altrettanto pensavo anche del suo compagno, comunque, un po’ più vivace. Era stempiato, con un viso pieno, semplice nei lineamenti. La sua rasatura ne accentuava spudoratamente il doppio mento, messo ancora più in risalto dalla camicia chiusa fino al collo. Era assolutamente disarmonica, sebbene credo che lui fosse convinto del contrario. Vedendo quei due ragazzi e l’incarico che svolgevano, pensai che i criteri di scelta del personale non fossero adeguati. Ma erano solo supposizioni. Critiche nate dal mio percorso di maturazione attraverso indottrinamenti ricevuti nelle precedenti esperienze lavorative che saltavano fuori così, tra i miei pensieri, e che non mi sarei mai azzardato a esternare.

    Al momento opportuno, Carla trovò il modo di presentarmi a Sandro e Gianluca.

    «Vi presento il nostro nuovo collega, Ivano.»

    Sandro era il tipo più alto e come avevo già intuito la sua voce aveva un suono basso, monotono, quasi spettrale. Mi mostrò una mano nodosa e pallida. La strinsi. Fui pervaso da un brivido lungo la schiena. In un primo momento associai questa sensazione alla sua lugubre presenza.

    Gianluca mi mostrò un sorriso, a mio avviso troppo diplomatico. Questo già non mi piaceva. La sua carineria scontata mi puzzava di falso. Invece approcciando con Sandro, nonostante la sua cupezza, provai il forte impatto di una lealtà particolarmente cristallina. Gianluca iniziò a darmi il benvenuto, a dimostrarsi ben disposto a qualsiasi tipo di richiesta di aiuto, a dirmi che avrei trovato tanti bravi colleghi, e che come al solito mi sarei trovato bene. Come in una grande famiglia. Sandro, al contrario, era rimasto costantemente muto, zitto ad ascoltare noi che parlavamo, a testa bassa mentre concludeva un cruciverba nascosto sotto il bancone. Echeggiò poi la voce di Carla.

    «Bene, Ivano. Ora ti mostro il sotterraneo», e mi condusse verso la porta da dove eravamo entrati.

    Poi di nuovo quella leggera scossa dietro la schiena.

    Prima di uscire mi girai verso il bancone mentre una nuova orda di ragazzi lo stava già occupando chiedendo altre informazioni. In un piccolo spazio formatosi fra loro, riuscii a scorgere il viso di Sandro che prendeva le richieste. Forse mi sbagliavo, ma avrei scommesso che mi stesse guardando mentre mi allontanavo da lì.

    Scendendo la scala a chiocciola Carla, incuriosita dal mio parere, mi chiese: «Come ti sono sembrati?»

    «Simpatici.» Non trovai altro da dire in quel momento. Ero troppo preso da quella strana sensazione di poco prima. Ripetuta per due volte e sempre in presenza della stessa persona.

    «Avrai modo di conoscerli meglio», concluse Carla.

    Era così evidente che l’atteggiamento di Sandro non sarebbe risultato simpatico a nessuno per cui non capivo come mai Carla avesse taciuto sulla questione, facendo finta di niente. Probabilmente non eravamo ancora così tanto in confidenza da rivelarmi quello che veramente pensava di loro. Io però continuavo a rifletterci. A un tratto mi colse una strana sensazione. Entrai nel panico, sentendomi prossimo a riperdere i sensi. Scendevo quelle scale a chiocciola come se stessi girando intorno a me stesso, vorticosamente. Una giostra interminabile di vertigine e ansia. Per fortuna durò poco e subito ritrovai l’equilibrio mentre arrivavo in fondo a quel tormento, scendendo l’ultimo gradino. Una mano mi afferrò il braccio.

    «Ivano. Tutto bene?» Mi ritrovai all’improvviso con la mente vuota a colmare quell’angoscia impellente.

    «Io? Sì, tutto bene», mentii con un sorriso tirato.

    «Stavi per cadere. Non te ne sei accorto?» chiese Carla preoccupata, tenendomi per il braccio.

    Non mi sentivo affatto bene.

    «No. È tutto okay!»

    «Hai una faccia pallida. Vuoi tornare su?»

    «No, No. Continuiamo. Non è niente. Lo giuro.» Solo in quel momento lasciò la presa. Aveva sentito nel mio tono un leggero fastidio.

    Eravamo giunti su un pianerottolo.

    «Va bene, andiamo.»

    Carla aprì la porta davanti a noi.

    Al di là di essa c’erano due angusti corridoi con le pareti verniciate di bianco, uno a destra e l’altro a sinistra.

    «Scegli da che parte andare», disse Carla.

    «Per me va bene sia l’uno che l’altro. Devo comunque vederlo tutto il sotterraneo.» E mi avviai verso sinistra. Alla fine dello stretto corridoio, arrivammo in una saletta dal soffitto basso in pietra bianca con delle leggere escrescenze che ricordavano piccole stalattiti. Le pareti erano occupate da scaffali in metallo di colore chiaro che contenevano innumerevoli volumi, i quali riportavano sul dorso il codice di collocazione. I due vani adiacenti ne erano quasi la copia, con l’unica differenza che il soffitto formava un’arcata a botte tanto da somigliare a quella di una grotta. In tutte e tre le salette la luce proveniva da lampade al neon che conferivano al bianco dei soffitti una luminescenza quasi glaciale. Altra differenza tra il primo locale e gli altri due era la disposizione degli scaffali. In queste ultime erano sistemati al centro in modo da consentire comunque il passaggio da ambo i lati. Mentre eravamo lì avevo notato, appesa a un muro, una scatola grigia di medie dimensioni, paragonabile a un piccolo armadietto. Sullo sportello era apposta un’etichetta con scritto 1° PIANO BIS e una serratura con la chiave. Carla mi spiegò cosa conteneva e la sua utilità. Nell’intero sotterraneo erano presenti quindici di quegli armadietti grigi, disposti secondo un piano logico; a livello tecnico ignorava il motivo per cui erano stati posti in quei punti e non in altri. Ognuno di questi comandava una stazione presente nei vari piani della biblioteca e tramite un dispositivo situato nell’armadietto si impostava il codice associato a quella stazione per la destinazione dei carrelli. Quindi a quelli della distribuzione bastava digitare il codice di destinazione per spedire il carrello con le richieste ed esso arrivava alla stazione prescelta. Aprì lo sportello per farmi vedere il quadro di comando. C’era una serie di tasti numerici e alcuni pulsanti, con delle scritte incomprensibili, tanto che soltanto un esperto poteva sapere a cosa servissero. Sopra i tasti c’era un piccolo display su cui appariva a intermittenza MARCIA n. 27. Carla mi spiegò che essendo quell’armadietto associato al primo bis (il piano dove avrei lavorato) il quadro era attivo e se dalla distribuzione digitavano il codice 27, avrebbero fatto partire un carrello per la destinazione di quel settore. Poi mi disse che, per il lavoro che svolgevamo, non servivano tutte le stazioni e che in quel momento ne stavamo utilizzando, esclusa quella della sala di distribuzione, solo cinque su quindici. Le altre dieci erano sì presenti nei piani ma semplicemente non utilizzate perché scomode e inutili. Erano state perciò occultate in piccole stanze, come se non esistessero. Dato che il sistema elettrico dei binari era stato costruito come un unico blocco, in pratica tutte le stazioni erano attive. Solo i quadranti corrispondenti a quelle inutilizzate erano stati disattivati.

    Mi ripromisi di memorizzare sin da subito i codici di comando di tutte le stazioni attive.

    Al termine del viaggio nel sotterraneo avrei conosciuto la disposizione di tutti quegli armadietti.

    Ritornammo nel corridoio e prendemmo la direzione opposta. In prossimità dell’ingresso della prima saletta che avremmo visto c’era un ascensore. La nuova stanzetta riproponeva le fattezze di una grotta, meno illuminata delle precedenti ma con un’atmosfera diversa.

    Il successivo salone cambiava di netto sia per lo stile architettonico che nell’illuminazione. Molto più ampio e con il soffitto più alto, conteneva scaffali fissi ai lati delle pareti.

    La stanza successiva aveva due ingressi. Prendemmo quello di destra.

    «Questa viene da tutti chiamata La Reggia, la sala principale del sotterraneo.»

    Eravamo in un ampio e lunghissimo corridoio. Sulla sinistra la parete era costituita da mattoni che in alcuni punti formavano delle piccole nicchie. Il soffitto era grezzo, in pietra bianca. Sembrava un immenso antro profondo ed era illuminato da una serie incolonnata di lampade al neon.

    A destra cominciava una fila di enormi blocchi chiamati compact (una sorta di libreria mobile) che contenevano scaffalature piene di libri.

    Gli imponenti blocchi di colore grigio, simili a vagoni, erano numerati sul dorso. Uno di questi, accanto a me, aveva frontalmente una grande casella col numero 1 così come tutti gli altri a seguire, con numeri crescenti. Riuscii a contarne trenta. Sempre di fianco a me, sulla parete, era installato un dispositivo dai tasti bianchi, numerati dall’uno al nove, con un display incorporato. Serviva ad attivare lo scorrimento degli scaffali. Carla gli si accostò e cominciò a spiegare.

    «Penso che avrai capito come funziona. Ti faccio un esempio. Se ho bisogno di prendere un libro nel compact 4, devo solo digitare il 4 e premere invio. Automaticamente tutti gli altri scomparti si sposteranno, dandoti modo di accedere a quello desiderato. Ovviamente l’unica difficoltà qui, è ricordarti quale codice di libri contiene ogni scaffale per sapere che numero devi digitare sul dispositivo. Ma te la caverai. Sono certa che imparerai alla svelta», poi si mise da parte e con una mano mi fece cenno di avvicinarmi.

    «Prova tu. Mettiamo il caso che ti richiedano un libro al blocco 5.»

    Annuii, avendo capito come muovermi.

    Premetti prima il tasto 5 e poi invio.

    Dal fondo del corridoio sentii un lieve rumore di ruote metalliche trascinate sui binari e un leggero fischio echeggiò sinistramente per tutto l’ambiente. Poi tutto cessò con un rumore secco come un urto fra due pesanti lastre di ferro.

    Per un secondo ci fu silenzio, quindi di nuovo partì il rumore strisciante del metallo che graffiava sui binari, più vicino di prima. Come una lama che passava sull’affilatoio. E ancora il secco clangore che portò, per un po’, la pace nella galleria e nel mio cuore. Mi scostai, per avere un’angolatura sufficiente a osservare meglio come i vagoni si muovevano in lontananza, spostandosi l’uno accanto all’altro a formare, di volta in volta, un varco fra i due.

    All’improvviso le lampade al neon si spensero una a una, oscurando il fondo e avanzando verso di noi come a inghiottire tutto il corridoio. A ogni lampada che si spegneva il rumore sinistro dei blocchi che scorrevano sui binari si faceva sempre più vicino.

    Sssssh, clang, shhhh, clang.

    Mi voltai verso Carla che sembrava non accorgersi di nulla. Oramai il rumore procedeva inesorabile come una creatura che stava uscendo dalle viscere del buio con l’unico desiderio di trascinarci con sé.

    E nella penombra mi resi conto che i passi gelidi e ferrosi erano frutto di orrende zampe di metallo avviluppate da filo spinato che terminavano con punte acuminate. Un passo dopo l’altro la creatura mostrò tutto il suo orrendo aspetto.

    Ssssh, clang, shhhh, clang.

    Una sagoma nera, enorme si muoveva con andatura strascicata e ingobbita, sbandando e urtando le spalle sul muro e poi sugli scaffali. La testa non aveva una forma ben definita, ma solo un grosso buco pieno di denti affilatissimi, rotanti. Le braccia esili e lunghe cadevano a piombo a terra mostrando, come per le zampe, un’infinità di artigli legati da fili elettrici e lame di rasoio alle punte. Tra una falange e l’altra giravano vorticosamente dischi taglienti seghettati.

    Le orrende braccia graffiavano il pavimento.

    … ssssshhhh. Le zampe avanzavano a ogni passo.

    … clang.

    «Non puoi gridare, sono venuto per te», shhhh, clang. Shhhh, clang.

    «Non uscirai vivo da qui, nessuno può farlo», shhh… clang. Shhhh. CLANG.

    Quest’ultimo blocco fermò quell’infernale meccanismo e tutto tornò alla normalità. Le luci erano accese e non c’era nessuna traccia di quella creatura.

    Carla non si era accorta di nulla. Si incamminò verso il blocco cinque e la seguii. Con una mano lo indicò.

    «Visto? Il dispositivo riconosce lo scaffale digitato, e poi puoi accedere a esso da ambo i lati.»

    In effetti il 5 aveva aperto due varchi rimanendo a distanza rispetto agli altri che si erano compattati tra loro.

    Mi sovvenne una domanda, forse provocata dalla visione della creatura che nella penombra aspettava e avanzava per raggiungermi e farmi a pezzi.

    «Sì, è un marchingegno all’avanguardia. Ma non è un po’ pericoloso?» chiesi, ancora sotto l’influenza di quella terribile allucinazione.

    «Cioè?»

    «Insomma, metti caso che uno si trovi lì in mezzo per prendere un libro. Passa un collega che deve consultare un altro scaffale…», Carla mi interruppe.

    «Ho capito. Ti mostro una cosa» ed entrò nel varco disposto tra il 6 e il 5, scomparendo così dalla mia vista.

    Rimasi immobile. Sopraggiunse la sua voce alta da dietro il blocco.

    «Vai al dispositivo e digita 4», e capii la sua intenzione. Mi avvicinai a passo spedito verso il varco. Lei si trovava lì davanti a me con le mani dentro le tasche del camice.

    «No, Carla. Non mi dare questa responsabilità!», esclamai con tono allarmato.

    Con il suo leggiadro e dolce sorriso cercò di rassicurarmi.

    «Non rischi nulla. Devi solo premere un bottone. Stai tranquillo, non succederà niente» e il mio stato di allerta venne subito sopito dalla sua voce eterea e morbida.

    Ma in un angolo remoto del mio cervello ancora percepivo un sottile senso di pericolo. Mi avvicinai di nuovo al dispositivo a passi indecisi e lenti.

    «Dai, Ivano, ora premi il tasto!»

    Mi decisi ad alzare l’indice verso il tasto 4, ma…

    La tastiera sembrava cambiata.

    Ero confuso, non mi ricordavo se fosse sempre stata così o no. I tasti erano tutti rossi. Ma prima non erano bianchi?

    C’era qualcosa che non mi quadrava. Come avevano fatto a cambiare colore?

    Cominciò a tremarmi la mano. Avvertivo lo strano presagio che premendo quel pulsante sarebbe successo qualcosa di terribile.

    «Ivano, premi il tasto, dai!», continuava a ripetere Carla con voce più sostenuta.

    Tornai a guardare il quadro di controllo.

    I tasti avevano preso vita pulsando frenetici, ricoperti di venuzze rosse e di vasi sanguigni che si dilatavano e si restringevano. Dal display iniziò a fuoriuscire del sangue denso e nero che colò sulla parete fino a terra.

    «Vuoi premere quel tasto del cazzo?», il tono di Carla era cambiato. Non era più umano, ma distorto e metallico. Un incrocio tra timbro roco e voce squillante e acuta.

    Non avrei premuto un bel niente, invece.

    Era tutto esageratamente anomalo, neanche da paragonare alle visioni precedenti. Quella era una sensazione viva, mi sentivo sospeso fra sogno e realtà. Il pericolo era davvero tangibile. Un leggero fischio ferì le mie orecchie come un lungo ago sottile che mi attraversava da parte a parte la testa. Portai le mani alle tempie per il dolore e digrignai forte i denti. Mi sentivo il cervello come se fosse stato fatto a pezzetti. Dietro di me udii dei passi che si avvicinavano.

    «Vuoi premere quel dannato bottone? Non lo capisci che nessuno è meno assassino di te?»

    Quella strana voce non mi era nuova, ma di certo non era quello il momento di pensare a quando e dove l’avessi già sentita.

    «Le pecorelle non sono mai esistite su questa terra. Tutti quanti vi nascondete nel sangue sacrificato di qualcun altro. A chi devi più dimostrare ciò che non sei?»

    Quelle parole mi sconvolsero l’anima. Nonostante questo cercai di non cedere a quell’entità demoniaca.

    Il dispositivo, nel frattempo, era un’oscenità di bolle membranose e semitrasparenti che si gonfiavano e sgonfiavano, ricoperte da quel liquido simile alla pece che proveniva da dietro il display.

    All’improvviso la testa mi fece ancora più male, come se un trapano mi bucasse con forza il cranio.

    La presenza diabolica mi ordinò di nuovo di premere il tasto o non si sarebbe risparmiata alcun tipo di tortura. Cosa sarebbe successo una volta premuto? Quale sarebbe stata la sorte di Carla? O la mia? Di quale colpa mi sarei macchiato? Il trapano si spingeva fuori e dentro con violenza, stuprandomi ogni singola particella di materia grigia. Gridai ancora più forte.

    «Non ti piace uccidere? In fondo è solo un mordi e fuggi. Che hai da perdere? Mordi-e-fuggi-mordi-e-fuggi.»

    Sottilissimi aghi mi entrarono a ripetizione nelle orecchie giungendo al cervelletto. Lo sentii corrodere lentamente. E ancora dolore, strazio, unito alle mie urla di implorazione. Stracciato e divorato da fauci ingorde, affamate e senza pietà. Non ce la facevo più. Aveva vinto

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