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L'inferno è vuoto
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E-book819 pagine11 ore

L'inferno è vuoto

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Info su questo ebook

L’inferno è vuoto è il settimo libro di Rinaldo Battaglia e un ulteriore passo dell’autore sulla strada tracciata nei volumi precedenti, studiando ancora e sempre il passato per meglio capire il presente e per puntare a un futuro, per i nostri figli, con meno atrocità e più amore. Si parte dalla scelta nel nostro paese della prima amnistia, quella chiamata di Togliatti, del giugno 1946 e da quella più pesante del Natale 1953, che, insieme alle altre minori, hanno lasciato segni di vita e di morte per gli anni avvenire, per arrivare alla guerra in corso, partita il 24 febbraio 2022 nel cuore dell’Europa, che ha frantumato certezze ed equilibri, evidenziando al massimo livello le nostre pesanti carenze di memoria e riaprendo, conseguentemente, le porte dell’inferno che tutti credevamo chiuse per sempre. E i diavoli, come esperti avvoltoi, sono subito riapparsi tutti qui sulla terra, lasciando totalmente vuoto l’inferno.
LinguaItaliano
EditoreVentus
Data di uscita27 apr 2023
ISBN9791222400051
L'inferno è vuoto

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    Anteprima del libro

    L'inferno è vuoto - Rinaldo Battaglia

    inferno-vuoto-fronte.jpg

    © Pubblicato da Ventus

    Marchio editoriale indipendente

    Disponibile in rete e in libreria

    https://ventuseditore.blogspot.com/

    ventuseditore@yahoo.it

    È severamente vietato riprodurre, in parte o nella sua interezza, il testo riportato in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.

    Rinaldo Battaglia

    L’inferno è vuoto

    L’inferno è vuoto…

    La memoria è stata cacciata via!

    La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza.

    (George Orwell)

    L’inferno è vuoto

    Ci sono foto sbiadite che ti arrivano direttamente al cuore, senza fermarsi per strada.

    Ci sono foto che graffiano le cicatrici dell’anima e le fanno sanguinare peggio di una spada.

    Ci sono foto che ti spaccano dentro e non necessitano di commenti.

    Ci sono foto che ti ricordano quanto restiamo ancora indifferenti.

    Ci sono foto che da ottant’anni vengono ripetute nei quattro angoli del mondo,

    ogni giorno, ogni ora, senza riuscire a eliminarne gli scenari sullo sfondo.

    L’inferno è ancora vuoto, non c’è più nessun Dante che lo racconti,

    abbiamo alzato nuovi muri, chiuso gli occhi, ristretto gli orizzonti.

    L’inferno è vuoto perché tutti i diavoli sono qui sulla terra

    a formattare nuovi apostoli pronti alla prossima guerra,

    a seguire nuovamente altri capi, altri falsi messia

    confusi nella nostra ignoranza, perduti nella loro ipocrisia.

    I diavoli sono qui sulla terra, l’inferno è vuoto

    ci siamo anche noi, smarriti, in quella vecchia sbiadita foto.

    Serve ripassare la storia…

    …prima che sia la storia…

    …a ripassare.

    Dedicato a chi riesce a nuotare,

    in questi anni di totale confusione

    e feroce mistificazione,

    senza lasciarsi ancora annegare

    L’inferno è vuoto…

    C’è stata l’amnistia!

    Sommario

    Introduzione

    Capitolo 1: il silenzio che parla.

    Ragione Sociale delle Fabriken (in maiuscolo) seguito dal nome del lager e dal nome del paese o luogo in cui si è svolto il lavoro come schiavi di Hitler

    Capitolo 2: bagagli di cenere

    Capitolo 3: per decenza, solo per decenza

    Capitolo 4: digli che suo padre è morto

    Capitolo 5: ammazzate tutti, Dio conosce i suoi

    Decreto presidenziale 22 giugno 1946, n.4 (cosiddetta Amnistia Togliatti)

    D.P.R. 19 dicembre 1953, n. 922. – Concessione di amnistia e di indulto.

    Capitolo 6: io sono solo andato nella stanza accanto

    Capitolo 7: la pace arriverà solo con la nostra morte

    Capitolo 8: salvatela per pietà!

    Appendice conclusiva

    Il turno di notte

    La donna con la borsetta

    Il Manifesto Russell - Einstein

    Cos’è la dignità?

    Bombe sul parco giochi

    Memorie dal lager

    La bambola di Anette

    La strada verso est

    Il volto della guerra

    Scemo di guerra?

    Prigioniero di guerra a 15 anni

    Soldati di 12 anni a Berlino, a difesa del bunker

    Quante Waterloo ancora?

    In campo come nella vita

    Che si fottano!

    La medaglia dentro la calzamaglia

    Figli di un dio minore

    Le tregue di Natale

    Morire a quattro anni tra le braccia della madre

    I cani di Ebensee

    Uno su mille

    Il sorriso rubato di Sissel

    In guerra chi è il nemico?

    I piccoli martiri di Gorla

    Il sogno spezzato di Federica

    La fine

    Le formiche da Mauthausen a Sierra Pelada

    Dove siamo noi, la giustizia la facciamo noi!

    Sotto il vestito niente

    Dedica finale

    Bibliografia

    Biografia

    Sono solo parole,

    solo piccole foglie sollevate in alto dal vento…

    Nulla di più.

    L’inferno è vuoto e tutti i diavoli sono qui.

    (William Shakespeare)

    Introduzione

    John Steinbeck un giorno disse tre parole in croce che mi hanno più volte costretto a ragionare, arrivando poi, sempre, a condividerle in toto: «Ogni guerra è sintomo del fallimento dell’uomo come animale pensante». E detto da lui, che aveva vissuto le due guerre mondiali e, perché no, anche le paure della Guerra Fredda, soprattutto ai tempi di Cuba, non le ho mai messe in discussione.

    Invece ora, alla mia età matura, e solo ora, da questo maledetto 2022, mi accorgo di quanto fossero errate. La guerra non indica il fallimento dell’uomo in quanto animale pensante, perché gli animali, quando a causa loro o per altri fattori esterni si fanno male e subiscono sofferenze, poi – sarà per istinto, sarà per esperienza loro diretta – stanno lontani da quel pericolo, da quel rischio. Se un cane o un gatto mangia qualcosa che lo ha fa star male, state sicuri che non si avvicinerà più a quell’alimento. Preferisce di certo restare a digiuno, anche se affamato. Non so se è animale pensante o meno, ma di sicuro saggio e previdente.

    Fino al 24 febbraio 2022, da grande amante della Storia contemporanea, ho sempre analizzato, scritto e parlato di guerre al tempo passato. Un paese è stato invaso, ci sono stati eserciti che hanno ammazzato, ucciso, distrutto. Ci sono stati civili, non solo soldati, trucidati, bombardati, stuprati. Donne, vecchi e bambini sono stati martoriati, rubati, torturati, deportati. Esodi di milioni di persone verso altre terre, terre straniere, lontane, sperdute. È la Storia della Grande Guerra e, peggio, di quella dopo. Sempre con verbi al tempo passato.

    Ora non è più così. Devo parlare, studiare, analizzare al tempo presente. Strano a dirsi. E non ero abituato. Un paese viene invaso, ci sono eserciti che stanno ammazzando, uccidendo, distruggendo tutto. Ci sono civili, e non solo soldati, che vengono oggi e ogni giorno trucidati, bombardati, stuprati, evirati. Donne, vecchi e bambini che vengono oggi martoriati, rubati, torturati, deportati. E poi esodi in corso di milioni di persone verso altre terre, terre straniere, lontane, sperdute. Strano a dirsi. E non ero e non eravamo abituati.

    Siamo stati preparati a vedere la guerra come un film alla televisione, replicato mille e mille volte, in cui ognuno di noi conosce a memoria le battute o le scene. E così non c’è più pathos perché ne si conosce già la fine, che ci piaccia o meno. Persino se qualche sequenza la ricordi troppo brutale o fastidiosa, col telecomando, la salti, cambi canale o vai oltre, alla scena successiva, come fosse una pubblicità non gradita. Tanto il risultato finale non cambia, sai qual è. Sarà conoscenza, sarà esperienza, ma ti trovi pronto, sicuro e non perdi le tue certezze. Sei tu che gestisci le tue emozioni, con ordine e controllo. Ora non è più così. Devo guardare, studiare, analizzare quel film in modo differente, perché non ne conosco la fine, tanto meno il tempo residuo o la capacità di tenuta sulla violenza delle scene successive.

    Strano a dirsi. E non eravamo pronti.

    «Ogni guerra è sintomo del fallimento dell’uomo come animale pensante.»

    Assolutamente sbagliato, l’uomo non è un animale pensante e neanche un animale, perché se lo fosse, sarà per istinto, sarà per esperienza diretta, la guerra in corso – come tutte le precedenti – non sarebbe neanche nata. E quindi l’uomo non essendo pensante e non essendo animale, di vero, almeno dopo il 24 febbraio 2022, della citazione di John Steinbeck resta accettabile solo la prima parte: la guerra è solo un fallimento dell’uomo. E avendo tutti i fallimenti un inizio e una fine, per meritarsi quel titolo e per esser definiti tali, c’è da chiedersi cosa serve e cosa manca ancora per intervenire tutti – chi dal basso, chi dall’alto – ognuno in base al proprio ruolo, coscienza e mestiere, per fermare questa nuova maledetta guerra.

    Oppure è già diventata normalità?

    Una notizia di terza o quarta pagina, dopo lo sport o il gossip del mese? L’abitudine al dolore, la quotidianità passiva ai morti e agli eccidi, o se preferite – con molta più enfasi – la banalità del male?

    Anche oggi i Telegiornali di turno parlano di beghe politiche, di colori e gestione delle alleanze, di come si fa a fregare un voto in più nella prossima elezione, come tanti Cetto La Qualunque, forse il politico più vero nato negli ultimi 20/30 anni, non a caso fortemente imitato, clonato, copiato. E per quanto l’uomo non sia un animale pensante, per chi ama studiare ogni giorno libri della nostra storia recente, sorgono domande spontanee, inevitabilmente. Perché «nel 2022 nessun motivo può giustificare il ricorso a una guerra», parole queste semplici, elementari, quasi banali sebbene rubate ad Antonio Guterres, il Segretario Generale dell’ONU.

    Nella generazione di mio padre, schiavizzata nei lager nazisti, la domanda principale, se non unica, era di chiedersi: cosa ho fatto di male per meritarmi tutto questo?

    La fame era così cronica che non permetteva di generare al cervello pensieri ulteriori o più etici.

    Chi poi, da reduce, è tornato, indipendentemente dai gradi, ruoli, divise o esercito a cui è stato parte, giorni su giorni, anni su anni si chiedeva: perché io sì e gli altri no? Perché io mi sono salvato e gli altri miei amici sono morti?

    Noi siamo la generazione nata dalla loro sopravvivenza, dalla loro voglia di riscatto e, riprendendo John Steinbeck, abbiamo davvero fallito, come uomini e persino anche come animali. Il 24 febbraio 2022 ce lo rinfaccia ogni secondo.

    E le domande di base diventano altre: perché non abbiamo compreso il dolore della generazione di mio padre e di mio nonno? La loro lezione di atroce sofferenza e atroce terrore? Perché non abbiamo visto sotto la cenere le cicatrici dei nostri padri? Che senso ha avuto il ritorno a casa di quei soldati sfiniti, se noi, i loro figli, non abbiamo poi capito? Perché non abbiamo aperto le loro valigie e ascoltato le loro coscienze, perché non abbiamo custodito la loro eredità, i bagagli di cenere che avevano raccolto per noi?

    Bagagli di cenere spenta, non più idonea ad accendere nuovi fuochi, ma caso mai capace ancora di spegnere nuove fiamme portate dal vento d’autunno, quando anche il sole stanco si avvia al riposo.

    Perché non abbiamo davvero compreso il dolore della generazione di mio padre e di mio nonno? In quale posto ci siamo fermati e soprattutto dove, dove abbiamo sbagliato nel nostro percorso di crescita e recupero delle esperienze umane passate, che sembra non siano servite a nulla e nulla ci abbiano insegnato? Peggio degli animali, pensanti o meno che essi per davvero siano.

    Domande senza risposta, domande infinite. Braci di legno mai spente, nascoste sotto la cenere. Ed è terrificante capire come si è tornati indietro.

    In un recente incontro nel mio paese in occasione dell’ultimo Giorno della Memoria, prima del 24 febbraio 2022, un amico presente alla serata mi ha chiesto, quasi in separata sede, come mai, alla veneranda età dei miei 60 anni, abbia trovato il tempo, e la voglia soprattutto, di dedicare parte delle mie energie alle tragiche vicende storiche dell’ultimo secolo, io che provengo e vivo nel mondo bancario e del credito, con formazione professionale che poco ha da vedere con quel che ora scrivo.

    Avevo letto in quei giorni un libro di Davide Romanin Jacur, storico padovano che ho avuto il piacere di conoscere di persona, un vero must per chi vuol capire il senso della guerra e dei lager nazisti – KZ lager – e ho così risposto di scatto, riprendendo quasi a memoria le parole (o il senso di quelle parole) con cui lo storico Antonia Arslam introduceva quel libro. E sono parole che condivido appieno.

    Oggi più che mai noi «dobbiamo creare la consapevolezza di ciò che è accaduto nel recente passato» attraverso un’informazione estesa e corretta, ossia documentata, quasi cinica, che mostri «l’immane possibilità negativa» dell’uomo. Perché ogni giorno si vedevano già allora «gli spettri della cancellazione o la revisione a mero uso e consumo politico di quanto avvenuto».

    Ed era prima del 24 febbraio 2022.

    Ora possiamo aggiungere che anche da noi, nella nostra Europa, «l’immane possibilità negativa» dell’uomo è diventata realtà quotidiana, continuata, tangibile, quasi banale, forse sotto-sotto accettata, se non indifferente, non solo a mero uso e consumo politico. Questo soprattutto da noi in Italia, dove il tutto avviene nel bel mezzo di un periodo di profonda trasformazione. In questi ultimi 10/15 anni abbiamo subito sconvolgimenti complessi, planetari e globali: ’finanziarizzazione’ dell’economia, digitalizzazione del lavoro, migrazioni bibliche, cambiamenti climatici e naturali di portata mondiale, che hanno inevitabilmente prodotto paura, incertezza e diffidenza, da noi più che altrove. E da noi più che altrove questo è stato colto dalle forze politiche più populiste, razziste o legate a un passato talvolta falsamente dipinto o venduto solo nelle pagine meno tragiche. Tra il silenzio colpevole degli altri.

    Martin Luther King un giorno disse proprio: «Ciò che mi spaventa non è la violenza dei cattivi, ma è l’indifferenza dei buoni». Dobbiamo veramente tutti prenderne conoscenza e coscienza. Forse questo era il consiglio di John Steinbeck, affinché l’uomo finalmente diventasse un animale pensante. In tutti i sensi, serve diventare, e in fretta, animali pensanti.

    Cosa ho fatto di male io per meritarmi tutto questo? Perché io sì e gli altri no? Perché io mi sono salvato e gli altri miei amici sono morti? Perché non abbiamo noi compreso il dolore della generazione di mio padre e di mio nonno? E soprattutto – una quarta domanda, non più al tempo passato o al presente, ma quella al tempo futuro – la nostra generazione, figlia dei sopravvissuti dei lager e delle guerre precedenti, che mondo lascerà alla generazione dei nostri figli e dei nostri nipoti? Quale sarà la nostra eredità che, come bagagli di cenere, lasceremo loro?

    Perché «non sempre quello che viene dopo è migliore», lo scriveva già due secoli fa Alessandro Manzoni, grande osservatore e analista del suo tempo.

    Il libro che andrete a leggere nasce dopo il 24 febbraio 2022, ogni pagina viene condizionata da quanto successo quella notte e, per effetto domino, dagli eventi dei giorni e mesi successivi.

    Nella sostanza, tenta delle risposte alle domande che il nuovo vento ci ha riproposto, lasciando vuoti i nostri concetti di tranquillità, sicurezza, superficialità.

    Tutti i flash-back, talvolta quasi ossessivi se non esasperati, i continui ritorni alla precedente guerra, talvolta confusi o gettati volutamente alla rinfusa come chicchi di grano seminati in un campo e sparpagliati proprio come fa il vento, non sono per nulla casuali.

    Sebbene volutamente quasi irritanti o ripetitivi, forse aspri se non pesanti, somigliano ai segnali stradali che troviamo lungo le piccole vie o le grandi tangenziali che vogliamo percorrere in tutta velocità. Sappiamo bene la loro utilità, talvolta ci salvano la vita, aiutano la nostra guida, ma li prendiamo sovente con molto fastidio o peggio disturbo e indifferenza, come se quei segnali volessero mettere in discussione le nostre capacità o ridimensionassero il nostro valore di esperti piloti da Formula Uno.

    E non capiamo che senza quei segnali, senza la Memoria, saremmo tutti perduti nella più totale anarchia o confusione e chissà dove andremmo a sbattere.

    La stessa struttura del libro talvolta appare volutamente, provocatoriamente, disordinata, con continui richiami a vicende apparentemente incongruenti. Eppure questi contrasti o salti di pagina – soprattutto nella prima parte, poi lentamente si attenuano, vuoi perché ce ne siamo abituati come avviene per la guerra in corso in Ucraina, vuoi perché alla fine una via d’uscita o una morale dobbiamo sempre trovarla, se si vuole andare oltre – hanno una loro logica, una loro armonia di fondo. Il tutto rende il quadro di non facile analisi e necessita pertanto da parte del lettore maggiori e forti attenzioni. Come se ci fosse un velo di nebbia sulla pianura e davanti al nostro orizzonte, lungo la strada da percorrere.

    Lo si sa bene, la nebbia nasconde sempre le cose e confonde la verità. Perché tutte le guerre sono uguali, identiche, difficili da distinguere se non per il progresso tecnologico in grado di manifestare e usufruirne. Tutte le guerre sono analoghe e capaci di generare negli uomini normali solo sgomento, assenza di riferimenti, confusione totale, smarrimento senza uguali, sensazione viva di esser protagonisti di un effettivo fallimento generale e non trovare la soluzione per uscirne.

    Come se ci fosse un velo di nebbia nella nostra vita e davanti al nostro futuro, lungo la strada da percorrere.

    La terra che viene a mancare sotto i piedi. Si perde l’ordine e il controllo che prima si possedeva. L’inferno che riapre le sue porte all’improvviso e tu, tu non sei preparato.

    Perché la guerra poi diventa sempre autonoma, vive di luce propria, si autoalimenta. Ognuno diventa schiavo del proprio ruolo, della propria divisa e arriva alle peggiori bassezze, senza limiti o freni. Sui più deboli, sulle donne, i vecchi e soprattutto sui bambini.

    Perché nella guerra tutti – come scrivevano insieme già nel lontano 1955 Bertrand Russell e Albert Einstein nel loro Manifesto – «tutti, in eguale misura, sono in pericolo». Cercavano loro due dall’alto delle loro scienze e coscienze di darci una soluzione, indicarci una strada per salvarci: «Se il pericolo è compreso, c’è speranza che lo si possa collettivamente evitare».

    E ora dal 24 febbraio 2022 – malgrado i manifesti passati, malgrado il nostro sapere, il nostro conoscere, malgrado i segnali ricevuti – in Europa, quella dotata delle bombe atomiche e in quella parte del continente più dotata di grandi centrali nucleari, la guerra e i suoi fantasmi sono ritornati.

    Tutti i diavoli si sono ripresentati, scappando dall’inferno in cui i nostri padri li avevano incarcerati, nelle loro speranze e nelle loro preghiere, convinti magari per sempre, credendo magari in eterno.

    E invece sono tornati e ora, purtroppo, l’inferno è vuoto.

    L’inferno è vuoto e tutti i diavoli sono qui.

    Rinaldo

    L’inferno è vuoto…

    Ma ci è rimasta l’ipocrisia!

    La storia si ripete, è uno dei suoi difetti.

    (Winston Churchill)

    Perla Schwarz era una donna ebrea dell’odierna Ucraina. In questa immagine era già stata condannata a morte: aspettava sulla rampa di Auschwitz-Birkenau solo il suo turno per essere portata alle camere a gas. I suoi occhi parlano in silenzio, come la sua dignità.

    Il silenzio che parla

    Capitolo 1: il silenzio che parla.

    C’è una cosa che accomuna i reduci di tutte le guerre. Soprattutto dell’ultima guerra mondiale. Ed è una cosa uguale, identica a tutti. Non tiene conto di gradi, ruoli, divise o esercito a cui sei stato parte. Non tiene nemmeno conto se hai vinto oppure perso, o meglio se il paese per cui hai combattuto alla fine sia stato inserito nella squadra dei vincitori o dei vinti. È una cosa semplice, una semplice domanda, quasi banale. Solo una domanda, nulla di più: perché io sì e gli altri no? Ed è una domanda che rovinerà il resto dei tuoi giorni, pochi o tanti che siano. C’è chi è morto senza trovare una giusta risposta o una parvenza di risposta che fosse in grado di tacitargli in vita la coscienza. Altri cercheranno risposte in luoghi e modi sbagliati senza riuscirci. Solo pochi fortunati troveranno pace e ristoro dando un senso a quanto vissuto prima. Solo pochi.

    Perché io sì e gli altri no?

    Perché io sono tornato a casa e non Vincenzo, quello di Castel Frentano, sulla strada che porta a Chieti, oppure Mario, che ogni giorno parlava della sua giovane moglie Cristina, sposata in tutta fretta e solo in Comune prima di partire dalla sua piccola Longobucco (Cosenza), e che voleva assolutamente tornare a casa per farlo anche in Chiesa, davanti a Dio? A Zeithain lasciò i suoi ventisei anni e una vedova a metà. Oppure Agostino, il maremmano che si fermò a vent’anni nel lager e che prima di morire volle un goccio di latte, che – non si sa come – gli altri prigionieri riuscirono a procurargli e morì assaggiandolo sulle labbra secche.

    «Potessi succhiarlo da una mia mucca, ancora!» furono le sue ultime parole, le gocce di latte diventarono lacrime negli occhi dei suoi compagni di sventura.

    Perché io sì e gli altri no?

    Domande senza risposta, domande infinite. Braci di legno mai spente, nascoste sotto la cenere.

    E c’è un’altra cosa che accomuna tutti i figli di quei reduci. Anche ottant’anni dopo, anche oggi, se solo giri gli occhi verso est.

    Perché non abbiamo compreso il loro dolore? Perché non abbiamo visto sotto la cenere le cicatrici dei nostri padri? Che senso ha avuto il ritorno a casa di quei soldati sfiniti, se i loro figli non hanno poi capito? Perché io sì e gli altri no?

    Qualcuno pensa che a sopravvivere siano stati solo i più bravi, coloro che si sono meglio adeguati alla fame e alla sete, che hanno subito meno bastonate o violenze inutili. Altri invece identificano i sopravvissuti come i non-eroi, quelli che in guerra non cercavano medaglie da adornarsi il petto o azioni suicida per dare orgoglio ai generali. O quelli che nei lager sopportavano, tacevano e morivano senza fare rumore, senza arrecare disturbo ai propri assassini e padroni. Sperando così, ubbidendo a tutto e a tutti, di avere una chance di vita in più. Ma si sa bene che non è mai andata così. Ci sono stati uomini che anche morendo si sono comportati da uomini, eroi che sono tornati a casa vivi, miserabili che da miserabili hanno fatto la guerra, il lager, il dopo-guerra e alla fine dei loro giorni da miserabili sono morti.

    La guerra è sempre stata una selezione per l’uomo, sin dai tempi scuri delle caverne, ma non sempre nelle selezioni a vincere è stato il migliore e probabilmente ancora oggi di questo errato risultato ne paghiamo il conto. Deve esser stato proprio così, se ci guardiamo un attimo attorno. Soprattutto oggi dopo il 24 febbraio 2022, nell’era post-moderna, dell’auto ibrida e dell’intelligenza digitale.

    Del resto Winston Churchill – uno che di guerre se ne intendeva – non a caso era solito spiegare le sue strategie militari con poche parole, ma che, messe insieme, indicavano millenni di vita: «La storia si ripete, è uno dei nostri difetti».

    E da quella triste notte di febbraio è ancora più facile dargli ragione.

    Perché io sì e gli altri no?

    «All’interno delle baracche, gli altoparlanti diffondono brani natalizi, valzer di Strauss, musiche austriache e musica operistica di vari autori […]. Trascorro questo periodo cullato dai ricordi, con il pensiero ai miei cari: non sanno che sono ancora al mondo e in salute. C’è il pensiero per loro che immagino soggetti ai peggiori bombardamenti, mentre loro penseranno chissà cosa di me».

    Dalla Prussia orientale, il soldato Carlo Zaltieri così descrisse su un foglio il suo Natale, anno 1943.

    «Abbiamo sradicato un pino nano per ogni baracca e lo abbiamo piantato in piedi tra i castelli dei nostri letti in legno. Non so chi è stato, ma uno di noi ha fatto tante striscioline di carta e le ha appese ai rami dell’albero. Cerchiamo di scaldarci al ricordo di giorni lontani: in ogni angolo si formano gruppi silenziosi e assorti. Fuori nevica e di casa non sappiamo nulla. Qualcuno che ha paura del silenzio, parla con voce monotona dell’albero che preparava per i suoi bambini, ma nessuno lo ascolta».

    Dal lager di Benjaminowo, uno dei tanti lager in Polonia, così l’IMI Paride Piasenti ricordava.

    Sotto quei pini, senza luci e colori, mancavano le letterine dei più piccini e i regali avvolti in variopinte carte d’alluminio: «Per il Natale, il Vescovo di Leopoli, ha fatto confezionare 2mila pacchi dono da distribuire a ciascuno di noi. Il Comando tedesco non è d’accordo. Risponde che non ne abbiamo bisogno perché siamo graditi ospiti del Reich».

    Sono memorie di un altro IMI, Gastone Petraglia.

    «Un’ombra nera, accoccolata lì vicino, sta scavando sotto la neve. Era un giovanissimo prigioniero russo, biondo, con degli occhi grigiastri, sbarrati e stupiti, come quelli di un animale selvatico in gabbia[…]. Sta cercando di razzolare nel mucchio in cerca di qualcosa da buttare nello stomaco […]. Mi offre un torsolo di cavolo e guarda compiaciuto l’impeto e la voracità con cui mi avvento sul suo regalo di Natale. Ci guardiamo a lungo negli occhi, intessendo un dialogo a bocca chiusa […]. Due mondi lontani che si vengono incontro e si toccano».

    Sono i ricordi di Tommaso Bosi.

    In quel Natale 1943 ognuno cercava di sopravvivere, anche dopo il Natale. Quel giorno c’era chi rovistava tra i rifiuti per non morire di fame, nella stessa giornata in cui si ricorda la nascita di Gesù, il Salvatore del mondo.¹

    In quel Natale un frate, padre Ernesto Caroli – fondatore poi dell’Antoniano di Bologna – portava agli uomini il conforto della fede e anche quello del cibo. Quel giorno aveva con sé un altarino da campo di legno e tutto il necessario per la Messa: crocifisso, ostie, ampolline e paramenti sacri. Un giorno di quel periodo, venne bloccato da una S.S. di sentinella nel lager. Brutalmente lo interrogò su cosa avesse nascosto sotto l’abito. Padre Ernesto, facendo spuntare pane, zucchero, uova e biscotti, col suo sorriso rispose di scatto: «Gottesdienst» (servizio divino). La S.S. abbassò il fucile. La scena si ripeterà molte altre volte con la sentinella di turno che continuerà a girarsi dall’altra parte.

    «Io non potrò fare nulla perché non ho che riso e farina, senza condimento alcuno, ma non me ne importa nulla. Se il Natale non è con la propria famiglia, o con la propria donna e i figli, non èNatale», furono le parole di Gianfranco Ferria Contin a chi gli chiedeva, nel lager, cosa potesse lui fare per racimolare qualcosa per mettere in piedi un pranzo (o qualcosa del genere) che non fosse solo di scarti e patate.

    Era inevitabile: il pensiero correva sempre alla casa lontana, ai bambini nati e a quelli che non si erano visti nascere perché la guerra era stata più veloce d’ogni legge della natura. Dalla strada fuori dalle baracche – dove dormivano i deportati per il lavoro nelle fabbriche vicine – arrivò quella notte forte il suono di una radio e il canto Stille Nacht, Heilige Nacht, intonato da una voce femminile.

    «Una donna sulla porta, gli occhi alzati al cielo, canta a squarciagola. Ci uniamo anche noi al canto e lei aumenta il volume della voce. Anche lei, tedesca, aveva il marito e il figlio al fronte. Il canto era diretto a loro. Quella notte non c’erano amici o nemici, c’erano solo uomini e donne».

    Sono ricordi indimenticabili di Carlo Zaltieri del Natale ’44.

    La guerra cinque mesi dopo terminerà, altre ne inizieranno, ma resteranno certe circostanze, uguali in ogni conflitto e in ogni angolo di mondo: la parola mamma che è su tutte le labbra, e i bambini che attendono il ritorno del loro padre.

    Come poteva nascere Gesù Bambino qui? – scrisse un altro nostro deportato, Domenico Saputo – Come poteva permettere tutto ciò? […]. Noi eravamo i testimoni della brutalità, noi dovevamo vivere per raccontare affinché in futuro uomini, donne e bambini non vivessero più in case diroccate, defraudati della loro vita, della loro infanzia – vittime e spettatori della più grande catastrofe umana. E continuava –Era il Natale più triste della mia vita. Era il Natale della mia crescita e della mia maturazione. Dovevo viverlo così, per raccontarlo agli altri, per non dimenticare mai.

    Non dimentichiamo che anche nell’ultimo Natale, quello 2022, vi erano almeno trenta guerre ancora presenti e assassine. A chi convenivano e a chi convengono? Quanti altri Natali ancora così?

    Perché io sì e gli altri no?

    Quelli non erano nemmeno discorsi legati alla fortuna, al fato o a Dio. Cosa c’entrava Dio se il tuo treno anziché arrivare nei lager della Bassa Sassonia o a Mauthausen arrivava nella Turingia o nell’Alta Baviera. Anzi, chi credeva in Dio forse aveva una carta in più da giocare e una speranza oltre la sofferenza. In ogni lager dove si poteva, si celebravano delle piccole messe, talvolta carbonare, talvolta vietate e se c’erano delle particole consacrate (o forse no) venivano frammentate in mille briciole, affinché servissero a più disperati. E lì non esistevano distinzioni: cattolici, protestanti, luterani, ortodossi. Persino musulmani della bassa Bosnia o atei cresciuti nella scuola di Stalin. Davanti alla morte, alla sofferenza estrema, all’ultimo respiro non esistevano differenze. Non esisteva più nulla sulla terra. Rimanevano solo, oltre i reticolati, le speranze in un mondo diverso, senza inferno, perché l’inferno era già lì.

    A guerra finita venne trovato in un piccolo lager alle porte di Berlino una scritta dentro le fessure di una baracca. Non vi erano nomi, solo una data: «Novembre 1938». Non servivano firme. Nei lager la prima cosa che si perdeva era il nome, la tua identità. Diceva solo: «L’inferno è il paradiso rispetto a qui». Ed era prima dell’invasione della Polonia, prima dell’inizio ufficiale della più grande tragedia creata dall’uomo sull’uomo, da quando l’uomo è stato creato.

    «L’inferno è il paradiso rispetto a qui.»

    Ma se la Seconda Guerra Mondiale è stata peggio dell’inferno, perché oggi ci stiamo ricadendo? Perché non abbiamo compreso quella tremenda catastrofe, quel tragico errore? Perché non abbiamo visto sotto la cenere le cicatrici dei nostri padri e, nei loro occhi, della guerra il terrore? Perché cerchiamo ancora l’apocalisse? Dove i nostri padri hanno sbagliato e dove noi, figli di quella generazione, perduta dalla guerra e nella guerra distrutta, dove noi ci siamo perduti?

    «L’inferno è il paradiso rispetto a qui.»

    E, strano solo a pensarci, gran parte dei prigionieri italiani, deportati nel lager nazisti dopo l’8 settembre 1943, avrebbero potuto andarsene da quell’inferno. Ma 650/700 mila deportati preferirono dire no. Preferirono il lager nazista, quello al cui confronto l’inferno divino risultava il paradiso, piuttosto che tornare a combattere per Mussolini e il Fascismo. Gli scrissero IMI sulla giacca, li battezzarono Internati Militari Italiani anziché prigionieri di guerra, gli tolsero tutti i diritti della Convenzione di Ginevra, li chiamarono badoglien, li definirono traditori. Nei lager di Hitler vennero usati come schiavi e come schiavi di Hitler vennero identificati. Ne morirono oltre 57mila subito (qualcuno dice 65mila) e dopo la fine della guerra, causa le sofferenze subite, almeno altri 10mila, gli altri 600mila vennero ridotti al silenzio, un silenzio totale, assoluto.

    Il silenzio che parla.

    Come disse più volte Andrea Pennacchi (Pojana, per gli amici), figlio di un ragazzo di 17 anni rastrellato nella bassa padovana, mentre lavorava nei campi, dai fascisti del prefetto Menna e dai nazisti, nell’estate ’44 e finito a Ebensee, sotto-campo di Mauthausen, a parlare nel dopoguerra era solo chi non doveva parlare togliendo così lo spazio e la voce a chi doveva parlare. A questi rimase solo il silenzio. Il silenzio che parla ancora.

    Il padre di Andrea Pennacchi aveva solo 17 anni. Ma ci fu di peggio in termini di età.

    A La Spezia, nella città dove era nato, il 24 dicembre 1930 – da padre tranviere e penultimo di quattro fratelli – il 19 settembre 1944, su delazione forse di alcuni fascisti del luogo, venne arrestato insieme al suo datore di lavoro, Renato Pedrini, un giovanissimo apprendista di un negozio di fotografia a Migliarina, quartiere periferico della città.

    Il ragazzo si chiamava Franco Cetrelli. Sarà con un altro coetaneo, Marcello Martini, il più giovane deportato politico italiano nei lager di Hitler. L’accusa? Aver aiutato dei partigiani.

    Venne mandato subito nel carcere di Marassi nella vicina Genova, spedito a Bolzano e da lì il 14 febbraio 1945 a Mauthausen, con la matricola numero 126.119.

    Nel lager la giovane età non gli consentì di sostenere gli infernali ritmi di lavoro a cui facevano già fatica gli uomini maturi.

    Aveva le orecchie grandi a sventola, il viso affilato, il mento lungo; parlava gestendo con le braccia magre, educato, pieno di paura. […] Entrava furtivamente, pieno di timore, e cercava gli amici italiani, come un cane bastonato e affamato cerca il padrone tra la folla. Le domande che faceva erano sempre le stesse: domande che volevano una risposta di speranza, una risposta che gli permettesse di essere meno solo fra quella povera gente sconosciuta e dolorante.

    Così scriverà anni dopo Mino Micheli, come lui schiavo a Mauthausen. Resisterà solo due mesi. Sarà fucilato dai nazisti il 22 aprile 1945 insieme ad altri compagni nella Appellplatz, per rappresaglia a un tentativo di rivolta a cui, disperato, aveva partecipato. Tredici giorni dopo il lager sarebbe stato liberato dagli Alleati.

    Fu più fortunato, per modo di dire, il coetaneo Marcello Martini. Era nato ben 10 mesi prima (il 6 febbraio 1930) nella sua Prato. Dopo l’8 settembre il padre, Mario, si unì alla Resistenza partigiana, coerentemente con le sue idee repubblicane e soprattutto antifasciste. Divenne il capo (col nome di Niccolai) del gruppo locale e forte sostenitore della clandestina Radio Cora, molto attiva nella zona e vero riferimento dell’antifascismo locale.

    Ma non poteva durare a lungo: ai primi di giugno 1944 i nazifascisti arrivarono alla famiglia Martini, nel frattempo sfollata a Montemurio. Non riuscendo a trovare il padre, impegnato in altre azioni partigiane nel pratese, si sfogarono sulla famiglia. La moglie e la figlia vennero deportate nel carcere di Santa Verdiana a Firenze e due mesi dopo, a metà agosto, grazie a un’azione partigiana riuscirono a fuggire.

    Diverso il caso di Marcello coi suoi 14 anni e mezzo, un ragazzo minuto, che forse ne dimostrava anche qualcuno in meno. Era un maschio, due braccia da lavoro, un potenziale schiavo di Hitler. Venne così trasferito subito, il 12 giugno, a Fossoli e, già il 21 deportato, anch’egli come Franco Cetrelli, poi a Mauthausen. Il viaggio durò, con altre 473 persone, ben 3 giorni e da quel giorno divenne il numero 76.430.

    Era minuto e forse fragile: nessun problema. Venne spedito dalle S.S. nel sotto-campo diWiener-Neustadt, dove peraltro lavorando si farà male, e poi declassato nel Natale ’44 in un altro sotto-campo, a Hinterbrühl, dove nel sotterraneo si montavano gli aerei a reazione di Hitler. Chi lavorava lì non doveva un domani testimoniare e così il 1° aprile 1945 in vista dell’imminente sconfitta nazista, le S.S. vigliaccamente obbligarono tutti gli schiavi, tra questi Marcello e i suoi 15 anni allora compiuti, a partire nelle assassine marce della morte. In sette giorni arrivarono, chi sopravvisse, a Mauthausen dopo aver percorso 230 km a piedi (30/35 km al giorno). Marcello fu tra chi vi arrivò e riuscì, malgrado le fatiche, a restare vivo fino al 5 maggio, quando il lager venne finalmente liberato dagli Alleati.

    A luglio tornerà a Prato: aveva quel giorno 15 anni e mezzo. Studierà, raggiungerà la laurea in chimica – suo sogno da ragazzo – si impegnerà nella testimonianza contro la guerra, incontrando giovani e scrivendo alcuni libri di memorie, tra cui uno dal titolo inequivocabile: Un Adolescente in Lager. Ciò che gli occhi tuoi hanno visto.²

    Morirà solo pochi anni fa, il 14 agosto 2019, tra gli affetti della sua famiglia, affetti più che meritati.

    Poi anche sui 15 anni di Franco e Marcello, schiavi adolescenti nei lager, e su tutti gli altri cadde per sempre il silenzio.

    E di questo assordante silenzio generale ancora oggi noi eredi di quell’Italia post-fascista, tuttora poco post e molto fascista, ne subiamo le conseguenze. L’ignoranza storica resta il nostro padrone.

    L’ignoranza storica resta il nostro vero padrone. Deve esser proprio così, se ci guardiamo un attimo attorno. Eppure solo gli IMI – senza tener conto dei vari Franco Cetrelli e Marcello Martini – erano 650/700 mila, ossia un terzo delle intere Forze Armate italiane alla sera dell’8 settembre 1943. Un terzo degli uomini in guerra, un terzo delle famiglie italiane coinvolte.

    Grande colpa la loro: aver detto no al fascismo di Mussolini, aver detto di ’no’ a un regime totalitario, a un potere criminale che aveva ridotto in catene, per oltre 20 anni, la Storia del nostro paese e l’anima degli italiani.

    Per salvarsi dell’inferno dei lager, anziché dire no avrebbero dovuto firmare per un sull’offerta dell’opzione Graziani. Bastava aderire e giurare:

    Aderisco all’idea repubblicana dell’Italia Repubblicana fascista e mi dichiaro volontariamente pronto a combattere con le armi nel costituendo nuovo esercito italiano del Duce, senza riserve, anche sotto il Comando Supremo tedesco, contro il comune nemico dell’Italia repubblicana fascista del Duce e del Grande Reich Germanico.

    Bastava aderire e giurare, anche se Italia repubblicana fascista era scritto in minuscolo e Grande Reich Germanico in maiuscolo. Messaggio in codice, per dire bene chi comandasse allora? Grande colpa la loro: aver detto no al fascismo di Mussolini.

    «Da quel momento ho cominciato a dire no, poi ho ripetuto il no in otto campi di concentramento dove sono stato», sono parole di Michele Montagano, classe 1921, quando disse il suo convinto no alla Repubblica Sociale di Salò. Da quell’8 settembre non ebbe mai nessun dubbio: «Ero un ufficiale del regio esercito italiano, non potevo combattere insieme a un’altra nazione che non era alleata, eravamo in guerra con la Germania».

    E così, insieme agli altri ufficiali che rifiutarono di aderire, fu internato in diversi campi di concentramento e di lavoro tra la Germania e la Polonia. Il sottotenente Michele (ora diventato matricola 27539) addirittura, casualmente, in uno di questi lager incontrò anche il padre, anche lui prigioniero, anche lui – maestro di scuola elementare – rastrellato a casa.

    Ma fu in un altro lager, quello di Wietzendorf, che Michele Montagano, insieme ad altri ufficiali del Regio Esercito, esaltò il suo valore e scrisse una pagina d’onore sul Libro della nostra Storia, una pagina come tante altre e, come quasi tutte, poco note o non soggetto di film patriottici.

    A Wietzendorf, nell’Oflag 83 in Bassa Sassonia, quando la guerra per i nazisti dava chiari presagi sfavorevoli e, forse, proprio per questo si comportavano ancora più con violenza e disprezzo sui deportati, il 24 febbraio 1945, ben 214 ufficiali decisero di non lavorare per il padrone. Tra questi Michele Montagano. Erano ufficiali, non erano mai stati sconfitti con le armi in pugno, erano stati traditi, non vinti. Non avrebbero quindi più obbedito agli ordini, non avrebbero più sfaticato e nemmeno partecipato alle interminabili conte, a cui ogni giorno erano chiamati nel gelo invernale.

    Durarono così, resistendo, per sei lunghissimi giorni, finché i Kommandant delle S.S. e alcuni uomini della Gestapo, offesi e preoccupati per la loro figuraccia verso Berlino, dettero ordine di prelevare 21 di loro, scelti a caso, e davanti a tutti fucilarli. Dovevano capire chi erano i padroni e chi nel Terzo Reich ancora comandava!

    Ma al momento dell’esecuzione con le guardie pronte a sparare, 35 ufficiali – sfuggiti alla selezione precedente – si offrirono come volontari per sostituirsi liberamente ai condannati a morte. Solo 35 ufficiali, perché 9 dei condannati non vollero, per dignità, essere sostituiti alla morte da altri come loro. Tra i 35 anche Michele Montagano.

    I Kommandant furono presi davvero in contropiede. Per loro era incomprensibile, non avevano mai visto una cosa del genere. Le parole dignità, altruismo, solidarietà cristiana, erano state bandite nel vocabolario tedesco già dal gennaio 1933.

    Le S.S. decisero così di abbandonare la fucilazione e ordinare subito il trasferimento di quei 44 ufficiali (e gentiluomini, viene da dire) in un centro di rieducazione al lavoro, nel lager di Unterlüss (zona di Südheide, sempre in Bassa Sassonia). Se erano malati di umanità dovevano essere immediatamente curati. E Unterlüss era l’ospedale idoneo: qui i deportati vivevano in condizioni durissime, alimentazione quasi ridotta a zero, violenza totale al limite dell’assurdo da parte delle guardie naziste.

    «Non c’erano forni crematori, ma bastonate e mazzate» ricorderà Michele, in un’intervista anni dopo per il progetto «Noi partigiani» e più di recente il 24 febbraio 2021 per «l’Avvenire».

    Dei 44 eroi ribelli di Wietzendorf nei 43 giorni di Unterlüss, prima della sua liberazione il 9 aprile, sei non si salvarono. Tra questi il tenente Alberto Pepe di Teramo e il tenente Giuliano Nicolini di Stresa, uccisi a botte dalle S.S di guardia, e il sottotenente Giorgio Tagliente di Taranto, picchiato a morte e finito con un colpo alla nuca. I tre, unitamente agli altri deceduti, chi per la fatica, chi per la fame e il freddo – il s.ten. Michele Rinaudo (Trapani), il s.ten. Giovanni Anelli (Torino) e il s.ten. Giorgio Balboni (Milano) – saranno insigniti della Medaglia d’Argento al Valor Militare alla memoria. Inoltre il 4 dicembre 2014, con decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri, a tutti i 44 eroi di Unterlüss fu concessa la Medaglia d’onore ai deportati e internati nei lager nazisti. Il minimo per uomini di così elevato spessore morale.

    Il 17 dicembre 2019, Michele Montagano – oggi tuttora vivo, l’unico tra quei 44 eroi – nella residenza romana dell’Ambasciata tedesca, a Villa Almone, ricevette l’Ordine al Merito della Repubblica Federale di Germania nel grado di Ufficiale, conferito dal Presidente della Repubblica Federale Frank-Walter Steinmeier. Il riconoscimento gli è stato consegnato dall’Ambasciatore Elbling «per il fondamentale contributo che ha dato alla comune cultura della memoria che è di grandissima importanza per le relazioni tra Italia e la Germania».

    Era un IMI Michele e gli altri erano solo 44 di quei 650/700 mila eroi. Erano oltre un terzo delle intere Forze Armate italiane in guerra alla sera dell’8 settembre 1943. Un terzo degli uomini in guerra che dissero no, un terzo delle famiglie italiane coinvolte. Eppure pochi conoscono gli IMI anche 80 anni dopo. Viva l’ignoranza, viva il silenzio che parla.

    Anni dopo, Claudio Sommaruga – di certo degno di credito essendo stato IMI in ben 13 lager nazisti, dal 9 settembre del ’43 al 22 aprile del ’45 – nel suo 1943/1945 Schiavi di Hitler,³ forse il più importante storico italiano degli IMI, andò oltre e focalizzò per bene il crimine di allora e questa, colpevole, ignoranza di oggi.

    Gli schiavi italiani furono in tutto 1 milione, di cui 716mila i cosiddetti internati militari (IMI) iniziali, 44mila deportati nei KZ (i lager di sterminio tramite il lavoro), 170mila lavoratori liberi civili (volontari e precettati) e infine 78mila altoatesini emigrati, che avevano optato per la nazionalità tedesca, ma riscopertisi italiani a guerra perduta.

    Furono un milione gli italiani coinvolti dopo l’8 settembre del ’43, schiavizzati dai nazisti col diretto e convinto appoggio dei fascisti di Salò. E nessuno oggi ne sa nulla.

    Qualcuno a sua difesa dirà che Claudio Sommaruga sia di parte, in quanto personalmente coinvolto, ma a monte resta sempre vero il concetto che la Storia contemporanea non è scritta dai vincitori o peggio dai vinti, ma dai documenti. E se i documenti non sempre sono facili di analisi, almeno per chi non vuol capire, agli ignoranti rimarrebbero sempre pagine di altri affermati studiosi e storici per sanificare le loro lacune. Del resto come scriveva a suo tempo Milan Kundera: «le persone sono anche responsabili di ciò che decidono di ignorare». Anche perché oggi ci sarebbero molteplici dottori a loro supporto. Luigi Cajani, Carmine Lops, Gabriele Hammermann, Lutz Klinkhammer, Brunello Mantelli, Gustavo Ottolenghi, Giorgio Rochat, Antonio Rossi, Gerhard Schreiber sono solo i più quotati.

    Furono un milione gli italiani usati come schiavi dai nazisti col supporto dei nostri fascisti. Com’è possibile che nessuno oggi ne sappia nulla?

    Perché io sì e gli altri no?

    E l’unica risposta che dava loro conforto rimaneva quella di esser tornati a casa per fare da scuola ai figli, in modo tale che non vi fossero per l’eternità altre guerre, altre carneficine, altri duci, altri lager. Almeno nella nostra Europa, dove nel secolo scorso si erano seminate e subito bene sviluppate le due più grandi tragedie mai avvenute nel mondo.

    Per ottant’anni ci hanno creduto e dato un senso al loro ritorno. Oggi sono quasi tutti già morti e forse per loro è, strano a dirsi, una fortuna. Chi sarebbe stato in grado di dire che si erano sbagliati, tragicamente sbagliati? I figli non hanno capito niente, nessuna lezione è stata appresa.

    Il loro «Perché io sì e gli altri no?» diventerebbe un più atroce: «Mi domando a cosa io sono servito?». Domande senza risposta, domande infinite. Braci di legno mai spente, nascoste sotto la cenere. I nostri padri potevano anche non tornare dal fronte, fermarsi per sempre nei lager tra i reticolati e le camere a gas. Potevano anche non tornare se nessuno dei loro figli ha spento il fuoco dell’odio, rimasto vivo sotto la cenere, come chiuso in una valigia, come parcheggiato in un bagaglio da tenere pronto all’uso al momento opportuno. Con qualsiasi scusa o vile pretesto. O anche senza. L’odio ora, come ottant’anni fa.

    Fu l’odio la chiave di svolta per convincere, anche da noi nel 1940, non dimentichiamolo, le oceaniche folle di Piazzale Venezia, su progetti di singoli, su obiettivi dei pochi che governavano il paese, in nome e per conto del paese. L’odio.

    L’odio è forte e penetrante quanto l’amore, ma costa meno, lo si fornisce gratis, è meno faticoso. L’odio porta facili consensi, trasforma le persone deboli in leoni da tastiera, nasconde i crimini e le truffe di chi detiene il potere, sfruttando la tua fragilità e la tua ignoranza, inventa nemici per coprire i fallimenti e le promesse mancate di chi si è preso il potere a tuo danno. L’odio avvelena i pozzi del sapere per mantenere il buio e nel buio i lupi, lo si sa, si ingrassano e vivono meglio.

    Lo so benissimo che tutti vorremmo fare la vera guerra, ma nemmeno per scherzo si deve squalificare il nostro duro lavoro in modo inopportuno. Dobbiamo fare la guerra con più brio, con una vivacità sostenuta fino ai termini dell’odio. Bisogna odiare il vile nemico.

    Come disse ottant’anni fa in una fredda mattina di marzo un nostro generale col petto gonfio di medaglie, Mario Robotti, a Kocevje (in Dalmazia, nella Jugoslavia da noi allora aggredita e occupata) alle sue truppe dell’XI Corpo d’Armata.

    Anche lì una guerra di occupazione, una guerra di invasione, per ampliare il proprio spazio vitale a danno di altri, ucraini o jugoslavi poco cambiava e nulla oggi cambia. Una guerra decisa da un uomo solo al comando, ma capace di tenere a sé, con facile denaro e utile propaganda, migliaia di mezze cartucce. Oggi li chiamano oligarchi. Ieri funzionari di partito, industriali o federali del fascio.

    Fëdor Dostoevskij, prevedendo il futuro del mondo, un giorno scrisse che «se il demonio non esiste, ma l’ha creato l’uomo, l’ha creato a sua immagine e somiglianza». E guardando all’odio, al tempo della guerra dei nostri padri, si fatica a dire che il grande poeta si sbagliasse.

    L’odio verso gli altri, ma eravamo ottant’anni fa!

    Perché non abbiamo compreso il dolore di quella generazione? La loro lezione di atroce sofferenza e atroce terrore? Perché non abbiamo visto le cicatrici dei nostri padri?

    Domande senza risposta, domande infinite. Braci di legno mai spente, nascoste sotto la cenere.

    Forse, tra le cicatrici e la cenere di ieri, solo un’unica idea ci salverà: un’Europa davvero unita, con una sola bandiera, un solo esercito, una sola politica estera. È arrivato il momento di realizzarla.

    Forse, tra le cicatrici e la cenere di oggi, solo la conoscenza della Storia ci guarirà dall’odio verso gli altri. Braci di legno mai spente, nascoste sotto la cenere. È arrivato il momento di volerlo.

    Sta a noi, alla generazione figlia dei reduci tornati dalla Seconda Guerra Mondiale, decidere se lasciare alla prossima generazione ancora bagagli di cenere, come nostra ultima eredità.

    Perché, perché io sì e gli altri no?

    Perché io sono tornato a casa e non Vincenzo, quello di Palermo, che prima morire coi suoi 24 anni volle spedire il suo orologio alla madre, tramite la Croce Rossa, e chissà se a Collesano questa lo ha mai ricevuto. Oppure Tommaso, di San Giovanni Campano, che prima di finire le sue sofferenze volle che gli amici della sua baracca gli garantissero che almeno uno di loro avrebbe informato la giovane moglie Piacentina del suo amore e che le chiedeva perdono, perdono per il dolore che le avrebbe arrecato. Come se morire da IMI in un lager nazista fosse una colpa personale. O il napoletano Natale, quello ucciso a bastonate il 24 gennaio ’44 in una fabbrica di Müchenberg, perché non riusciva più a lavorare, a produrre, ad arricchire i nazisti. Tutto normale, tutto scontato, tutto previsto.

    A quel tempo, sul finire del ’43 e gli inizi del ’44, gli schiavi di Hitler non valevano nulla, erano vuoti a perdere, utensili usa e getta. I tedeschi li chiamavano Stücke, ossia pezzi, e come pezzi o numeri vennero gestiti e usati. Se avevano un valore era il prezzo con cui le aziende agricole e peggio le fabbriche (le Fabriken) prendevano in noleggio – oggi diremmo col classico rent a man – uno schiavo dai vari lager per 170 marchi fissi una tantum e con durata fino alla sua morte oppure – alternativa preferita dagli imprenditori (i meister, ossia i padroni) – a 6 marchi al giorno. In ogni caso potevi usarli senza limiti di orario, almeno 12 ore, ma anche 18 al giorno per ogni santissimo giorno del mese e come minimo sancito per legge non meno di 72 ore alla settimana.

    Il pagamento a giorni era maggiormente scelto dai meister, perché evitava di ripagare altri 170 marchi quando uno Stück moriva.

    Strano davvero dirlo oggi: 170 marchi era il costo di neanche 30 giorni di lavoro. Evidentemente in certe Fabriken si durava meno.

    Se uno schiavo rendeva al lager quindi 6 marchi al giorno non poteva mancare il controllo ferreo dei costi. Il mantenimento in vita degli schiavi non doveva pesare mai cadauno oltre 0,60 marchi al giorno più lo 0,10 di spese varie di sussistenza. Qui, sotto questa voce contabile, nella contabilità del Terzo Reich, si intendeva il costo dei vestiti, ma questa era solo una spesa teorica che permetteva ai comandanti degli Arb.K.do (campo di lavoro) di lucrare qualcosa per uso e consumo proprio. Crimine su crimine. Si faceva la cresta sulla fame di quei disperati.

    Talvolta, soprattutto nei primi anni di guerra, il costo di vita di uno Stück veniva quantificato in massimo 2 marchi. Poi la guerra prese una piega negativa per la Germania e già con l’arrivo di Herbert Friedrich Wilhelm Backe al ministero dell’Alimentazione (o della fame, come diceva con più poesia il Fuhrer) nel maggio ’42 si tagliò il costo e, non a caso, lo sterminio dei prigionieri tramite il lavoro si velocizzò da allora in poco tempo.

    Nella foto il lager di Benjaminowo, gennaio 1944. Ogni giorno due appelli all’aperto che spesso duravano ore con qualunque tempo. Qui un tipico appello invernale a parecchi gradi sottozero. Si aspettava che arrivassero gli addetti al conteggio. Fino a che tutti non risultavano presenti, si doveva aspettare fuori, in riga.

    Foto del ten. Vittorio Vialli.

    A sopravvivere di più furono essenzialmente gli Stücke che erano impiegati nei campi agricoli, magari del centro-nord della Germania, come a Sandbostel, Neuengamme o Fallingbostel, dove le giornate lavorative duravano meno grazie all’arrivo del tramonto che limitava la luce e dove magari qualche pallida erbaccia, qualche rapa carbonara rubata di nascosto – a rischio di esser uccisi all’istante – si riusciva a mettere in bocca. Gli insetti e i vermi invece erano già estinti anche lì, sin dall’inverno ’40.

    Peggio chi lavorava in fabbrica, nelle fonderie, come a Flossenbürg, Gross Rosen, Buchenwald, o nelle miniere, Khala, Dora, dove non vi erano orari e le necessità di produzione più estreme. Nemmeno l’erbaccia esisteva da anni e forse neanche il suo ricordo. A Mauthausen o Meißen si lavoravano le pietre e talvolta alcuni prigionieri si salvarono dalla fame mangiando pezzi di sasso e di calcare. Impossibile quasi a dirlo, meno ancora a pensarlo.

    Perché io sì e gli altri no?

    Perché io sono tornato a casa e non Alvares, quello di San Prospero dopo Modena, che morì col Crocifisso tra le mani e volle che fossero spedite a casa le foto di sua madre e sua moglie dopo averle baciate un’ultima volta. Oppure il balilla Elio, di appena vent’anni, quando si spense tra le ginocchia di Padre Luca credendo che fossero quelle di sua madre, che a Dorsino lo aspettava. E lo aspetterà per sempre fino a quando si ritroveranno in Cielo di nuovo.

    Chissà perché era finito a 20 anni a Zeithain.

    Non c’erano regole o leggi precise. Dipendeva da quale treno ti avevano fatto salire e dove, per qualche strano motivo,ti facevano scendere, perché il lager era l’inferno ma alcuni inferni erano ancora peggiori. Erano più inferno dell’inferno.

    Gli storici oggi quantificano i lager nazisti in oltre 42mila. Forse ai più sono noti i 6 campi di sterminio della Shoah (in tedesco Vernichtungslager) con Auschwitz-Birkenau da caposcuola agli altri (Chelmno, Treblinka, Majdanek, Belzec, Sobibor). I lager del Terzo Reich furono ben 42mila!

    Ogni lager aveva vicino o al fianco almeno una fabbrica, un’impresa nazista. Se non di più. Le Fabriken vivevano grazie ai prigionieri offerti in noleggio dai lager, i lager restavano economicamente in piedi e le S.S. che li dirigevano si ingrassavano, grazie alle Fabriken e ai loro meister, ai loro padroni. I prigionieri, i deportati erano il cordone ombelicale che univa i due mondi e li rendeva forti e soci nel business.

    Precisamente, furono ben 24 i principali lager di sterminio diretto tramite il lavoro (chiamati Konzentrationslager, abbreviato in KL se gestiti direttamente dalle S.S. o KZ per gli altri meno importanti) con alle loro dipendenze altri 1700 sotto-campi e 9950 siti. Il tutto all’interno di una rete infinita che comprendeva 850 lager militari (Stalag, Oflag, Straflager), oltre a 2mila lager di detenzione per lavori esterni (diretti della Wehrmacht) e soprattutto decine di migliaia e migliaia di Arbeit Kommando (AK) per schiavi da destinare appositamente alle Fabriken esterne.

    Il Terzo Reich basò la sua forza e il suo potere su questo sistema di terrore e morte. Numeri alla mano durante la guerra, dalla fine ’39 al ’45, Hitler usò ben 13 milioni di schiavi stranieri soltanto tra prigionieri di guerra e politici, per sostituire i suoi 17 milioni di tedeschi che il suo regime spedì al fronte. Ben 13 milioni.

    Ma se si partisse dalla primavera 1933, quando divenne operativo il primo lager nazista a Dachau, solo dopo 51 giorni che Hitler prese il potere, il numero totale si attesterebbe in oltre 25 milioni. Tra questi anche 2,3 milioni di tedeschi contrari al nazismo, senza tener conto dei prigionieri razziali, ebrei in particolare.

    Numeri pazzeschi, difficili quasi da quantificare. In quegli anni l’Italia di allora (con l’Istria, la Dalmazia e il Dodecaneso) vantava tutta intera neanche 45 milioni di abitanti.

    Il lager di Dachau merita alcune note storiche, andrebbe di certo studiato a fondo e le analisi portate sui banchi di scuola, perché tutto partì da lì.

    Fu a Dachau che l’uomo smise di essere un animale pensante, aprendo le porte al baratro. Dachau fu l’apripista, la locomotiva sulla cui rotaia tutti gli altri treni sfrecceranno verso l’inferno. Ed è sorprendente sapere che Dachau ebbe il suo battesimo il 22 marzo 1933, solo 51 giorni dopo che Hitler arrivò al governo. Bastarono 51 giorni. Pochissimo, nulla.

    Come fu possibile?

    La risposta la si trova solo nella preparazione che anni precedenti il nazismo aveva creato, sia da parte dei suoi uomini (Himmler e Goebbels in particolare), sia da parte degli altri, sviluppando odio e fanatismo. Mussolini per diventare il Duce impiegò oltre due anni, se consideriamo il suo via dal giorno in cui a Milano nacquero iFasci italiani di combattimento, il 23 marzo 1919. La nascita del Partito Nazionale Fascista avverrà solo qualche mese dopo, il 9 novembre ’19, ma la strada al momento della Marcia su Roma era già tracciata da tempo, fra la violenza sistematica e i soprusi generali.

    E se Hitler ebbe nel fanatismo tedesco il suo alleato migliore, Mussolini poté contare nella cronica indifferenza degli italiani. Del resto, da secoli, il nostro motto era già: «con la Franza o con la Spagna basta che se magna, con la Spagna o con la Franza basta che se riempia la panza».

    Bertolt Brecht ne ricavò, forse studiandoci, la sua citazione migliore: «prima viene lo stomaco, poi la morale».

    Quindi in entrambi i casi, sia nella Germania di Weimar che nell’Italia del post 4 novembre 1918, gli altri, gli uomini comuni, ebbero immense responsabilità e immense colpe.

    Per questo Dachau andrebbe indicato come momento finale, in cui arrivarono al compimento le semine precedenti dei pochi, nel silenzio assoluto generale dei molti, se non tutti. Ed è su questo silenzio assoluto generale che oggi e in futuro noi dobbiamo essere attenti controllori e pignoli vigili, intervenendo prima che si arrivi alle future Dachau. In altre parole: ancora e sempre, è doveroso prevenire i sintomi prima che curarne la malattia dopo.

    Dachau divenne così il benchmark, il riferimento, il modello per tutti i futuri lager. Fossero loro sia campi per sterminare tramite le camere a gas che tramite il lavoro forzato. Dachau fu la scuola delle S.S., del nazismo duro e puro, l’accademia dove si insegnava e si usava il terrore senza alcuna pietà, verso chi non era d’accordo al pensiero unico, gli indesiderabili, gli inutili a vivere.

    Nel lager vennero deportati in 12 anni oltre 200mila persone e, secondo i dati del Museo di Dachau, almeno 41500 vi trovarono la morte. Ed era tutto studiato, preparato, nulla lasciato al caso, sin da quando il deportato veniva indirizzato lungo la strada (la Lagerstrasse), molto faticosa, viatico eloquente verso la porta dell’inferno (il cosiddetto Jourhaus), l’edificio del comando del lager con una torretta di guardia sul tetto, più simbolica che altro. Lo Jourhaus risultava il confine, dopo il suo passaggio non si era più persone, ma solo Stücke, pezzi da usare, consumare, distruggere a puro e unico vantaggio per l’economia del Terzo Reich. Era attraversato in mezzo da un grande arco d’ingresso,

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