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La storia di Qu
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E-book275 pagine4 ore

La storia di Qu

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Qu, abbreviazione di Quintus, quinto di cinque fratelli, è affetto da asma psicosomatica e schiavo del vizio del fumo che aggrava la sua patologia. Le domande sulla sua continua insoddisfazione lo portano lontano dalle proprie certezze spingendolo ad intraprendere un cammino dove personaggi alquanto singolari lo aiuteranno a scoprire ogni volta una parte di sé. Un viaggio allegorico al di là delle montagne, mitiche colonne d’Ercole, che lo costringerà ad allargare i propri orizzonti e schemi mentali per scoprire la verità che portava nel suo sé più profondo. Quale è il confine tra la realtà e ciò che produce l’inconscio? L’incontro con il dottor Mu sarà decisivo per riuscire a smettere di fumare e per ritrovare Arianna, nome dal sapore mitico, l’amore che credeva perduto? Come diceva anche Platone, per ogni essere vivente esiste una e solo un’altra anima compagna, l’anima gemella. Arianna esiste davvero o è il frutto di una mente particolare? Qu, che è anche l’abbreviazione di Quetzalcoatl, il serpente piumato delle leggende mesoamericane, farà di tutto per scoprirlo. La storia di Qu è il primo capitolo di una trilogia: La storia di Qu La filosofia di Qu La rivoluzione di Qu.
LinguaItaliano
Data di uscita5 mag 2021
ISBN9791220800020
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    La storia di Qu - Stelio Zaganelli

    Saint-Exupéry

    ​I

    Recidere

    Quel giorno di novembre, del 1999, era un giorno grigio, le strade erano semi deserte ed era buio, un buio innaturale, esistenziale forse. Un giorno stupido, inutile, così insignificante che tutto quello che d’importante poteva succedere sarebbe passato inosservato. Quel giorno litigai furiosamente con mio padre. Urlavo tutta la mia rabbia dentro quel telefonino. Urlavo con lui, di lui, verso lui tutto il me che non volevo più. Ero in mezzo alla strada e mentre urlavo disperato compresi che tutto il mio mondo da quel giorno non sarebbe stato più lo stesso.

    Litigare con lui era stato, spesso, inevitabile. Non c’era stato molto nella mia vita, troppo preso a costruirsi una carriera di prestigio. La provincia, più che la metropoli, in qualsiasi posto a queste latitudini è come una piovra soffocante, dove essere e apparire sono verbi che per molti assumono valore di dogma.

    Io, che mi sono sempre sentito un po’ male, dentro, questo tipo di esistenza la chiamerei con un altro nome, sopravvivenza. A volte i contenuti, quelli veri, si perdono per strada in nome di qualcosa che, poi, nella realtà, quella vera, perdono di qualsiasi significato.

    Il buddismo la chiamerebbe ignoranza, una colpa ma anche una necessità, un moto dell’essere necessario per poter poi evolvere in qualche momento in qualche vita. Non voglio parlare del contenuto della telefonata, al fine di questo racconto non ha importanza. Certe cose non vanno svelate, certi angusti angoli della memoria andrebbero tenuti nascosti perfino a se stessi, imprigionati per sempre da poter resistere ai pettegolezzi più atroci e alla cattiveria che alberga nel cuore degli uomini. Posso solo dire, e ricordare, che fu scioccante scoprire così tanta rabbia dentro il mio cuore. Era come se in quel momento avessi realizzato in un istante per quanto tempo avessi fatto finta di niente.

    La mia esistenza è simile a quella di molti altri. Siamo nati e sono successe cose, siamo cresciuti e ne sono successe altre. Ma a un certo punto la mia ha subito una sterzata così violenta che mi sarei voluto nascondere sotto a un letto e non uscirne più. Quel giorno il dolore fu lacerante, lo sentivo distintamente nello stomaco e nella testa, come se un pugnale si fosse conficcato nel mio corpo e qualcuno si divertisse a muoverlo con violenza. Avevo tentato di fare il bravo per tutti quegli anni, avevo sempre cercato l’approvazione del mondo, della famiglia e degli amici. Volevo essere sempre ciò che gli altri si aspettavano che fossi, non volevo essere ripreso, deriso. Non volevo, in fondo, che scoprissero la mia vera natura. Mi sentivo diverso ma, ancora, non mi conoscevo veramente. Ci vuole tempo per accettare il rimorso, per gettare la maschera, per riuscire a dormire dopo millenni di insonnia…

    Rancore, rabbia, rimorso e senso di colpa cominciarono a occupare le mie giornate, i miei pensieri, i miei rapporti, tutto. Mancare di rispetto al mio vecchio fu come dire basta a me stesso. Si dice che per diventare uomini sia necessario uccidere metaforicamente il proprio genitore. Io, quel giorno, lo riempii di piombo. Dio solo sa quante pallottole gli scaricai addosso! Litigare con mio padre fu come togliermi una pelle di dosso. Fu come decidere senza volerlo di diventare il padre di me stesso. Non parlai con lui per molto tempo, mi fece male, ma era un passo necessario.

    Avevo studiato, sì che avevo studiato. Era da quando avevo cinque anni che studiavo. Non ero un mostro, ma me la cavavo.

    I miei studi erano terminati con il conseguimento della laurea in Medicina. Fin da piccolo avevo avuto l’intenzione di fare il medico, mio nonno, il padre di mia madre, era medico. Lo adoravo, con quelle sue mani grandi e aggraziate e con quella calma propria di chi ha guardato e parlato con la morte così tante volte da conoscerne i segreti più nascosti.

    In fondo cos’è che ci fa più paura al mondo? Le persone, noi stessi, il volo? La paura ultima, quella più violenta, quella che tutti sottomette e che nessuno risparmia è quella della morte. Questi tempi sono intrisi dalla morte, morte di plastica e petrolio, genocidio ma anche semplice morte fisica, decomposizione, solitudine di fronte alla morte. La morte. Volevo non averne più paura. Avevo sempre pensato che la vera libertà poteva essere rappresentata da una vita senza paura. Desideravo essere un medico, volevo. Avevo paura anche io come tutti, cosa c’è dopo? Cosa c’è prima della vita? Chi sono?

    Non è facile vivere con questi pensieri. Chi fa soldi, chi beve per dimenticare, chi lavora così tanto da scordarsi di sé non ha tempo per queste argomentazioni, ma sfido chiunque a raccontarmi come ha fatto o come farà a saltare l’appuntamento principe della nostra vita. Come fai a vivere sereno, come riesci tu uomo a farti una famiglia, ad avere un conto in banca, a scoparti le tue prostitute di alto bordo? Come fai a coltivare un campo e come riesci a compilare moduli senza chiederti perché? Senza interrogarti su che senso abbia? Non posso mangiare e basta. Mangio perché ne ho bisogno. Ma chi ne ha bisogno? Io o il mio corpo? A volte mi pareva di impazzire!

    Quel giorno di novembre decisi di rivoltarmi contro tutto ciò che ero stato fino ad allora. Un maledetto bravo e bel giovanotto di buona famiglia. La mia strada in fondo era decisa da tempo. Certo era che tutti in famiglia avrebbero voluto che io facessi il notaio, come era successo per i membri maschi del clan da più di cento anni. Ma il solo pensiero di apporre timbri per giustificare ogni cosa mi faceva rabbrividire. Voi direte: Ma guarda un po’ che stronzo! Lui ha tutto, è nato in una famiglia benestante, ha tutto per essere felice ed invece guarda si piange addosso e cerca strade insulse pur di essere originale!

    Si forse avete ragione voi. Forse è solo la ricerca del proprio talento o del proprio percorso. O forse è solo narcisismo. Forse. Fatto sta che presi la decisione di fare medicina. Quel mio nonno medico era per me un faro.

    La cosa che mia madre riuscì a fare fu quella di raccomandarmi ad uno studio di chirurgia plastica di certi amici di famiglia. Ma io mi ripetevo incessantemente: Che cosa me ne faccio di uno studio privato, che me ne faccio di tanta bella gente, di parcelle mozzafiato e di interventi fasulli. Che me ne faccio delle paillettes e dei lustrini della festa dei ricconi, io voglio insozzarmi le mani, voglio sentire l’odore della merda e la saliva rappresa dopo convulsioni da vita vissuta! Voglio solo sapere quanto valgo.

    Pensando che fosse solo un capriccio passeggero «Studiare in una nuova facoltà e diventare notaio sarebbe stato possibile anche più avanti», mi dissero rassegnati e mi infilarono in una fottutissima clinica a cinque stelle.

    Ricordo ancora quanto era bella la mia fidanzata. I suoi capelli castani e i suoi occhi grandi. I capelli lunghi, lisci e lucenti calati sulle spalle. Era bella, piaceva a tutti. Sorrideva sempre, era amabile, buona e altruista.

    Era un inferno.

    Era gelosa, così gelosa da rendermi la vita impossibile! Non potevo guardare nessuna, non potevo parlare con nessuna, mi redarguiva, mi sgridava violentemente per ogni sguardo ricevuto, per ogni sorriso regalatomi da altre. Non cercavo avventure, ma il mio cuore stava diventando una pietra. Non credo sia prerogativa di poche anime perse soffrire per cose apparentemente banali come una fidanzata sbagliata o un lavoro che non ci soddisfa. Ma credo che la differenza sia comunque notevole tra la possibilità di scegliere e l’impossibilità di poterlo fare.

    Allora come un’ossessione continuavo a chiedermi: Perché? Perché non potevo vivere come molti, con una bella fidanzata come Maria Luce, un bel lavoro in un bello studio, senza soffrire troppo, con i miei bei weekend, le settimane bianche e uno stipendio che cresce con la confidenza guadagnata sul campo? Perché non io? I miei amici mi guardavano oramai come un alieno. Quando non hai chiara la natura delle cose e delle persone vai in paranoia. Erano in paranoia e ovviamente pensavano di tutto nei miei confronti. Che fossi diventato strano, troppo strano, che fossi un viziato figlio di papà, che fossi semplicemente impazzito o riconglionito.

    Era quasi quel giorno del 1999. Un po’ Spazio 1999, dove la realtà era stravolta, dove il vagare nello spazio era routine, alla ricerca di un approdo, di un senso a tutto quel mio peregrinare interiore. Già poco prima sentivo che l’impalcatura del mio cuore stava per cedere. Ero allo stremo, ma facevo finta di niente, ero così oppresso da bere molto e fumare, se capitava. Non mi divertivo più, non volevo più: Non mi rompete più i coglioni! Ho resistito fino a che i pensieri più neri cominciarono ad albergare nella mia mente. Dovevo fare qualcosa al più presto o sarebbe stata la fine.

    Non facevo più l’amore con Maria Luce da mesi. Vivevamo in una sorta di apnea sancita dal nostro futuro imminente. Lei era ricca, io pure. Lei era una bella donna, io ero un bel ragazzone di buona famiglia. Che cazzo di bel quadretto davvero! Da metterci la firma seduta stante. Bella moglie, bello studio, belle macchine, bei complimenti. Buongiorno bel direttore, lei è proprio un bel direttore se lo lasci dire.

    Mi vedevo come una sorta di caricatura.

    Immaginavo le mie clienti dalle labbra gonfie di silicone. La mia disperazione era al culmine. Non dormivo più bene. Ero agitato e ogni tanto nella mia mente i pensieri diventavano neri come il petrolio. Quel giorno di novembre ha questo significato ben preciso.

    Passarono mesi difficili. I sensi di colpa per aver offeso il mio vecchio mi pareva si ingigantissero giorno dopo giorno e mi tormentarono per molto tempo. Maria Luce mi diceva di stare tranquillo, succedeva di litigare con i propri genitori, era normale, la cosa giusta da fare era far passare del tempo e poi con calma prendere il 15 metri e andare a fare una bella vacanza a Saint-Tropez e non pensarci più. Quando ci saremmo sposati saremmo stati felici e i nostri figli avrebbero avuto tutto. Io non avrei mai litigato con loro come con mio padre, perché la perfezione non si inventa!

    Ho provato ad andare a mignotte in quel periodo, mi sono infilato nei night. Ho assunto droghe pasticciate e ho avuto la fortuna di non finire tra le braccia di trans vogliosi che facevano colazione nei locali notturni dove terminavo le mie notti insonni. Parlavo con loro per ore. Mi dava sicurezza parlare con persone che, in fondo, potevano comprendere entrambi i punti di vista di un essere umano.

    Mi ricordo ancora una conversazione con Linda, un bellissimo trans che mi invitò a prendere un caffè a casa sua.

    «Tu allora dici che noi trans siamo uomini solo nel fisico con animo da donne?»

    «Sì Linda, io credo che ci sia questa differenza con gli altri uomini, siete donne intrappolate in un corpo da uomini, non c’è niente da fare» le dicevo a mezza voce.

    «Beh, io ti dico che ti sbagli, la cosa che ho capito io, dopo anni di mestiere, è che il fascino che esercitiamo è dovuto alla compresenza di due sessi nello stesso soggetto. Noi siamo la cosa che più si avvicina all’androgino di cui tutte le leggende parlano» mi diceva a tutta bocca. Non riuscivo a cogliere troppo le sfumature di quei discorsi, il suo grosso giocattolo tra le gambe costituiva il deterrente determinante per non farmi scivolare verso il sesso con un androgino.

    Non la vidi più. Un po’ mi dispiacque, tutto sommato parevano due belle persone in un unico soggetto.

    Ma oramai i tempi erano maturi.

    Era aprile, il sole cominciava a scaldare di nuovo le nostre belle facce. Il nuovo millennio era arrivato. Senza pensarci troppo in un giorno di sole andai dal mio capo e gli dissi: «Non sono convinto di tutto questo, resto in questo studio se almeno mi pagate i rimborsi spese. L’accordo fatto con mio padre che diceva che sarei diventato socio dopo tre anni di apprendistato non pagato non è più valido. O mi pagate o me ne vado.»

    Un silenzio di qualche secondo sottolineò l’importanza di ciò che aveva da dirmi quel gran bel direttore. «È stato un piacere vecchio mio, la porta è aperta. In bocca al lupo per tutto.» Furono queste le sole parole che il capo mi disse. Sentivo un ronzio strano, mi girava la testa, come se tutto si rimettesse in moto, come se la vita mi concedesse un’altra possibilità. Ero felice, ma, dentro, terrorizzato. Ero senza un lavoro. Gli strinsi le mani, forse nel profondo gli ero riconoscente, anche se un po’ mi stava sulle palle. La mia presenza era davvero relativa in quello studio, forse in qualsiasi studio del mondo, forse la stessa presenza su questo pianeta era stata un maledetto errore. Mi tremavano le gambe, presi la mia roba, il camice lo lasciai appeso al chiodo della porta di quella clinica che non avevo mai veramente abitato. Mi chiusi la porta alle spalle di quello studio a cinque stelle, le sue mura antiche, il suo giardino ben curato, le sue fontane e le sue signore ricche in carrozzelle dorate.

    Piangevo.

    Piangevo perché da qualche minuto ero tornato a respirare, ma piangevo anche perché sapevo che non sarei mai più tornato indietro. Ma non sapevo bene cosa fare, dove andare, che professione svolgere. Volevo fare ancora il medico? Sognavo ancora di salvare il mondo senza essere capace di salvare me stesso? Sì, perché era da quando ero ragazzino che volevo salvarlo questo mondo, bello e bastardo.

    Passarono tre giorni prima che mi decidessi a parlare. Il mio silenzio era il mio pane e il mio respiro la mia acqua. Sapevo che restava una sola cosa da fare. Dopo tre giorni puzzavo da fare schifo, i miei denti a furia di scordarmi di lavarli erano diventati gialli. Avevo le unghie distrutte a forza di mangiarmele in continuazione e mi facevano male i reni a furia di restare seduto sul divano a fissare il vuoto.

    La rubrica del mio cellulare non era certo lunga. La sim che usavo per lavoro era sul comodino. Quella personale era inserita e oltre ad amici maschi e parenti, l’unica donna che c’era su era Maria Luce. Pensavo davvero a quanta luce mi avesse sottratto. Pensavo a quanto cazzo di luminosità, a quale profondità oscura volevo vivere, perché non ero legato ad un letto, non ero bendato o in prigione o chissà dove immobilizzato da non poter fare niente!

    Beh, dico a voi: non mi vedete? Sono qui, libero eppure il mio cuore è marcio. Nonostante ciò io non so chi sono, cosa cazzo devo fare!

    Ho preso il cellulare, l’ho chiamata.

    «Pronto Maria Luce sono io.»

    «Ciao tesoro mio, tu sei la luce dei miei occhi lo sai?»

    «Sì lo so, ma il bello è che non ci vedo più niente… sul serio mi sembra di essere diventato cieco.»

    «Tesoro ti senti bene? Parlami, sai che posso ascoltarti, su coraggio dimmi tutto.»

    «Mi ami davvero?»

    «Ma che domande, certo che ti amo.»

    «Che vuol dire 'certo che ti amo' perché non sento il telefono vibrare, perché?»

    «Tesoro dai! Sei sotto stress per tuo padre, tanto lo sai che non ci lasceremo mai, tesoro mio.»

    «Mi dispiace, ma io non sono il tesoro di nessuno, io non mi sento più l’anima, io non ti amo… mi dispiace.»

    «Che dici tesoro, sei impazzito, dai vedrai che passa…»

    «È già passato, è finita, io sto morendo. Vieni a casa ti voglio guardare negli occhi mentre te lo dico, voglio smettere di avere paura. Ti aspetto.»

    Chiusi il telefono, sentivo che il tempo si era rimesso in moto. Non sentivo più il morso dell’asma che oramai mi impediva di respirare in modo fluido. Pensavo che se avessi smesso di fumare forse sarebbe passata. Ma non ce la facevo. Avevo sempre pensato che ogni cosa possiede una ragione per esistere e se fumavo c’era sicuramente un perché. Avrei smesso solo quando avessi scoperto perché fumavo. C’è un sacco di gente che smette senza sapere perché. Io preferivo fumare e soffrire di un’asma cronica senza saperlo. Volevo smettere solo quando avessi capito la ragione per la quale fumavo.

    Un po’ contorto, ma per me non faceva una piega.

    Aveva le chiavi, vivevamo insieme da tre anni. L’aspettavo seduto con la testa tra le mani. Ero sul divano della grande sala. La porta si aprì e i suoi tacchi suonavano decisi sul parquet. Avanzò adagio oltre la porta dell’atrio d’ingresso. Quando mi fu davanti si piegò sulle ginocchia mostrandomi il suo bel seno che spuntava provocatorio dal fine maglione di cashmere. Mi prese le mani e le baciò, mi sussurrò parole dolci di conforto. Credo che ai suoi occhi dovessi apparire come un barbone disperato in cerca di un rifugio e lei lo era sicuramente. Il suo istinto materno affiorava amorevolmente dalle sue carezze; il mio aspetto, invece che disgustarla, provocava in lei il classico moto da crocerossina. Le scostai le mani, la guardai negli occhi e le dissi: «Sono un pazzo, sei una donna splendida, siamo belli e puliti, siamo ricchi e onnipotenti. Io non so ancora perché sto facendo questo ma se non lo faccio muoio. Io non credo di amarti, io devo andarmene.»

    «Tu non vai da nessuna parte tesoro, sei ridotto uno straccio, e poi senza di me non ce la farai e lo sai. Io ti amo.»

    Maria Luce mi stringeva le mani dolcemente cercando di farmi capire che era la donna giusta per me. Cercò di portarle verso il suo seno, come promessa imminente.

    La fermai.

    «Parto domani, vado in Occidente e poi andrò in Oriente, semplicemente vado. Devo cercare, devo cercarmi, mi sono perso…»

    «Io non ti permetterò di rovinare tutto! Tu non ti muovi di qui!»

    Il suo tono si faceva più preoccupato, sentiva che non era una crisi passeggera. Cominciava ad avere paura, le sue certezze crollavano.

    Il mio dolore allo stomaco era lancinante e all’improvviso come fossi posseduto da un demone le lanciai contro tutti gli improperi che potevano venirmi in mente. La insultavo chiamandola sgualdrina, le dicevo che mi aveva ucciso, che non avevo più una vita.

    «Io ti odio, non voglio più vederti puttana schifosa, tu e la tua gelosia del cazzo, tu e il tuo controllo, tu e tu! Vaffanculo!»

    Era pietrificata, non muoveva un muscolo, credo fosse scioccata da tanta violenza da parte mia, penso non avesse mai potuto immaginare che dietro la mia faccia bella e sorridente potesse nascondersi un mostro. La odiavo con tutto me stesso e forse comprese al volo che era meglio lasciar perdere. Avevo la faccia rossa come il fuoco, serravo i pugni e, mentre parlavo, sputavo come un ossesso cercando di farmi forza per articolare bene le parole che mi uscivano come vomito trattenuto da mesi. Le feci paura, credo.

    Si alzò, era scossa e piangeva piano.

    Prese in silenzio le sue cose e se ne andò.

    Io rimasi circa due ore a tremare come una foglia e per chiudere definitivamente con tutte quelle stronzate presi il cellulare e lo scagliai per terra. I tanti pezzi nei quali si sbriciolò mi facevano pensare alle mie interiora, squassate, scoordinate, inutilizzabili, salvo accurato intervento in sala operatoria. Pensai che il tempo avrebbe messo le cose a posto e sperai che un giorno lei avrebbe potuto capire.

    ​II

    Debbie'O

    Il giorno successivo ero in partenza per Orlando, Florida. Quel giorno di novembre litigare con mio padre segnò la fine di qualcosa e quel giorno di aprile, nel quale stravolsi definitivamente la mia esistenza significò l’inizio di qualcos’altro. La ricerca di Arianna ebbe inizio…

    Poi non era più aprile ma era oramai la fine di maggio. In aeroporto comprai un diario dalla copertina nera. Volevo cominciare a imprimere gli eventi e i pensieri sulla carta. La mia mente vacillava troppo, non mi dava molta fiducia.

    Andare in America era per me naturale, la sentivo ovunque, era dentro di me, come una sorella. L’America è il nostro esperimento più riuscito, dove tutto è un gioco, molto violento a volte.

    Lì abbiamo sperimentato il valore della pubblicità, della miseria, delle rivoluzioni represse nel sangue, quello vero, davanti alle telecamere. Lì abbiamo cominciato ad amare eroi globali ammazzati sistematicamente in diretta. L’America è la parte più nascosta di noi che vorremmo controllare, ma come un boomerang ci torna addosso violentemente, sempre.

    Cercavo me stesso, cercavo risposte e le cercavo nel luogo che, stranamente, anche se lontano, sentivo più vicino. Per cultura, per maniera di vivere. Ormai tutti viviamo all’americana, coi nostri immancabili barbecue. Ci siamo fatti salvare dall’orrore nazista per poi sottometterci a noi stessi, perché davvero l’America siamo noi. Dunque, in un certo senso tornavo a casa. O almeno così speravo.

    Mi sono venuti a prendere all’aeroporto. Erano gentili, non li vedevo da anni e loro però si ricordavano bene di me. Sono stati coerenti. Gentili e coerenti. Provo affetto per loro, sono comunque parte della mia storia, di questa storia, delle mie infinite storie. Li amo per questo, anche se sento lontananze siderali tra me e loro, nostro malgrado.

    Vennero a prendermi ed era sera. Ero molto provato dagli eventi: il litigio furibondo, definitivo, assurdo con mio padre, la fine della fasulla storia d’amore con Maria Luce. Oltre a tutto questo da poco avevo perduto gli ultimi zii che mi erano rimasti. Erano morti uno a poca distanza dall’altro. Lui si era schiantato contro una macchina con la sua moto e lei aveva scritto così tanto da farsi esplodere le vene talmente forte era l’ispirazione che aveva dentro. Erano delle belle persone, un po’ artisti un po’ no. Molto religiosi, di una religiosità alchemica, pregna di varie idee, di morali e contro morali. Erano spiriti legati alla materia e angeli che volavano verso il sole. Mi avevano insegnato tante cose, l’amore per il bello nelle sue espressioni più differenti, l’amore per la diversità e per la spiritualità. L’amore per l’Oriente, quello che ancora non avevo mai veduto.

    L’anno prima di quel fatidico giorno di novembre ero stato in India con Maria Luce. Non avevo sentito niente, non avevo colto niente, non avevo. Non so se per fare certi viaggi si debba essere soli, non lo so. So solo che contavo i giorni che ci separavano dal nostro ritorno, contavo quanta rabbia riuscivo a portarmi in silenzio a più di diecimila chilometri di distanza. Se quello era

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