Sinsilimins: Romanzo lieve
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Anteprima del libro
Sinsilimins - Giovanna Nieddu
Nieddu
S I N S I L I M I N S
romanzo lieve
Premio Leggimontagna 11ª Edizione - Sezione Narrativa
ISBN 9788896753552
©Copyright 2014 Panda Edizioni
www.pandaedizioni.it
info@pandaedizioni.it
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A mia sorella Angelica
perché ha amato questo libro
prima ancora di leggerlo…
e dopo ha continuato.
Il candore nell’ombra, tremolio di campanelli.
Sinsilimins.
La parola è suono, oscilla, ondeggia nel vento.
Il Paradiso dev’essere vicino.
Föhn
Il vento si è calmato.
Signore, ti ringrazio.
Non ne potevo più, ero al limite.
Mi manda in malora questo vento. Mi penetra nelle ossa. Mi penetra nel cervello. Conosce i meandri del mio spirito e della mia mente: è lui che li scava. Ne prende possesso. Potrebbe portarmi alla pazzia. Non è un caso se lo chiamano il vento dei pazzi. Il vento che scioglie la neve sulle montagne, che fa maturare le messi. Il vento che miete morti. Il vento che ruba l’anima ai giovani. O la svela. Il vento che scuote quelli più tranquilli. Quelli che non hanno mai dato segni di scontentezza, di stranezza.
Di follia. Quelli destinati a una vita normale. Serena.
Felice.
Limpida.
Come acqua di torrente.
Chiara.
Come corona intorno alla luna.
La particola è scesa.
Signore, ti ringrazio.
È un’ora che ti invoco:
« Signore staccati dal mio palato… staccati dal mio palato! »
Staccati dal mio palato.
Attaccati al mio cuore, Signore, mio Dio.
Attaccati al mio cuore, spazza via le nubi e poi spazza via il vento che ha spazzato le nubi, allontana la grandine e la tempesta, calma le acque, ferma la terra che ci trema sotto i piedi pronta a spaccarsi.
A inghiottirci.
Torna in mezzo a noi. Non ci lasciare. Torna in mezzo a noi, se mai ci sei stato…
O forse non te ne sei mai andato?
Dio mio, com’è oscillante la mia fede.
Tremante.
Trema, come campanelli di mughetto.
Oscilla il cuore.
Ondeggia nel vento.
Il vento nei capelli
L’ultima volta che ho sentito il piacere del vento sulla pelle, del vento fra i capelli, è stata la primavera scorsa.
Era l’inizio di marzo. I bucaneve imbiancavano la collina dietro casa, spolverandola di fiocchi come se avesse appena nevicato. Poco più in alto i cespugli di erica tingevano di rosa la terra brulla, dominata dal marrone delle zolle e degli sterpi.
Il sole era pallido, il suo tepore incerto. Le lumache non si erano ancora districate dalla rigida immobilità del loro letargo, stavano annidiate dietro la legnaia, né si vedevano lucertole sui muri. E tuttavia si insinuava, invitante, l’idea della primavera.
Uscimmo. Risalimmo la collina lungo il sentiero che si inerpica dietro la vecchia latteria e poi, come se all’improvviso qualcosa avesse attratto i bambini, come obbedendo ad un richiamo, senza parlare, si lanciarono tutti insieme giù per il pendio, animaletti selvatici che riacquistavano la libertà dopo la costrizione dell’inverno.
Ricordo di avere pensato che né i gemelli né Marta, la più grande dei miei figli, avevano trascorso i mesi passati stando in cattività giacché neve, pioggia o freddo non li avevano fermati e avevano goduto l’inverno con tutti i suoi gelidi doni: andando a sciare, a pattinare o anche semplicemente scivolando lungo quello stesso pendio con gli slittini, senza contare i pomeriggi passati a giocare nel cortile di casa: avevano fatto e disfatto pupazzi di neve, costruito un igloo quasi abitabile, scavato buche e delineato bianchi camminamenti intorno a tutta la casa.
Ricordo di avere sorriso. Rimasi per un istante a guardarli: i gemelli correvano zigzagando, lanciando gridolini; Marta li inseguiva fingendo di non riuscire ad acchiapparli.
Ricordo una sensazione di leggerezza: li vedevo correre e vedevo me stessa mentre godevo di quell’istante e quell’istante si dilatava, si riempiva di pace. Mi sfiorò il pensiero che spesso i figli ci rammentano come sia facile godere delle gioie piccole, le gioie del momento. E in quel momento mi dissi che avrei potuto lanciarmi anch’io.
Aprii le braccia e cominciai a volare.
Fu la corsa a trasformare l’aria in vento: vento sul viso, sulle mani, fra i capelli. Un alito lieve che sospingeva sulla pelle l’odore del prato.
Era l’odore umido della terra che partorisce la prima erba: e l’erba aveva il profumo di un bambino appena nato, non ancora lavato: il profumo della vita che chiede di esserci, che reclama per sé la potenza del sangue e la forza del cielo, la forza del primo respiro. Del primo grido in cui gioia e dolore sono tutt’uno. Inscindibili.
Il racconto del prato era la storia della vita e della morte che si rincorrono, realtà disvelata di accadimenti a venire.
Accadimenti. Eventi. Perché la terra non conosce storie che non siano universali: tutto in essa è totale.
Tremolio
Tenera Marta con i gemelli, leggera nel gioco e insieme attenta, qualche volta protettiva: un po’ farfalla un po’ chioccia, capace di carezze, capace di dire qualche no, dall’alto dei suoi tredici anni: quei no che lei stessa ha ricevuto, non molto tempo fa, e ancora riceve. Ogni tanto ho la sensazione che giochi a fare la mamma in miniatura, poi vedo che si allinea da sorella e avverto che va bene così. Va bene così: non è una questione di età, è una questione di ruoli.
Tenere le sue mani, bianche, le dita sottili, lunghe. Vaporosi i capelli, mi piace affondarvi dentro il viso, sentirne il profumo. Qualche volta ancora me lo permette. Qualche volta no.
Tenero il suo sorriso, completo. Contiene i dubbi, contiene la gioia. Contiene lo stupore improvviso.
Contiene la richiesta di scuse quando mi risponde male, quando scatta l’insofferenza verso la madre, verso il padre, il rifiuto dell’autorità. Quando scatta la conflittualità, inevitabile talvolta, quando emerge con forza l’affermazione di sé, quell’affermazione che non sempre siamo pronti a cogliere, che non coincide con le nostre convinzioni e appare ai nostri occhi di adulti solo per questo inadeguata.
Limpido il suo sorriso, mai ambiguo, anche quando lo sfodera per stemperare lo sguardo impregnato di intolleranza, quando lo sfodera per ricacciare in gola lo sbuffare, traducendolo in smorfia. A volte mi domando se sia giusto che Marta ricacci in gola il suo sbuffare, che lo stemperi con un sorriso: ma la ricerca degli equilibri non è univoca e nemmeno unilaterale, ognuno ci mette del proprio. Poi la sorprendo a farmi gestacci con le mani dietro le spalle, appena giro lo sguardo. E anche questo va bene così. Limpidi i gestacci. Mai ambigui. Va bene così.
Ha tutto il diritto di sbuffare, di godersi lo scontro generazionale nella ricchezza delle sue dinamiche. Di alzare le spalle verso i genitori. Di mandarli a quel paese.
Poi torna. Poi torna ad andare.
Perfetta.
Perfetta negli umori altalenanti, che richiedono il nostro impegno nella fermezza, nelle risposte certe.
Giuste o sbagliate, ma certe, in grado di assicurare almeno un poco di stabilità. Quella che serve a contenere gli argini. A non disperdere il fiume in mille piccoli rigagnoli. Che scorra, con il suo fragore e la sua calma incostante.
Perfetta.
Ha il diritto di essere perfetta così come è, nella piena incoerenza della sua adolescenza fertile, fatta di languori e di grida, di esuberanza, di alzate di capo, di ritorni di fiamma delle coccole più infantili, di futili polemiche, di risate cristalline, di accessi di rabbia, di sensi di colpa, di ansie, di gioie profonde, di sogni ad occhi aperti interminabili, estenuanti, che avvolgono il letto, le mura, i libri di scuola, il lavandino, il piatto, lo specchio, nelle loro atmosfere rarefatte.
Di un sorriso tenero che racconta tutto questo.
Uno sbocciare di denti bianchi, timoroso, aperto, incerto, sicuro, oscillante.
Tremolio di campanelli.
Perfetta.
Di una perfezione che tutto contiene e che solo l’amore