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E-book159 pagine2 ore

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Info su questo ebook

Vita e Morte, le due sorelle signore dell’umanità, hanno accordi ben precisi che regolano i loro rapporti. Uno dei patti fondamentali che hanno stipulato prevede che il conto delle anime torni sempre, da una parte come dall’altra: nessun uomo può avere più tempo, nessun uomo può viverne di meno, tutto deve essere come Vita e Morte hanno stabilito. Un traghettatore di anime, una figura di confine tra i regni delle due sorelle, si occupa di accompagnare quelle anime che sono restie ad abbandonare il regno dei viventi quando è giunto il loro momento. L’ordine delle cose è eterno e immodificabile, ma si può davvero stare così vicino agli umani senza divenire, almeno in parte, uno di loro? Un sovvertimento dell’ordine stabilito potrà mai essere tollerato? Da Venezia a Marsiglia, dalla rivoluzione francese ai nostri giorni, le storie di uomini e immortali si mescolano come frammenti gettati a caso, ma è solo nella loro unione che gli eventi possono assumere senso e signifcato.
LinguaItaliano
Data di uscita7 giu 2021
ISBN9788869632839
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    Anteprima del libro

    Frammenti - Dario Rea

    Dario Rea

    FRAMMENTI

    Elison Publishing

    © 2021 Elison Publishing

    Tutti i diritti sono riservati

    www.elisonpublishing.com

    ISBN 9788869632839

    a Marcella,

    senza di lei non avrei

    mai scritto nulla.

    Incipit

    Pioggia, pioggia. Sono in attesa, in attesa di fare ciò che ho sempre fatto. È il mio lavoro, la mia vocazione.

    Attendo poggiato al muro. L’acqua mi scivola addosso lavando via dal mio corpo la fatica di millenni.

    Il mio lavoro, quello che ho sempre fatto.

    La notte è tarda. Lui arriverà puntuale all’appuntamento che non sa di aver preso, ma che io ho in agenda dalla sua nascita.

    Lo vedo, è lui. Attraversa la strada scapestrato, in maniera disattenta per un incrocio così pericoloso. Forse ha bevuto.

    Una frenata brusca, rumore di pneumatici che rigano l’asfalto e puzza di gomma bruciata. Un tonfo sordo, il corpo disteso sul selciato esala i suoi ultimi respiri.

    Comincia la solita routine post incidente: il rumore delle sirene è sovrastato dalle grida di paura dell’autista. L’uomo impreca e urla per l’orrore di aver ucciso un giovane sconosciuto, ma non solo per quello. È sopratutto per la paura, umana e naturale, delle conseguenze. Problemi con il lavoro, con la polizia, e un risarcimento alla famiglia della vittima troppo alto per il salario da fame che guadagna e i tre figli da mantenere. È proprio per quei tre figli che lavorava ininterrottamente da dodici ore, per loro che ha avuto un colpo di sonno e ucciso un ragazzo.

    L’anima (lo spirito, o forse preferite essenza? Chiamatelo come vi pare) si solleva dal corpo, come dopo una caduta.

    I respiranti si chiedono spesso com’è l’anima, la immaginano come uno spettro, trasparente o in altri fantasiosi modi. Non è così. È esattamente come l’uomo a cui appartiene, nulla di più, nulla di meno. Chissà perché si aspettano sempre dalla morte qualcosa che li degradi. La morte non li logora e non li imbruttisce, a questo ci pensa già la vita.

    Il ragazzo, nel vedere il proprio corpo morto, si agita terrorizzato. Non era pronto, non lo si è quasi mai.

    «Su, è ora di andare.»

    Il mio tono è calmo, rassicurante. Deve esserlo, il passo è difficile.

    Il ragazzo urla e indica il suo corpo.

    «O mio Dio! Ma quello … quello … sono io! Sono morto! Non è possibile, è tremendo!»

    «No, non lo è, o comunque non peggio di quello che hai vissuto fino ad ora.»

    «No, no … non può essere vero. Cristo Santo, non può! Il mio tempo non può essere già finito, non così presto.»

    Cerco le parole giuste. È difficile spiegare a un uomo morto che è morto, soprattutto per l’immaginario che la fine si porta dietro.

    «Non avere paura. Il tempo che verrà dopo questo evento non è tuo, proprio come non lo era quello trascorso prima di venire al mondo. Hai paura perché non sai quello che ti attende e non devi: hai trascorso un’intera vita senza sapere ciò che ti sarebbe accaduto il giorno dopo. I giorni del dolore e dell’inadeguatezza per te sono finiti. Ora puoi riposare.»

    Temo di avergliela resa un po’ troppo difficile, ma è la prassi e devo seguirla. In pochi casi funziona, altre volte devo metterci del mio. Farli riflettere sull’assurdità della vita condendo il tutto con qualche parolone filosofico spesso non basta. I casi più difficili restano quelli in cui bisogna far accettare la morte a chi ha affetti sinceri o passioni brucianti, insomma, qualcosa che riesca a dare significato a tutto. Lì diviene una vera battaglia.

    Questa volta sono fortunato; la madre morta giovane e un padre molto distante che si è oramai del tutto dimenticato del figlio. Solo alcune amanti, qualche semplice compagno di bevute e un’ossessione per i Nirvana. Nulla che lo leghi alla vita, nulla che debba farlo sentire necessitato a restare. Anche Kurt è andato via oramai già da un po’.

    Osserva di nuovo la sua salma, poi scuote il capo per verificare che non stia solo sognando.

    No, nessun sogno. È tutto reale, ragazzo.

    Scoppia in un pianto isterico. Mi avvicino a lui e lo abbraccio. Gli sussurro una storia all’orecchio, la sua. Una storia caotica e contraddittoria, piena di errori, come quella di ognuno di loro, come la mia. C’è stato, però, un momento significativo nella sua vita, ed è quello che gli faccio ricordare.

    Era pomeriggio, un fresco pomeriggio di fine primavera. Lui, lei e un prato in fiore. Le nuvole erano mosse dal vento e disegnavano strane forme che mutavano continuamente su un cielo dal colore blu intenso. Il vento spirava raffreddandogli il corpo che i raggi del sole scaldavano, producendogli una sensazione di torpore. Lei si era arricciata quel ciuffo di capelli ribelli che le cadeva davanti agli occhi e gli aveva sorriso. Avevano fatto l’amore, poi erano rimasti nudi, distesi su quel prato. La ragazza si era stesa sul suo petto e, insieme, erano rimasti ore nella stessa posizione, tra la veglia e il sonno. Lui aveva la sensazione di affondare nell’erba e di essere un tutt’uno con il cielo che lo sovrastava, il profumo dei fiori e il rumore del vento erano una dolce ninna nanna materna. Era un tutt’uno con il resto, nessun confine, nessuna opposizione.

    Il ricordo gli addolcisce lo sguardo. È così che ci si sente dopo il passo, di nuovo parte di tutto, senza barriere né conflitti: solo armonia. Un momento che vale un’intera vita, solo quel momento da un senso a tutto.

    «Ritorni a casa.»

    Gli dico solo questo più ad alta voce e gli porgo la mano accennando un sorriso. Un tempo era diverso, io ero diverso. Era tutto più facile, almeno per me, forse un po’ meno per loro. Diciamo che ero più … duro. Dopo ciò che è accaduto è difficile seguire i vecchi schemi, impossibile non guardarli con altri occhi, con i loro occhi.

    Si fa coraggio e mi dà la mano. Forse l’ha accettato, forse il senso di tutto l’aveva già trovato quel giorno e stava nel bacio morbido di quella giovane, nel sole e nel vento che lo accarezzava.

    «Come troverò la strada una volta che tu non ci sarai?»

    «La troverai in maniera spontanea, proprio come hai trovato quella per venire al mondo.»

    Hanno sempre paura che il difficile sia andarsene. No, il difficile è venirci al mondo, ma soprattutto restarci. Il grosso lo fanno quando vivono, il resto è tutto in discesa.

    Lo accompagno per una ventina di metri. Camminiamo fianco a fianco per un po’, ed è solo giunti in prossimità di un uno stretto vicolo che io mi fermo. Ora dovrà andare da solo, l’ultimo passo appartiene unicamente a loro.

    Muove i suoi primi e solitari passi con titubanza. Proprio quando sta per svoltare l’angolo che lo condurrà fuori da tutto questo, d’improvviso, si volta. Tentennano sempre alla fine.

    «Ma tu chi sei?»

    «Io vi accompagno, faccio in modo che troviate la vostra strada. Se vi fosse concesso uno come me anche in vita forse evitereste di perdervi quando ancora respirate.»

    Sorrido. Lui mi fa cenno con il capo per dirmi che ha capito o, forse, per ringraziarmi. Svolta l’angolo e scompare.

    Il mio lavoro, la mia vocazione. Quello che faccio da sempre e quello che farò per l’eternità intera. Fin quando esisterà l’uomo, fin quando non avrò accompagnato l’ultimo della loro specie.

    Venezia 1793

    Il sole è andato via da molto e la luna ha avvolto la Serenissima con la sua luce chiara, spettrale. Una luna piena, simile a un sole di mezzanotte, illumina Venezia rivelandone le sue antiche viscere costituite da piccole strade nascoste e canali. Ho camminato milioni di volte nelle calli della città, le viuzze si intersecano l’una con l’altra formando un vero e proprio labirinto dove orientarsi diviene quasi impossibile. Eppure, in questa notte che non è notte, muoversi tra gli intricati percorsi della città non è poi così impossibile, in particolare per me che questo luogo l’ho visto pian piano nascere, mattone dopo mattone, edificio dopo edificio.

    Le persone in strada sono poche, colpa di un freddo invernale che, nonostante la primavera alle porte, tarda a lasciare spazio a notti più miti. Alcuni uomini vestiti di nero si muovono con passo felpato negli anfratti più in ombra, alla ricerca di qualche facoltoso malcapitato al quale chiedere gentilmente un’offerta.

    Sotto uno dei portici dei palazzi che fiancheggiano la strada, sento provenire un vagito. Una donna, una senza tetto rannicchiata in un angolo, tiene tra le braccia un neonato intento a succhiarle dalla mammella il latte materno. Al passaggio degli uomini in nero allunga la mano nella speranza di ricevere qualche moneta, poi, riconoscendoli, la ritira. Ha fame, sento il suo stomaco gorgogliare fin da qui. Lei la fame pare non avvertirla, intenta com’è a dedicare tutte le attenzioni alla sua creatura. Guarda il suo fagotto di coperte con un misto di amore e preoccupazione, ben sapendo che, se questo freddo dovesse durare ancora, il bambino non sopravvivrà.

    Proprio quel palazzo, divenuto con il suo portico un riparo di fortuna per la donna con il suo bambino, si prepara ad accogliere una giovane coppia di nobili. La loro gondola di legno scuro attracca nel molo privato posto nella parte posteriore dell’abitazione. Lui fa scendere la ragazza porgendole la mano, lei gli sorride maliziosa. La debole luce che illumina il molo mostra riflesse sull’acqua le loro ombre che si uniscono mentre i due si scambiano un bacio e poi, frementi di passione, entrano in casa. Questa notte una vita potrebbe spegnersi nel medesimo luogo in cui un’altra verrà concepita: l’equilibrio delle cose, il gioco della vita e della morte che si ripete incessante.

    Il mio passo è lento, seguo il corso della laguna camminandole accanto. È seguendo lo scorrere delle acque, un fluire ignaro della tipica fretta dei mortali, che giungo nel quartiere San Fantin. È nel cuore della città, vicino a piazza San Marco, dove al mattino folle di persone di lingua e cultura diversa s’incontrano e si mischiano tra loro.

    Mi basta seguire i gruppi di respiranti agghindati con i loro migliori abiti e i gioielli più preziosi per giungere al teatro, luogo dell’appuntamento di questa sera. Il Gran teatro La Fenice, maestoso ed elegante, con le sue luci permette a me e agli altri spettatori di localizzarlo senza alcuna difficoltà e di avviarci verso l’entrata principale. Se ne avessi il tempo mi soffermerei un po’ di più ad ammirare i particolari di quest’opera umana, ma tempo non ne ho, fino ad oggi non ne ho mai avuto. Il mio compito di accompagnatore, è sempre esistito solo questo, null’altro.

    La folla è tanta, il meglio della borghesia veneziana è accorsa alla prima di questo spettacolo più per far sfoggio del proprio status che per un reale interesse verso l’opera. Si ammassano tutti nello spiazzo di fronte al teatro che diviene anticamera dello spettacolo sociale che si terrà all’interno. Li vedo scambiarsi saluti tra loro: i signori alzano i cappelli e si fanno cenno con il bastone da passeggio, le signore inaugurano il loro commercio di sorrisi un po’ troppo accentuati per essere sinceri. Credo ne avranno per tutta la sera.

    Mentre mi faccio largo tra la calca di umani che ho davanti, mi rendo conto di non conoscere neppure il nome dell’opera che sarà messa in scena a breve. Sono passati i giorni in cui m’interessavo alle arti dei mortali, il tempo ha messo tra me e gli uomini una distanza incolmabile, che mi ha reso, giorno dopo giorno, sempre più estraneo alle loro sciocche questioni e ai loro inutili affanni. La noia è l’unica cosa che riesco a provare nei loro confronti, temo il giorno in cui verrà a mancare anche quella.

    Entro nella grande sala del teatro; alcuni uomini si sono già accomodati sulle poltrone, altri invece s’intrattengono a parlottare tra loro. La platea è già affollatissima e anche i palchi non tardano a riempirsi con le persone che sporgono le loro teste aristocratiche dalle pareti.

    L’uomo di questa sera deve essere uno importante, ma non abbastanza da potersi permettere un palco centrale. Il suo posto è in prima fila, una posizione che vuole rimarcare il prestigio sociale ottenuto fino ad oggi, ma che, a giudicare da come guarda le poltrone sui piani più in alto, lo lascia ancora insoddisfatto. Di questi tempi il denaro determina le sue gerarchie in ogni luogo e i teatri non fanno eccezione.

    È in compagnia

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