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La compagnia dell'Erede - Le porte di Eterna Vol. 3: Le porte di Eterna
La compagnia dell'Erede - Le porte di Eterna Vol. 3: Le porte di Eterna
La compagnia dell'Erede - Le porte di Eterna Vol. 3: Le porte di Eterna
E-book770 pagine10 ore

La compagnia dell'Erede - Le porte di Eterna Vol. 3: Le porte di Eterna

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Info su questo ebook

Scampati ai pericoli del viaggio attraverso Vallàmnis, Mèlas, il nero cacciatore, e Saphina, la Guaritrice, giungono in vista della capitale. Ma mentre convergono alla meta apparente, la Voce che guida i fili dei loro passi rivelerà il proprio scopo unendo i viaggiatori a una terza compagna: Luscinia.

Prigioniera di Alexandra, discendente dei due Tiranni, la fanciulla dell’Altro Mondo dovrà affrontare i rischi di una partita di cui è pedina essenziale e inconsapevole.

Tramite lei, l’Erede sarà liberata e il Gioco di esseri che tessono e disfano da millenni le sorti di mortali e immortali avrà una brusca svolta.

Nulla è un caso.

Spinti da un Volere che tutto trascende, Mèlas, Saphina e Luscinia saranno colpiti nei loro limiti e guidati verso il porto di Syr-inà-mehee, dove li attende una nave marchiata dal fuoco; se riusciranno a raggiungerla, l’Erede – e loro – potranno mettersi in salvo da chi intende eliminarli dalla partita, e distruggere Eterna.
LinguaItaliano
Data di uscita24 apr 2015
ISBN9788898585250
La compagnia dell'Erede - Le porte di Eterna Vol. 3: Le porte di Eterna

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    Anteprima del libro

    La compagnia dell'Erede - Le porte di Eterna Vol. 3 - Chiara Piunno

    Chiara Piunno

    Le porte di Eterna

    -La compagnia dell’Erede-

    Alla solitudine, compagna e nemica

    che spinge sempre lontano.

    All’amore,

    che fa male.

    Sempre.

    Nascerà chi sparirà dal mondo per tre stagioni della vita

    Lo riconoscerai dall’impronta del fuoco

    A lui andrà il cuore di chi regge Eterna

    Amore e disperazione ne guideranno i passi

    Perché incontrarti sarà il suo destino

    Nascerà chi sparirà dal mondo per le tre stagioni della vita

    La riconoscerai dall’impronta del fuoco

    A lei si rivolgeranno le Libere Genti

    Paura e amore ne guideranno i passi

    Perché sarà la Speranza di ciò che è fra cielo e terra

    Il dono dell’uno sarà l’opposto dell’altra ed insieme si annulleranno a vicenda

    Dove egli potrà aprire, ella saprà chiudere

    In suo nome verrà infranto un voto

    In suo nome diverrà sacro un giuramento

    Entrambi corteggeranno la Morte e come in passato una mano li sottrarrà al Nero Velo

    Perdizione e redenzione incarneranno

    E solo l’Assoluto sarà Giudice del loro cuore

    Che batterà immutato per una sola persona affinché Eterna sia salva

    Capitolo 1

    Il giudizio del re

    I lavori di restauro di quell’ala del palazzo erano ultimati. Un banchetto e un sacrificio di colombe al tempio avrebbero propiziato l’evento l’indomani. Dopo tanti anni di abbandono e bruttura, dopo tanta noncuranza e sguardi volutamente sfuggenti, alla fine il Nido del Drago tornava integro, nel pieno fulgore.

    L’astù, vista da chi si approssimava lungo l’ondulata via delle Òssian, non sarebbe più apparsa un bocciolo malformato, non avrebbe ricordato più l’aspetto sgradevole di un pomo perfetto su un lato, marcio dall’altro. Nessuno, passando nell’arioso Atrio dei Re, avrebbe più distolto gli occhi dal nero con cui l’incendio aveva corroso marmi e arredi.

    Otto anni erano trascorsi: il tempo del lutto doveva concludersi. Indugiarvi ancora, soprattutto dopo la prematura scomparsa dell’ultimo dei Dracòntos, sarebbe stato un atto di pura ostentazione: un atto di hybris contro uomini, dei e defunti.

    La stirpe dei re si era estinta.

    Una nuova linea dinastica nasceva, e con essa anche l’astù doveva risorgere, per quanto le ristrettezze economiche non permettessero di celebrarne l’evento in modo consono.

    Passeggiando nella solitudine del cantiere smantellato, Ballion godeva del privilegio di apprezzare con calma i risultati di tanto sperpero.

    Gli odori di calce e polvere non si erano ancora dissipati nelle stanze, riscostruite in modo fedele a quelle distrutte. Un velo farinoso ricopriva i pavimenti, accumulandosi negli angoli. Le mobilia, appena consegnate, esalavano il caldo aroma del legno lavorato. Dalle finestre spalancate il vento arioso delle Òssian entrava e scuoteva i tendaggi, faceva vibrare gli arazzi e i battenti incerati di fresco.

    Ogni particolare era immacolato, perfetto.

    Strappato alle colline, un petalo di cynèdoron volteggiò dentro con grazia e fu deposto sul marmo.

    Il giovane re sorrise.

    Con le mani strette dietro la schiena, lasciò quello scorcio elegante e passeggiò davanti alle porte delle altre stanze.

    Un tempo la famiglia reale viveva in quegli appartamenti.

    Magari sarà di nuovo così…

    Malgrado la sua personale disapprovazione, i nobili ministri del regno stavano complottando per trovargli al più presto una regina. La nuova dinastia della Salamandra non aveva Eredi, quindi ogni occasione era propizia quando si trattava di invitare fanciulle di sangue reale tra le mura dell’astù. Suo padre, generale dell’esercito, lo aveva plasmato dalla culla per renderlo un degno successore del ruolo che occupava la Casata a Xènia; di conseguenza, persino la scelta della futura moglie era caduta su una famiglia adeguata.

    Ma Ballion aveva superato ogni più rosea previsione diventando re. Di conseguenza gli sforzi del capofamiglia si erano rivelati inutili: al nuovo status, ora, occorreva una promessa sposa di rango elevato, e le difficoltà di spiegarlo ai nobili parenti della ex prescelta senza scatenare una faida non erano di poco conto.

    Rilassato dal sopralluogo, libero dai formalismi di scorte armate e codazzi di aristoi, il giovane sovrano lasciò che il Calisènos scompigliasse come preferiva le pieghe della sua veste corallo. Respirava a fondo a ogni spiraglio di cielo che s’intravedeva dalle imposte spalancate, sorridendo poi tra sé delle precauzioni passate e future.

    Tutto scorre meditò.

    Appagato dal silenzio e dallo splendido risultato dei lavori conclusi, il re decise di varcare una di quelle porte e toccare per primo i pavimenti inviolati.

    Forse fu il caso, o magari un qualcosa rimasto sepolto molto in profondità dentro di lui, a guidarlo. Ballion scelse la camera alla sua sinistra e troppo tardi si avvide che – forse – avrebbe fatto meglio a non entravi.

    Un turbamento improvviso gli strappò il sorriso sereno dal volto non appena varcò l’uscio. Con amarezza, la perfezione degli affreschi – fatti di scene di mari tempestosi e navi snelle dalle vele rosse – rievocò in lui tanti ricordi. Mancavano gli odori: quello caldo della vita della persona che, un tempo, aveva abitato quel luogo prima che ardesse assieme a tutto il resto. Mancavano le voci e il latrare dei cani onnipresenti, i resti stropicciati degli oggetti gettati alla rinfusa dove i servi non arrivavano.

    La ricostruzione era minuziosa: Ballion non poté che sentirsi ammirato dalla perizia degli umili artigiani che avevano ricreato quell’illusione.

    Le mancava la vita.

    Rosso ruggine e mogano dominavano l’ambiente.

    Il letto, troppo grande per chi vi abitava un tempo, stava al centro, su un podio di legno intarsiato; le colonne intagliate, infisse nelle sette estremità, d’inverno erano unite con pannelli di vimini e stoffa per riparare il dormiente dalle correnti fredde.

    Su tre lati della base, altrettanti enormi scrigni di cedro e avorio narravano le gesta di Antàr e Haràc; le cerniere d’oro difettavano di un particolare: la pesante ammaccatura causata dai giochi troppo irruenti.

    Gli arazzi alle pareti di Calione erano gli stessi, ma senza la muffa sottostante e gli scarabocchi fatti con il carbone sottratto al minuscolo camino, nascosto dalla cappa bassa.

    Lo scrittoio per gli studi era sempre di fronte, lungo la parete opposta…

    Mancavano le spade di legno per gli allenamenti, il disordine, i cimeli delle scorribande fuori dell’astù che il principe nascondeva nei luoghi più imbarazzanti della stanza da notte, e che proibiva ai servi di gettare via, anche quando si trattava del cadavere essiccato di una lucertola, il guscio d’uovo di una capinera, un fiore coperto di parassiti, un vecchio dente di drago…

    Il re scrollò il capo.

    Tutto scorre… mormorò.

    Era passato… da tanto tempo.

    Sorrise, ma senza lo slancio spontaneo di prima.

    I sentimenti contrastanti che la stanza dell’ultimo principe del Drago – l’ultimo Erede dei Dracòntos – risvegliavano in lui lo bloccavano. Ballion li mise in un angolo.

    Troppe volte si era intrufolato lì, invitato o meno, da solo o spalleggiato da una schiera di ragazzini in giochi improvvisati.

    Il re uscì in fretta, ma volse le spalle alle immagini dei ricordi con cautela. Sullo strato antico di malinconia si erano depositati sedimenti più duri e resistenti.

    Non gradendo simili pensieri, chiuse la porta, meditando di far sigillare la camera fino a quando non ne avesse deciso il nuovo utilizzo. Proseguì la perlustrazione dell’ala privata della defunta famiglia reale di Xènia.

    Ammirò, così, la spartana bellezza degli appartamenti di re Mixòmbrotos. Il rosso e il nero seppia dominavano nicchie, pareti e pavimenti, ma bastava aprire la porta comunicante ed ecco il talamo nuziale che la regina Neeri aveva commissionato agli intarsiatori di Lùniun affinché riproducesse quello donato alla basileia Turàn di Aishantar, un secolo prima.

    Il caldo color ocra dei cedri di Lùniun risaltava nei marmi policromi in un ambiente, altrimenti spoglio.

    Ballion rimase sull’uscio, la mano poggiata allo stipite: stava a lui decidere se riprendere la tradizione e sposare la principessa di una delle libere città-stato dei Rasnai, oppure no. Da sempre la bella regione dei laghi era – per Xènia – un lautnetera: una nazione vassalla, indipendente, ma fedele. Ora che i Dracòntos non esistevano più, però, forse conveniva ribadire quel legame. Rassicurare piuttosto che sconvolgere. Il solo fatto che prima di lui re Nükteus avesse rifiutato il matrimonio, era stato un motivo di rottura sufficiente; e, del resto, già re Mixòmbrotos non aveva forse offeso abbastanza i superbi Rasnai, promettendo il primogenito maschio alla futura regina di Vallaurea?

    A impedire al giovane sovrano di addentrarsi in altre reminescenze, bastò la voce ansiosa del piccolo Anghèllon.

    Certo, definirlo ancora piccolo è un eufemismo, pensava Ballion mentre il fratellastro – un ragazzo massiccio dalla stazza di un mobile d’ebano – avanzava a grandi falcate per raggiungerlo. Neppure la penombra ne nascondeva la mole ancora in crescita. La seconda moglie di suo padre aveva dato al fiero Generale di Xènia un altro maschio, robusto e forte, sebbene – a quattordici anni – fosse cresciuto più in misura che in intelletto.

    Ballion l’aveva sempre considerato con benevolenza, se non con affetto a volte, per quel suo carattere mansueto, volenteroso, che lo portava a sottomettersi con cieca fiducia a tutte le decisioni del loro genitore comune.

    Troppa superbia viene punita dagli dei mormoravano le voci nelle belle aule della reggia, all’insaputa – secondo loro – del re e della sua famiglia.

    Da quando l’incoronazione aveva reso il posto di Erede della Salamandra vacante, il patriarca della Casata si era adoperato a forgiare Anghèllon per il ruolo di futuro Generale di Xènia. Una decisione iniqua secondo tutte le altre nobili famiglie dell’astù.

    Ballion sospirò: presto avrebbe messo a conoscenza anche i suoi parenti e la corte della recente decisione. Una nuova Casata avrebbe sostituito la Salamandra nel ruolo di guida dell’esercito delle Òssian; una volta venuto meno suo padre dall’incarico, ovvio.

    Il Generale sarebbe andato su tutte le furie, ma la decisione del re veniva prima dell’onore della Casata.

    Rammenta la fine di re Mixòmbrotos, rammenta la fine del Drago. Chi viola le tradizioni e cerca di opporsi al volere divino non viene ricompensato!

    L’anziano sacerdote del tempio reale lo aveva imbottito con simili ammonizioni dal primo istante, ma Ballion possedeva l’animo del soldato. Si era limitato a scartare i fronzoli profetici per dedurne il consiglio pratico: se il nuovo re avesse tentato di monopolizzare le cariche più ambite per la sua Casata si sarebbe creato molti più nemici di quanti ne avesse già.

    Il testamento del sovrano assassinato non a tutti era parso autentico.

    Ma se all’epoca della tragedia molti nobili – fedeli – non si erano posti domande, non significava che avrebbero accettato la nomina di un altro Generale del sangue della Salamandra in silenzio.

    La tradizione affidava al Casato più forte dopo quello del re la guida militare: Ballion, Signore delle Òssian, non se ne sarebbe discostato.

    Fratello… mio re!

    Anghèllon sopraggiunse, trafelato. Era proprio goffo nella tunica da Erede.

    Siete atteso per le udienze della gente! riferì.

    In quel momento, la piccola campana della Postierla, rintoccava nel soffio bizzoso del Calisènos, che ora ne disperdeva il suono, ora lo rendeva nitido.

    Con un moto di disappunto, Ballion batté la fronte con il palmo aperto: se n’era dimenticato! Non riusciva ancora a tenere a mente ogni suo dovere. Con gesti pratici, nervosi, aggiustò la veste, non proprio adatta all’occasione. Non c’era tempo per cambiarsi.

    Dovrà andare bene.

    Pensò all’umile praticità con cui Nüktèus aveva sempre accolto i suoi sudditi. In passato, solo in occasione del grande torneo il popolo poteva accedere a palazzo. Nüktèus, il Re Triste, aveva cambiato tutto, spostando il luogo del Giudizio del Re dal tempietto fuori le mura alla sala del trono, dove i questuanti erano accolti con benevolenza e con ciotole di cibo leggero – olive secche, pane bianco cosparso d’olio pregiato e formaggio – e crateri colmi d’acqua fresca. Ma non tutti potevano essere ricevuti: un apposito ministro esaminava i tipi di richiesta e il richiedente, onde evitare che l’astù fosse aperta a criminali, squilibrati o accattoni, precludendo la possibilità di parlare a coloro che necessitavano davvero della parola del re. Grazie, anche a tale usanza la gente delle Òssian aveva soprannominato l’ultimo re dei Dracòntos, il Re Buono, e il Nido del Drago, la casa del Pane e della Olive che, nelle leggende, equivaleva all’anticamera del luogo in cui regnavano gli Antenati: una pòlis dove la fame e la sete erano estinte per sempre.

    Il popolo aveva amato Nükteus E Ballion era deciso a non essere da meno.

    Fammi strada, fratello!

    Afferrò Anghèllon per il gomito e lo trascinò con sé, correndo verso l’atrio come quando erano bambini.

    =

    Le porte di bronzo erano state chiuse dietro i trentacinque sudditi ammessi al suo cospetto. Aleggiava una certa tensione nella grande sala a croce; non era insolita: la gente che aveva chiesto di essere ricevuta provava soggezione in quel luogo forzatamente accogliente, dove i soffitti altissimi rimandavano l’eco dei loro respiri e, tra le colonne, decine di Guardie Onorate spiavano, mute, qualsiasi movimento.

    Ballion si assestò sullo scranno.

    Anche lui era teso; era la prima volta che viveva quell’esperienza da re.

    Conosceva bene il protocollo.

    Sforzandosi di non sistemare l’ennesima piega del panneggio che gli cadeva tra le cosce, con un cenno fece capire all’araldo di iniziare. Aveva i muscoli rigidi come prima di uno scontro armato e sudava freddo per la tensione: doveva essere all’altezza, ma sapeva che saggezza, equità e buon senso sono virtù troppo elevate per pretendere di averle tutte. Poteva solo sperare di arrangiarsi con l’ultima: l’unica che possedeva. Quanto alla seconda, non aveva abbastanza erudizione per comprenderla appieno, mentre la prima forse sarebbe giunta in suo possesso con gli anni.

    L’araldo chiamò.

    Eucalòs dell’estrema città orientale di Potamòphis giunge qui, a Dracòlitos, per implorare il giudizio del re!

    Un pastore uscì dalla piccola folla per andarsi a inginocchiare ai piedi del podio che lo separava dal trono. Il lezzo forte, acidulo, d’ovino, sembrava non volersi separare da lui nonostante apparisse lavato per l'occasione. Ballion finse di non notarlo.

    La mia modesta famiglia soffre un gran torto, o re disse l’uomo, mordendo le parole.

    Era la formula di rito. Il giovane sovrano, protetto dalla maschera di severità e autorevolezza che aveva provato nella solitudine della sua stanza, tratteneva il respiro.

    Ci siamo.

    Ti ascolto disse.

    Si trattava dell’ennesima contesa per una sorgente al confine di due pascoli, aggravata dalla disgrazia dell’alluvione di quell’inverno, che aveva danneggiato il gregge dello sfortunato Eucalòs. Il suo caso fu raccontato alla maniera della gente umile: il prologo doveva essere stato imparato a memoria; il resto fu un’accozzaglia incoerente di fatti, supposizioni, deviazioni e aggiunte superflue che degeneravano nella pura chiacchiera di paese. Fu arduo per Ballion capire, tradurre i suoni della calata, dare giusta definizione alle parole da lui sconosciute e interpretare nel modo corretto i concetti espressi attraverso modi di dire sibillini e proverbi.

    Quando fu certo di aver afferrato la richiesta, si sentì come dopo aver risolto un problema di tattica militare. Per poco non tradì un sospiro liberatorio.

    Puntato dagli occhi febbrili del pastore e di tutti i presenti – curiosi forse di scoprire se sarebbe stato all’altezza del vecchio re – Ballion si concentrò sulla risposta da dare.

    Tu affermi che la sorgente è l‘unica risorsa d’acqua per il tuo vicino, mentre tu ricorrevi sovente al fiume, che però è esondato, distruggendo gran parte dei pascoli e delle greggi.

    L’uomo annuì, scuotendosi nell’abito ruvido.

    Eicalèi, mio re! La valle adesso è un pantano e la fonte – che metà è mia – rimane la sola salvezza delle pecore scampate. Invece quello indicò un interlocutore assente per dare enfasi all’affermazione, dice che, se la uso anche io, quella si prosciuga e d’estate il Calisènos ce le ammazza tutte di sete! Ma così mi crepano prima della fienaggione!

    In questo caso, vendile.

    L’affermazione del giovane re rimbalzò nella sala e nell’espressione annichilita del pastore: sembrava lo avessero tramortito.

    Il tuo terreno non ha acqua a sufficienza; quello del vicino, la possiede solo per le sue poche greggi. Se costringo te e lui a condividere una sorgente che si secca con il sole estivo perderete i vostri beni entrambi. Se ordino al tuo vicino di cederti la precedenza, moriranno le sue pecore e, tra un mhète, ci sarà lui qui a chiedere aiuto. L’unica soluzione è che tu venda i capi dove possano farti il prezzo migliore. Con quello che guadagnerai, acquisterai un altro pascolo, oppure bonificherai il greto del fiume; o, ancora, attenderai una stagione più propizia per ricominciare, magari scavando un pozzo. La logica non mi suggerisce altra soluzione. Se gli dei ne hanno una in serbo, la mostreranno al momento opportuno. Fai come dico, vendile.

    L’araldo batte tre volte le mani.

    Il re ha parlato!

    Ancora stordito dal colpo, Eucalòs il pastore venne accompagnato fuori da una Guardia Onorata.

    Con i palmi sudati, Ballion intanto tormentava i bracci di legno scuro del seggio, portando spesso lo sguardo ai crateri colmi d’acqua fresca a disposizione dei questuanti, ma non del re.

    Ora che aveva parlato, quell’idea che gli era sembrata tanto logica e inoppugnabile, lo lasciava pieno di dubbi e ripensamenti. Era bastato guardare il colorito del pastore che diventava terreo man mano che ascoltava e capiva.

    Che aveva fatto?

    La decisione che si era arrogato di prendere per lui era giusta?

    Aveva gito bene o si era dimostrato per quello che era: un bamboccio che non capiva nulla della vita e delle regole al di fuori delle mura dell’astù?

    Se avesse lasciato margini di dubbio, prima o dopo uno dei due contendenti sarebbe stato ritrovato sgozzato, mani e piedi legati, fra le macchie più acuminate di cynèdoron; ne sarebbe seguita una faida di intere generazioni, che avrebbe comunque posto fine alle greggi e alla loro ricchezza.

    Più sicuro di sé, segnalò all’araldo di far avanzare il successivo.

    Sarò degno di re Nüctèus! si galvanizzò, mentre erano due donne a crollare in ginocchio ai suoi piedi. Apparivano più tese di chi le aveva precedute e, in parte, spaventate dall’esito della prima richiesta.

    Eufrasia e Persefone di Draconlitòs, giungono qui a implorare il giudizio del re!

    In realtà sembravano ansiose di andarsene.

    Ballion invocò la dea Pazienza e ascoltò la loro storia. Averne ancora trentaquattro da sentire lo lasciava sgomento.

    Il secondo fu un caso facile; nato da una lite per un'eredità contesa, venne risolto applicando semplicemente l’antica regola della primogenitura. Dato che Eufrasia e Persefone erano gemelle, il pascolo dell’anziano genitore con tutte le greggi andavano alla prima uscita dal grembo materno che, tuttavia, venne costretta a venderne un quarto per compensare la dote della sorella.

    Le richieste degli altri questuanti riempirono l’intera mattina e il pomeriggio. Ballion non si concesse neppure un vero pranzo; mangiò quello che aveva offerto ai suoi ospiti e fece solo una pausa per i bisogni più urgenti.

    Dopo tutte le ore passate a valutare, cominciava ad avvertire una certa insensibilità a quanto lo circondava. La stanchezza per lo sforzo fisico e mentale prolungato lo rendeva meno recettivo agli umori della gente: se all’inizio spiava le reazioni di chi subiva il suo verdetto, ormai aveva interesse solo a finire, ma non trascurando il lavoro.

    Si concentrava solo sui fatti, e in base a quelli parlava.

    La luce del sole tendeva all’arancio del tramonto quando fu annunciato l'ultimo questuante.

    Ballion mascherò un sospiro di sollievo e si assestò sullo scranno, cercando di attenuare i dolori che l’immobilità forzata aveva generato anche in punti che non immaginava potessero far male.

    Non fece neppure caso al nome, che gli sembrò trascurabile.

    Ti ascolto disse, rivolto all’individuo più cencioso su cui avesse mai posato gli occhi.

    La sua miseria partiva dai lunghi capelli ricci aggrovigliati – giallo sudicio – fino al corpo tozzo, basso, avvolto di bende e stracci rimediati.

    Fu la massa di pidocchi e capelli a chinarsi in luogo della testa, sommersa.

    Ballion si chiese se il ministro, permettendogli l’accesso, avesse voluto fargli uno scherzo di cattivo gusto, oppure mettere alla prova il suo autocontrollo.

    Quale che fosse il caso, lui sarebbe stato all’altezza.

    Avanti! lo incalzò, posando il mento sulla mano.

    Lo sconosciuto era in ginocchio, a capo chino.

    Chiedo Giustizia, o re! gracchiò con voce profonda. Un efferato assassino, macchiatosi di colpe indicibili, vaga ancora a piede libero sul suolo di Eterna!

    Quello non era il linguaggio di un umile membro del popolo.

    Datemi Giustizia voi, o dovrò trascinarmi fino ad Àrista per implorare l’Imperatrice Mezzosangue!

    La premessa e il tono spiazzarono Ballion, che si risentì, inquieto.

    Un assassino, dici? E chi avrebbe ucciso?

    L’uomo sollevò il volto: aveva occhi dalle iridi dorate, appena percepibili sotto la mole delle sopracciglia. Non era uno sguardo innocuo, nemmeno sotto quel vello di sporcizia.

    Il re ne fu turbato.

    Ha ucciso il re di Xènia, mio signore rivelò lo sconosciuto. il Re Buono, ultimo dei Dracòntos: io so chi è e chiedo Giustizia!

    Un fremito d’orrore percorse la sala.

    Ballion, irrigidito sullo scranno, faticò a mantenere il controllo di sé.

    Era vero? O si trattava del parto di una mente folle?

    A dispetto della brama con cui desiderava credergli, dando così sollievo a un mistero che lo tormentava da troppe notti, una vocina lo mise in guardia.

    Se è in mio potere, l’avrai. Dunque inquisì, impassibile perché mai ti presenti ora alle mie porte? Le ceneri del nobile Nükteus sono fredde da quattro mhètes: il tuo senso di Giustizia travalica le mie capacità di comprensione.

    Qualcuno tra gli astanti ridacchiò, nascosto nella folla oltre il colonnato, ma venne subito costretto al silenzio dalla replica del questuante, che non sembrava volersi perdere d’animo.

    Fino a tre giorni fa ero schiavo, mio re, e la legge mi vietava di lasciare il luogo a cui il mio padrone mi aveva destinato.

    Ballion sollevò il volto dalla mano. Strinse gli occhi per mettere meglio a fuoco chi aveva di fronte. Quell’uomo non era chi diceva di essere.

    Qual era il tuo compito, ex schiavo?

    Sorvegliavo il porcile del mio padrone, fuori dell’agorà, vicino al torrente.

    Il ragazzo-re studiò l’uomo dagli occhi d’oro.

    Mentiva? Non riusciva a valutarlo, sebbene fosse probabile. In quel caso, però, non sarebbe giunto al suo cospetto. Il ministro Ghephurà era anziano, sospettoso e ligio: non avrebbe mai concesso udienza a un millantatore. O sì? Magari per metterlo in crisi?

    Doveva fidarsi del suo giudizio?

    Con la testa pesante e mille domande che ronzavano nei suoi pensieri, Ballion non poteva scoprirlo.

    Le iridi anomale, la voce, il modo di parlare… ciascun particolare si sommava all’altro rendendo lo sconosciuto non solo sgradito, ma minaccioso.

    Quell’uomo non temeva il re e faceva appello a lui per attingere al suo potere e usarlo per uno scopo. Ballion avvertì tutto questo d’istinto.

    Da uomo libero, allora, dimmi il nome dell’assassino e tutto ciò che sai ordinò il re.

    Voleva finirla con quella farsa: che parlasse, svergognandosi da solo se era un bugiardo.

    L’intera sala del trono si protese verso quella verità offerta in modo tanto inaspettato.

    Celato oltre la coltre ricciuta dei capelli e dalla loro ombra portata, il misterioso questuante contrasse i lineamenti rozzi in un sorriso. Era l’ultimo atto di una scena ben ordita, e il primo di un nuovo dramma.

    La voce raschiante di Acéjolon scandì il nome senza incertezze.

    L’assassino del Re Buono è Mèlas Mixòmbrotos Dracòntos, principe del Drago.

    Mai scandalo, orrore e raccapriccio si fusero così indistintamente a un’unica immagine che – da otto lunghi anni – molti a Xènia consideravano alla stregua dei demoni che popolavano le saghe antiche.

    Ciascuno dei presenti sembrò faticare ad accettare quelle parole funeste.

    Chi più a lungo rimase incapace di ritrovare la propria voce, fu proprio lui, il giovane uomo di appena venti estati.

    Il suo volto rigido non mostrò altro che muta stanchezza; ma, a un esame più attento, l’incarnato risultava troppo pallido e le gocce di sudore sulla fronte troppo fitte per derivare dal caldo.

    Il cencioso questuante sollevò il capo con un ghigno inumano sul volto.

    Egli vive, e cerca vendetta sibilò, sommamente divertito.

    Ballion non disse niente.

    Non diede il suo giudizio.

    Non parlò.

    Non fissò altri che l’uomo dalle iridi d’oro finché, sorprendendo tutti, quest’ultimo si alzò dal marmo dov’era prostrato, e indietreggiò fino alla porta grande; dove uscì.

    Le Guardie Onorate non gli sbarrarono la strada: restarono immobili.

    Tutti erano immobili. Grigi e congelati.

    Fu il re-ragazzo a opporsi all’incanto che era sceso sulla sala del trono: lasciò il suo posto, di scatto; scese dal podio saltando gli ultimi gradini, corse lungo la navata, superò la corte e varcò di slancio la porta da cui l’uomo dagli occhi d’oro era fuggito.

    Ma fuori il grande colonnato era vuoto come la coppa per un assetato e dell’essere malevolo non v’era traccia.

    Ballion sentì un panico incontrollato montargli dentro, mentre perquisiva la prima fila di colonne, ansimando come avesse corso per ore.

    Con un gemito di rabbia frustrata, il re si volse e chiamò le Guardie Onorate.

    Trovatelo! Voglio quell’uomo al mio cospetto!

    Le sue grida ruppero la paralisi in cui gli abitanti del palazzo sembravano invischiati. Fulminei, i soldati dell’astù proruppero dalla porta di bronzo della sala del trono e dilagarono per l’intero perimetro della rocca del basilèus. Non un solo cubicolo del Nido del Drago fu risparmiato.

    Cercarono ovunque, per ore, fino al Crepuscolo delle Stelle, ma – come dopo l’assassinio del buon Nücteus – tornarono umiliati e a mani vuote.

    La notte calò più cupa sul Nido del Drago.

    La notizia di quanto accaduto si era sparsa velocissima e ormai, dentro e fuori le mura, ogni suddito di Dracòlitos sapeva che uno spirito infernale, travestito da guardiano di porci, era stato mandato dal vecchio Re Buono a conferire con il ragazzo per svelargli il nome del mostro che lo aveva trucidato nel suo stesso letto.

    Le anime chiedono Giustizia al basilèus si mormorava nei corridoi, sotto le mura, nelle strade, dentro le capanne umili dei pastori.

    Chiuso nello studio in cui tutto era cominciato, persino Ballion iniziava a crederlo.

    Il rosso dei bracieri proiettava ombre scure sulle pareti affrescate. I volti estinti dei sessanta e più re di Xènia, velati di luce macchiata, galleggiavano nell’oscurità, testimoni di eventi passati e giudici di quelli futuri.

    Da ore, il primo sovrano della Casata della Salamandra li fissava, allucinato come può esserlo chi senta insorgere dentro di sé voci contrastanti e ugualmente forti.

    Era una sensazione di fastidio che pulsava all’altezza della nuca.

    Ballion la conosceva bene.

    Alle spalle, il Generale – suo padre – riferiva gli sforzi vani degli uomini sguinzagliati per le Òssian. L’ex padrone di questo Acèjolòn era stato trovato morto, arso nel rogo della porcilaia e nei dintorni nessuno sembrava conoscerlo.

    Ritengo si sia allontanato in fretta, verso il mare diceva.

    Troppo in fretta replicava Ballion dentro di sé. È ancora qui.

    Forse stava impazzendo, ma contro ogni logica sentiva quei dannati occhi d’oro su di sé. Per questo non osava voltarsi e stringeva forte le mani sudate l’una contro l’altra, dietro la schiena. Era convinto che se si fosse voltato li avrebbe visti scintillare nella penombra.

    Mosse dalla danza del fuoco, le teste antiche dei re sembravano annuire, dandogliene conferma. Il giovane respirò a fondo per schiarirsi la mente.

    Quindi nessuno ricorda di averlo visto entrare nell’astù concluse, sentendo la propria voce forzatamente calma, irriconoscibile.

    Il ministro Ghephurà, che esplodeva in secchi colpi di tosse quand’era inquieto, si agitò alle sue spalle.

    Come vi ho già spiegato, basilèus, non ho mai ricevuto quell’uomo, né ho permesso che accedesse a corte. Perdonate l’ardire, ma ritengo che abbia eluso la sorveglianza, come già prevedevo sarebbe accaduto, prima o poi.

    Osate dire che le misure di sicurezza da me approvate siano inefficaci?! esplose il Generale.

    Iniziò un alterco vivace.

    Ballion se l’aspettava.

    Li lasciò fare, e così li escluse dai suoi pensieri troppo caotici. Udì appena il suono di qualcuno che bussava e il cigolio della porta, che si aprì senza il suo consenso.

    La figura asciutta, immota di Parthènos Ofis, della Casata della Serpe, scivolò dentro.

    Ballion lo aspettava da ore, ma di norma precedeva gli eventi e le notizie nefaste come un grifone sul campo dove sta per scatenarsi una carneficina.

    Il re lasciò gli spettri alle pareti, seguito dall’intensa sensazione di quegli occhi e dal pulsare sordo alla testa; accolse Pathènos.

    Bastò uno sguardo per capire che c’erano questioni gravi da affrontare senza la presenza di terzi.

    Signori!

    Ballion alzò la voce per sovrastare l’alterco.

    Vogliate lasciarci soli un istante.

    Il ministro fu lieto di andarsene: la Stanza di Sangue – come veniva chiamato il luogo dell'omicidio di Nücteus – generava una sorta di terrore ancestrale. In tutti, tranne che nel re.

    Ma il Generale sembrava considerarsi al di sopra dell’ordine e della paura.

    Figliolo...

    Ballion non aveva la pazienza, né la volontà di starlo a sentire.

    Padre, è necessario che usciate.

    Cercò di dare un tono cortese, ma non bastò.

    Ballion ebbe un moto d’apprensione nel vedere l'anziano Generale obbedire, tramortito.

    Una preoccupazione alla volta si disse, facendo appello al buonsenso. Con le nocche, prese a massaggiarsi la nuca. Sentiva una pressione forte, che spingeva da dentro la scatola cranica; era tanto che non accadeva. Proprio ora!

    Sperò di resistere.

    Ofis chiuse la porta.

    Ballion, che non riusciva a opporsi al richiamo dei dipinti, tornò a fissarli con la stessa insistenza con cui gli occhi d’oro trapassavano lui.

    L’altro non si aspettava accoglienza diversa; scarno, silenzioso, era stato molto legato a Nücteus e aveva anche assunto il compito di custodire una delle quattro dichiarazioni con cui il Re Triste abdicava in favore del giovane della Casata cadetta. Ora, la stessa inquietante fedeltà era traslata al nuovo sovrano: Ballion della Salamandra.

    Eccomi.

    Parlava sempre come temesse di svegliare qualcuno; un male di gioventù, si diceva.

    Ballion con lui non aveva bisogno di preamboli.

    Essendo cresciuto al servizio di Nücteus, aveva avuto tutto il tempo necessario a vincere la diffidenza verso quell’individuo che compariva nelle stanze del basilèus nelle ore più inappropriate. Divenuto lui stesso re, aveva scoperto di aver coltivato timori inutili: Casa Ofis serviva Xènia da generazioni, così come il braccio fa con la mente. La Serpe giungeva strisciando dove l’esercito era costretto a fermarsi; era l’ombra proiettata dalla luce della corona.

    E Ballion aveva anche scoperto di intendersi con quell’individuo. Condividevano il medesimo 'buonsenso'.

    Dimmi quel che ignoro comandò.

    Mèlas Mixòmbrotos Darcòntos è vivo disse la Serpe.

    Ballion si mordicchiò le labbra. Le fitte si allargarono a raggio.

    Così si sospettava, ma tutti speravamo fosse una voce infondata…

    La risposta fiacca, sibilante di Ofis sembrava divertita.

    Il popolino lo fa vivere come un mostro delle leggende. Fu Nüctèus a incoraggiare questa versione. Ma dentro la corte c'eravamo convinti che fosse morto di stenti nel gelido inverno delle Òssian.

    Ballion fece una smorfia sarcastica: suo cugino non era tipo da morire a quel modo, e lui lo sapeva.

    Fu necessario che lo credessero rivelò Parthènos.

    Perché?

    Ballion non aveva gradito essere stato tenuto all’oscuro di un fatto così rilevante come la vita del legittimo Erede al trono di Xènia.

    Ofis sibilò, forse di stanchezza; non rispose.

    Un altro dei suoi segreti, che gli dei lo maledicano!

    Re Nüctèus sperò che fosse morto davvero, in realtà. In seguito, però, iniziammo a seguire strane voci di un cacciatore di mostri che corrispondeva nel nome, nell’età e nei tratti all’Erede. Star dietro a quella traccia vaga fu impossibile per almeno altri due inverni, finché alla vigilia della battaglia del Crocevia, Hìsicol il Tiranno giurò al nostro defunto sovrano un premio degno se avesse fatto un certo lavoro per lui: la testa del piccolo Drago divenuto uomo. Scoprimmo che Mèlas era ospite delle segrete di Àrista due anni fa. Il patto fu stretto.

    Quale patto? chiese al nulla il re. Ophis non avrebbe risposto e Nüctèus avrebbe tenuto stretti nel sepolcro i suoi segreti.

    Mentre ascoltava, lo sguardo del giovane era scivolato sull’unico affresco sfregiato: quello del Mezzosangue che aveva regnato su Xènia secoli prima, per poi essere trucidato dai figli. Anche se il marrone ruggine del sangue di Nüctèus che lo deturpava ne aveva scolorito i tratti, Ballion era certo di riconoscerli.

    Occhi neri intensi…

    Suo cugino poteva avere quell’aspetto, all’incirca; ne associò l’immagine all’idea vaga che i racconti narravano delle segrete di Àrista.

    Ballion represse un brivido.

    Nessuno sopravvive a quelle catacombe di tenebra.

    Lui ci era riuscito.

    Ophis, intanto, continuava.

    Quando i Ribelli rovesciarono i Due Tiranni, Nüctèus perse l’occasione di ucciderlo. Tornò a Xènia, guarì dalle ferite, infine, venne da me. Mi chiese di addestrare un manipolo di uomini scelti. Li chiamò vendicatori: erano i migliori soldati mai visti a Xènia. Li inviò in tutta Eterna a caccia del mostro. Dovevano ucciderlo, o non tornare. Per questo nulla si seppe di loro per circa un anno. Poi, il Re Buono morì…

    Ballion strinse i pugni. Chiuse gli occhi.

    Sangue.

    Schizzi ovunque, e interiora, un lezzo orribile, una scena che lo perseguitava nei sogni.

    Ballion riaprì le palpebre con una forte fitta alla nuca e lo stomaco contratto.

    Aveva disperato bisogno di bere.

    Nessuna traccia dell’assassino, nessun indizio tranne – forse – le farneticazioni di un vecchio pazzo eremita delle colline, che asseriva di aver visto un drago nero spiccare il volo nella tempesta con una figura maschile in groppa.

    Ballion sciolse i muscoli del collo per attenuare il dolore alla testa.

    Doveva calmarsi, o rischiava di avere un attacco.

    Doveva essere all’altezza.

    Ma già le prime lucine bianche e nere danzavano nel suo campo visivo come fuliggine al soffio del vento.

    Lo scorso mhète, lungo il confine a Calione, un incendio ha devastato la Verde Tomba. Dal rogo, alcuni boscaioli hanno tratto in salvo un uomo. Un'vendicatore'.

    Ballion si girò verso l’interlocutore, lentamente.

    È morto per le ustioni, ma prima che accadesse ha lasciato un messaggio. Mèlas Dracòntos è vivo: ha sterminato i suoi inseguitori e cavalca un drago lungo dieci braccia, nero come ossidiana.

    La mente di Ballion, piegata dal dolore sordo che andava crescendo, vomitò una sciocca filastrocca per bambini.

    "E così com’è andato,

    tornerà il nero principe su ali di drago".

    Il drago. Non ne restano molti a queste latitudini. Se le coincidenze combaciassero, potremmo dire di avere anche il nome dell’assassino di re Nüctèus…

    Ballion brancolò con la mano, stringendosi la tempia. L’intorpidimento ai muscoli che precedeva gli spasmi già affiorava.

    Perché ne vengo a conoscenza solo ora, Serpe? chiese, con voce sofferente, testarda.

    Parthènos si chinò: era il suo modo di chiedere perdono per una delle sue rare mancanze.

    Il mio incarico, basilèus, andava svolto nel segreto per non creare… timori negli equilibri politici del regno. Ora Xènia è vostra..

    Pertanto… ringhiò il giovane, sottomesso dal dolore …esigo di sapere di chiunque rappresenti una minaccia per la mia stirpe! Xènia è mia!

    Ophis sussurrò: Temevo per il vostro cuore giovane; l’affetto che vi legava a…

    Dici bene: legava.

    A Ballion sembrò che la precisazione furente avesse strappato un sorrisino dalle labbra sottili della Serpe; ma forse il suo autocontrollo iniziava a perdersi e vedeva cose che non erano. Erano anni che non accadeva.

    Credevo di essere guarito!

    Facendo appello a tutta la sua forza di volontà, il ragazzo riuscì a mantenersi lucido.

    Ignoro se il questuante di oggi fosse uno spettro dell’aldilà o meno, ma ne condivido il pensiero.

    Le fitte dilagarono in più punti, simili a dita di una mano stretta a morsa per spappolargli la testa.

    Un efferato assassino è ancora a piede libero, e che gli dei mi maledicano ora e sempre se non farò tutto il possibile per ottenere Giustizia!

    O vendetta!

    Come un raggio di sole che si eclissa, il re ebbe la folle intuizione di non essere più osservato: gli occhi d’oro se n’erano andati.

    Iniziava a sentire i muscoli farsi languidi prima del crollo.

    Non ancora!

    Non davanti a Ophis, né a chiunque altro.

    Mio re, siete pallido…

    Parthènos, spiega tutto questo a mio padre e digli di non farne parola con altri fino a quando non deciderò come muovermi. Ora lascia la stanza, voglio riposare.

    La Serpe non fece commenti, anche se notò l’assenza di letti e scranni su cui sedersi, o stendersi; era intelligente, acuto, discreto e preciso. Non impiegò più di un istante a uscire. E in assoluto silenzio. Probabilmente sapeva, o aveva intuito.

    Il male del tremore non era poi così raro, sebbene – per chiunque – soffrirne fosse una vergogna. Un segno di debolezza.

    Puntellandosi alla parete, Ballion si ritrovò faccia a faccia con il re Mezzosangue sfregiato.

    Mèlas…

    Sputò quel nome con una rabbia che non pensava di avere ancora.

    La scia di sangue sull’affresco non era stata forse la sua firma, la sua ammissione di colpa?

    Il dolore alla testa ormai lo squassava.

    Ballion spinse con violenza la fronte sul freddo sollievo del muro, vedendo con la nitidezza del delirio lo strascico di dolore e morte che l’ultimo Erede del Drago si era portato appresso, ovunque andasse.

    Che tu sia maledetto!

    Non era rimasto che odio legato al suo ricordo: qualunque affetto li avesse tenuti uniti prima, si era sgretolato colpo dopo colpo, crisi dopo crisi, a ogni contusione, taglio, frattura procurata dalle convulsioni, a ogni risveglio nel terrore, nella debolezza, nel gelo della sua stessa urina… a ogni umiliante, lento recupero delle forze, volta dopo volta.

    Non ricordava più nemmeno il viso del bambino che l’Erede era stato, la voce… solo il rosso abbagliante di quel maledetto colpo di spada con cui gli aveva quasi spaccato il cranio.

    Gli eventi terribili della strage, della guerra, dell’assassinio di Nüctèus, suo amico e maestro, oltre che re, non avevano fatto altro che confermare il suo odio.

    Se un tempo pensava di aver dimenticato, ora sapeva che non era così e che il perdono non sarebbe giunto. Mai.

    Murare per sempre la camera da letto, decorata da vele rosse e mari tempestosi, fu il suo ultimo, lucido pensiero.

    Scivolando all’indietro, finalmente il re cadde nell’incoscienza convulsa dell’attacco epilettico.

    Capitolo 2

    Il naufragio

    Maledetto.

    Braccato dalla sfortuna.

    Iellato.

    Nato sotto una cattiva stella.

    Inviso agli dei.

    Iniziato male.

    Proseguito peggio.

    Perseguitato dal Caso o dal Destino.

    Qualunque fosse la definizione esatta, il risultato non cambiava.

    Questo viaggio è maledetto!

    Il vento gelido che spirava dal mare le strappò le parole di bocca. Saphina rabbrividì, incapace di riscaldarsi con quel misero fuocherello sbocciato per forza dagli sterpi della riva. La bassa, mutevole duna di sabbia che lo proteggeva, non riparava lei, fradicia fino al midollo, affamata, con il naso, gli occhi e la bocca bruciati dal sale, e tanto scoraggiata da non poter fare altro che starsene lì a battere i denti. Le provviste, infilzate su rametti per cercare di asciugarle con un po’ di calore, si stavano riempiendo di granelli finissimi come pane grattugiato. Solo che erano minerale e roccia erosi dagli elementi. Quello era l’ultimo tentativo di salvare il salvabile.

    Inutile.

    Con un calcio fiacco, la ragazza spedì tutto nella brace.

    Maledetto! sibilò fra i denti, senza specificare neppure contro cosa stesse imprecando.

    Rischiò di mordersi la lingua per il gran tremore.

    Saphina, per natura, non era una pavida: la paura l’assaliva quand’era più che motivata, e comunque non scivolava mai nell’isteria. Ciò anche grazie al Sigillo della Sacerdotessa degli Dei del Cielo, che controllava le sue emozioni, impedendole di superare il livello di guardia.

    Eppure, in quel momento e in quel luogo, dopo essere scampata per l’ennesima volta a morte certa, la ragazza di Roa sentiva il proprio delicato sistema emotivo a un soffio dal collasso.

    Squassata dai brividi, si inginocchiò e batté tre volte i polpastrelli sulle labbra – cospargendole quindi di sabbia – per pregare.

    Dei del Cielo, io vi imploro perché non sono nulla e di ogni cosa ho bisogno: aiutateci…

    Un grido profondo, rauco riecheggiò fino a lei, superando perfino il rovesciarsi interminabile delle onde e il sibilo insistente del vento.

    Saphina agghiacciò.

    Aveva un’asta di puro gelo al posto delle spina dorsale e sentiva, in fondo alla gola, il rigurgito snervante di acqua salata andata di traverso.

    Raggomitolandosi su se stessa, Saphina si schiacciò dita e sabbia sulle orecchie.

    Dei del Cielo implorò con fervore, al limite del panico: Aiutateci!

    Il verso straziante si ripeté, prolungato come l’ultima esalazione di dolore di una bestia morente.

    La natura selvaggia della costa era indifferente all’urlo di sofferenza, eppure l’accoglieva e spargeva ovunque. Per quanto lontano Saphina potesse trascinarsi, il lamento l’avrebbe raggiunta.

    La giovane, invece, non era più disposta a sopportarlo.

    Dondolandosi con le braccia strette al corpo, Saphina si rannicchiò fino a sparire fra le dune.

    Bramava il calore come un passerotto nel gelo dell’inverno, invece il fuoco si stava spegnendo, scendeva la notte più ventosa che ricordasse dacché aveva lasciato Riposo del Cielo e flotte bellicose di nubi temporalesche andavano a esplorare le acque su cui scatenare la loro guerra. Avrebbe piovuto prima del Crepuscolo delle Stelle a giudicare dall’umidità che si respirava.

    Dopo lunghi minuti di abbandono disperato, il falò morì di stenti, lasciando braci rosseggianti e inconsolabili. Saphina non se ne avvide per molto tempo; era come in trance.

    Si riscosse per gradi.

    Sollevò il capo e il vento la fece barcollare.

    Ascoltava.

    Lo strazio infernale di quei ruggiti era finito.

    La ragazza rimase in bilico fra sollievo e terrore al pensiero di cosa avesse messo la parola fine al pandemonio.

    Solo allora vide il filo di fumo del fuoco spento.

    Neppure si disturbò a inquietarsi.

    Le era già capitato abbastanza, e se cedeva alle proprie emozioni, il Sigillo l’avrebbe messa fuori combattimento per molte, molte ore. All’addiaccio e sotto una probabile tempesta.

    Le occorrevano un riparo e un altro fuoco.

    Mettendosi in piedi, pensò di non essersi mai sentita così intorpidita, nel corpo come nella mente.

    Il vento la spostò di un palmo, giocando a spintoni. Se era calato il silenzio, laggiù, poteva anche tornare.

    Doveva.

    Voleva.

    Scappare era stato un gesto vigliacco, una vergogna per una Guaritrice, ma facendo il contrario sarebbe di certo impazzita.

    Mèlas non l’aveva aiutata a scegliere.

    Ritrovando un appiglio di orgoglio, Saphina raccolse la sacca fradicia. Camminò spinta dal vento, con la veste incollata alle cosce e il mantello aderente alla schiena; attraversò la spiaggia per la terza volta.

    Raggiunse la bassa, contorta foresta di conifere marine caracollando da un lato e dall’altro; superate le prime fronde, però, il vento non filtrava più e lei poté avanzare più veloce.

    Nell’oscurità crescente scelse, per orientarsi, di seguire la devastazione sinuosa che aveva preceduto il loro arrivo sulla terraferma.

    Lei per poco non era annegata.

    Le facevano ancora male le abrasioni provocate dal fondo della riva marina, dove le onde l’avevano risucchiata indietro, nella risacca potente.

    Il mare era un grosso bambino che, nella sua forza, non sapeva distinguere fra gioco e violenza.

    Saphina era stata quasi ingoiata dal suo abbraccio irruento.

    Per fortuna di quel maldestro approccio non restavano che cristalli di sale annidati qua e là sul corpo maltrattato, e alghe scure tra i capelli, e sulla veste.

    La ragazza piegò la testa, cercando di liberarsi i timpani dall’acqua. Odiava quella sensazione.

    Raggiunse una radura.

    L’aveva creata Neromanto.

    Fuggendo da quel che era accaduto, a Saphina il percorso era sembrato interminabile; ora che tornava sui suoi passi nel silenzio rotto solo dalle domande cigolanti dei rami contorti dal vento, avvertiva la spiacevole sensazione di essere giunta a destinazione troppo presto.

    O troppo tardi.

    Senza i ruggiti distorti che entravano fin nelle viscere, anche il tumulto della natura sembrava solo pace.

    Era buio.

    Mèl? Sono io…

    Dichiarazione inutile: lui di certo sapeva da un pezzo del suo ritorno.

    Lo scintillio di un paio d’occhi le suggerì dove dirigersi a tentoni. Inciampò in grovigli di rami spezzati. Uno le procurò un brutto taglio nella coscia.

    Ahi!

    Un brontolio cupo fece eco all’esclamazione, ma venne subito sedato dalla voce bassa di Mèlas, che scandiva le parole di quella sua lingua misteriosa come fosse un canto. Al contempo non lo era, ma fluiva comunque bene.

    Saphina rimase a distanza di sicurezza.

    Attese il nuovo silenzio.

    Posso avvicinarmi, ora?

    Le tremava un po’ la voce.

    Prima Neromanto le si era rivoltato contro, e non sotto forma di cavallo.

    Per la precisione, aveva sventrato ogni conifera o porzione di terreno fino a creare una radura attorno a lui. Che lei fosse in mezzo a quell’opera di distruzione non lo aveva fermato.

    L’animale era impazzito, e Saphina aveva dimostrato tutta la sua inesperienza in fatto di draghi mutaforma facendosi avanti per placarlo.

    Il nero cacciatore, una sagoma scura fra le ombre aggrovigliate, le fece cenno di restare dov’era.

    Fu lui ad alzarsi e a raggiungerla.

    Zoppicava ancora un poco, ma non faticò a sollevarla da terra e a portarsela dietro tra le braccia.

    Saphina approfittò con gratitudine del passaggio: non aveva fretta di piantarsi un’altra scheggia di legno nelle carni. Il contatto con il corpo di Mèlas, poi, la riscaldò.

    Allestirono un campo poco lontano dalla devastazione.

    Accesero un fuoco in una buca del terreno sabbioso.

    Creare un falò fu un lavoro di qualche minuto, supervisionato dai sibili curiosi del vento e dai tlak e gnee dei pini. Il boato delle onde era lontano.

    Troppo silenzio, constatò la ragazza, le cui orecchie vibravano ancora dell’eco delle urla.

    Ormai le dava i brividi ogni cosa, e non fu sufficiente la luce della fiamma per rischiarare le ombre che aveva nel cuore.

    A lungo i due viandanti rimasero muti, seduti a gambe incrociate ai lati del falò. Sembravano relitti spinti a riva dal mare; le vesti appese in alto ad asciugare ricordavano le tristi vele di un naufragio.

    Saphina era avvolta dal solo mantello. Di tanto in tanto sollevava lo sguardo per concentrarsi sul calore della fiamma, che dalle mani protese risaliva in tutto il corpo.

    Aveva sete e fame, e questo le diede il pretesto per attaccare per prima.

    Le provviste sono andate.

    Immaginava che le sue parole non avrebbero prodotto reazione, ma constatarlo la irritò ugualmente. Ne aveva più che motivo.

    Una tensione sorda l’avvolgeva da ore, pronta a scatenarsi per una inezia; lei non voleva che accadesse, eppure non riusciva a trattenerla.

    Fissò Mèlas, ben sapendo che l’unico modo efficace di provocarlo fosse quello.

    I suoi occhi neri abbassati, scoperti perché i lunghi capelli neri erano rimasti incollati tra loro oltre la fronte a causa dell’acqua di mare, fissavano in modo assente le fiamme.

    Il volto affilato aveva la stessa espressione che, per un istante, era emersa oltre la sua indifferenza quella mattina lontana in cui si era consumato il loro primo litigio nelle scuderie del Lepus Niger.

    Sempre a proposito di Neromanto.

    Saphina strofinò le mani per liberarsi dalla sabbia, mentre la mente dava autonomo giudizio su quanto vedeva.

    Non conosceva Mèlas senza la solita patina di indifferenza.

    Ne aveva paura.

    Ma più mostruoso ancora era trovarlo così umano a causa del suo adorato destriero mentre, fino a poche ore prima, non un guizzo o un palpito ne avevano alterato i lineamenti marmorei. Eppure, quasi una dozzina di persone erano morte fra le sue mani, nell’indifferenza più totale di chi le uccideva.

    E lei aveva assistito dall’inizio alla fine.

    Dopo ogni tonfo sordo del corpo che toccava il ponte di assi della nave per Syr-inà-mèhee, Mèlas si era voltato per incontrare i suoi occhi bicolore.

    Per provocarla, come ora lei faceva – invano – su quella spiaggia.

    Ecco cosa sono sembrava dire il suo viso.

    Non chi.

    Cosa.

    Perché nemmeno l’acciaio di una lama sarebbe stato in grado di uccidere con tanta indifferenza. Con tanta infallibile perfezione.

    Seppure di fronte a una simile dimostrazione di orrore, il cuore di Saphina non aveva ceduto, né si era distolto da lui. All’opposto, aveva sussultato forte, non di piacere o amore, ma di spietata soddisfazione.

    Quegli individui erano stati pagati per ucciderla, per odiarla a pagamento, dopo averle estorto qualche altro svago da sotto gli abiti.

    E quando Mèlas era piombato su di loro, eliminandoli uno a uno con la perizia di un artista al momento dell’ultimo tocco alla sua opera, la voce dentro di lei aveva urlato di gioia, slanciandosi contro le barriere dell’autocontrollo.

    Era un mostro anche lei?

    Sono sempre stata così? si era chiesta Saphina.

    Conosci la risposta le aveva risposto la voce.

    Ora, sulla terraferma, nel buio, la ragazza non l’udiva più.

    C’erano solo il vento, i rami, le onde e i tuoni lontani.

    Saphina sbirciò il cielo tra gli aghi di pino agitati.

    Il Vecchio Padre non scaglierà su di noi i suoi fulmini.

    La voce di Mèlas la prese alla sprovvista.

    Immobile.

    Sembrava così assorto dalle fiamme che Saphina dubitò di averlo realmente udito.

    Il Vecchio Padre?

    Mèlas sembrava perso in una malia ordita dal fuoco. Non sollevò lo sguardo.

    Il Vecchio diceva sempre così: significa che la tempesta scaricherà in mare.

    Lieta di sentirlo parlare, la ragazza accantonò la rabbia e sorrise nervosa.

    In effetti, mi preoccupavo.

    Mutevoli danze di luce e ombra galleggiavano sulla pelle nuda del Mezzelfo; lui non soffriva il freddo, ma per rispetto alla compagna si era stretto in vita un lembo del sudicio vestiario rubato alla galea prima della fuga, mentre attendeva che il resto asciugasse.

    Il suo era lo sguardo di una creatura che giunge da un luogo remoto come la luce delle stelle.

    Saphina continuava a fissarlo, contesa fra la propria ansia e un pensiero che coagulava piano.

    Non è il solito.

    Tormentandosi i capelli resi duri dal sale, rimase pensierosa alcuni istanti, poi decise di mettere alla prova il suo sospetto.

    Chi è il Vecchio?

    Una domanda tanto diretta e precisa, formulata in tono secco, avrebbe soppresso la loro incerta conversazione fino al mattino dopo. Invece Mèlas fece una cosa incredibile: incrociò le braccia al petto e rispose, senza staccare mai gli occhi dal fuoco.

    Un cacciatore di mostri di nome Gomphrèm. Lo chiamavo Vecchio perché lo era diventato per il troppo bere. Tutti lo chiamavano così. Era il mio maestro.

    Saphina sentì un moto di esultanza. Spazzò via in un angolo rabbia, fame e freddo.

    A occhi estranei poteva sembrare ridicolo, ma per la prima volta il giovane con cui viaggiava da decine di giorni di cammino le dava risposte su di sé. Allo stesso tempo, tuttavia, la ragazza di Roa intuì la reale portata del cambiamento di Mèlas; la constatazione la portò dall’esultanza all’ansia.

    Che si trasformò in puro terrore quando il Mezzelfo sollevò quelle iridi nere come ossidiana e la fissò senza batter ciglio, viso contro viso.

    È morto anche lui, se ti interessa saperlo. Ucciso da venti mostri annoiati come quelli sulla nave.

    Saphina deglutì: per quel anche pronunciato dopo la parola morto, e per l’assenza di qualsiasi inflessione di tono nella voce. Era la medesima indifferenza che lo vestiva mentre uccideva.

    Non un sicario, non uno strumento perfetto e letale.

    Avvolto dalla notte, con solo volto e petto che emergevano dal nero denso dello sfondo boschivo, Mèlas sembrava la Morte stessa.

    La risata limpida di Saphina ruppe l’atmosfera tetra e soffocante che avvolgeva i due giovani. La cappa bassa dei pini di mare non sembrò più così minacciosa.

    Mèlas reagì con moderata sorpresa, emergendo per qualche istante dal torpore strano del fuoco.

    Ridi?

    La voce era più sincera.

    Anche quella rappresentava una novità: ora il nero cacciatore, se provocato o sotto tensione, reagiva.

    Con rabbia.

    Saphina sfregò il dorso della mano sotto il naso, anche per smorzare il sorriso. Ed era, la sua, più una smorfia che una reazione di gioia.

    Tempo fa ti chiesi chi ti ricordavo. Ci eravamo appena conosciuti nella Verde Tomba… Ebbene, pare che io abbia la particolare dote di riportarti alla mente solo cose dolorose. Lo vedo, sai? Quando mi guardi, o non mi guardi. Tu non te ne accorgi, ma la tua espressione cambia.

    Mèlas tornò a fissare le fiamme.

    Un tuono si accordò al rombo del mare e del vento.

    Ti fa ridere?

    Saphina alzò le spalle.

    Un raggio di sole mentre piove apre l’Arco dai Sette Colori, la Porta degli Dei Celesti. Mia madre… una delle mie madri me lo disse quand’ero molto piccola, così imparai che un sorriso nei momenti più tristi può far accadere miracoli.

    Mèlas, stavolta, non replicò.

    Io ti amo, Mèl disse la giovane. Con tutto il cuore, e ti desidero!

    Mordendosi le labbra, rossa in viso, Saphina attese con occhi colmi di aspettativa. Ma, com’era ovvio, fu disillusa dal silenzio remoto del nero cacciatore.

    La giovane abbassò il capo.

    Per qualche tempo, mi sono illusa di riuscire un giorno a condividere con te questo sentimento. Ora non più. Io suscito in te solo dolore, ed è giusto che sopprima tutto, perché fa troppo male tenerselo dentro…

    Scoppiò in lacrime proprio quando pensava di avercela fatta senza.

    Devo, devo solo ringraziare gli Dei del Cielo se tu non mi odi! balbettò, mentre il pianto scioglieva il sale e la sabbia, e le mani li strofinavano via in nuove forme di incrostazione.

    Io non ti odio.

    La voce calma di Mèlas pose fine ai singhiozzi.

    Ti desidero come un uomo desidera una donna.

    Il cuore di Saphina sbatté così forte sulla gabbia toracica da restarne tramortito.

    Lui, ora, la osservava senza riserve. Con un gesto lento, portò la mano pallida all’altezza del petto, afferrò l’aria, salì al volto e si aprì, vuota.

    Ma non posso darti altro, né oggi, né domani. Qui dentro non c’è niente, niente di quello che cerchi. Se pensi che ti basti, prendilo pure: ne ho in abbondanza per chiunque. Ma quando ti accorgerai che non è solo un corpo caldo a cui stringerti che desideri, allora sarà tardi e soffrirai molto di più.

    La verità porta alla morte dei sogni, e quella appena svelata lasciò Saphina annichilita.

    Una fanciulla normale si sarebbe disperata; una fanciulla da meno avrebbe giaciuto subito con quel bellissimo, tenebroso dio, continuando a illudersi, sognando, in segreto, i mille piccoli passi che lo avrebbero fatto innamorare di lei.

    Saphina non era una fanciulla qualunque.

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